La prescrizione del diritto al risarcimento
Sicuramente la rilevanza del tema della prescrizione nella problematica della responsabilità extracontrattuale per danni da emotrasfusioni ed emoderivati ha costituito uno dei punti di maggior rilievo nelle decisioni delle SS.UU.
Molte delle cause sottoposte all’esame della Suprema Corte erano state introdotte a distanza di decenni dalle infezioni post-trasfusionali con conseguente coinvolgimento della falce della prescrizione che, in particolare per le azioni contro il Ministero della salute per responsabilità extracontrattuale, prevede il termine di cinque anni ex art. 2947 c.c.
Diversa per certi versi, nel senso di essere più agevole (ma non più di tanto in presenza di infezioni estremamente remote: anni “˜70 ““ “˜80), è l’azione indirizzata verso il medico e la struttura sanitaria per l’ottenimento del risarcimento dei danni a titolo contrattuale, poiché in questo caso l’attore si può giovare del termine decennale di prescrizione.
Quali siano i motivi di questa “esagerata” posticipazione dell’azione risarcitoria non incide, come si dirà appresso, sul piano della consapevolezza soggettiva del danneggiato ma su quella oggettiva delle conoscenze scientifiche del tempo e dell’ordinaria diligenza.
Tuttavia, il massivo ritardo (colpevole o incolpevole) nell’esercizio dell’azione da parte della stragrande maggioranza dei danneggiati, non può non essere valutato dal giurista che da quel fenomeno sociale deve attingere elementi di valutazione.
Non a caso l’Ufficio del Massimario relazionava alle Sezioni Unite che “”¦il lungo intervallo di tempo che spesso intercorre tra il fatto dannoso e la proposizione dell’azione è dovuto a vari motivi, alcuni episodici e destinati a non riproporsi in futuro, altri caratteristici di questa problematica. Il motivo transeunte, legato per così dire alla cronaca, è che le cause attualmente sottoposte all’attenzione della Corte sono le prime (insieme a quella definita con sentenza n. 11609 del 2005) giunte alla definizione in sede di legittimità in cui emerge la vastità assunta negli anni “˜70 e “˜80 del fenomeno del contagio a seguito dell’assunzione di sangue infetto. E’ questo un rischio antico quanto la necessità dell’assunzione di sangue altrui, e tuttavia in quegli anni, sia per lo sviluppo di nuove patologie, sia per la terribile diffusività di una di esse, unita inizialmente alla mancanza di conoscenza nell’ambito della comunità scientifica, sia per la lentezza degli Stati nell’aggiornare con tempestività le misure di prevenzione, il contagio di epatopatie (siano esse HBV, HCV o AIDS) in seguito a trasfusioni o all’assunzione di prodotti derivati dal sangue diviene negli anni “˜70 e “˜80 un fenomeno di diffusione e di allarme sociale ““ non solo in Italia – molto più considerevole che in passato. Occorre anche dire che c’è stato un intervallo di tempo prima che la comunità scientifica fosse in grado di informare adeguatamente la popolazione circa le modalità del contagio e le precauzioni da prendere per limitare i rischi. Il dato caratteristico di queste fattispecie, in relazione all’istituto della prescrizione, è che queste patologie danno luogo a fatti illeciti c.d. lungolatenti, in cui cioè la manifestazione esterna del danno è cronologicamente sfalsata rispetto alla condotta antigiuridica e quindi la malattia si manifesta in tutta la sua gravità solo a distanza di tempo, spesso molto tempo, dopo il verificarsi del contagio”¦” (Relazione n. 35 del 21 marzo 2007).
Il tutto deve essere ragguagliato alla luce delle storie cliniche delle principali patologie da sangue infetto. L’HBV; l’HCV ed l’HIV sono notoriamente malattie asintomatiche e silenti, capaci di risiedere per anni nell’organismo umano senza dispiegare la propria aggressività .
Parallelamente alla patologia, che continua ad agire indisturbata per anni, la persona non conosce di essere stata infettata fino a quando, in genere incidentalmente, dalla lettura di esami o analisi cliniche si evince che (ad esempio nel fegato, nel caso di epatiti) c’è un malfunzionamento biologico.
A quanto sopra deve aggiungersi che, successivamente alla sopravvenuta conoscenza della patologia, al danneggiato risulta difficile ravvisare il collegamento della malattia e quell’evento trasfusionale di molti anni prima, almeno per due ragioni: la prima, in quanto potrebbe non ricordare affatto di essere stato trasfuso; la seconda, poiché solo ad un esperto (e non sempre!) può apparire facile intravedere il nesso causale fra emotrasfusione ed infezione.
Quindi, il riscontro della patologia infettiva appare, nella quasi totalità dei casi, una tragica fatalità e pertanto, prima ancora delle Sezioni Unite dell’11 gennaio 2008 (come si dirà appreso), la Corte aveva già ampiamente chiarito che “”¦qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il “fatto” che l’art. 2947, 1° comma, c.c. individua quale esordio della prescrizione”¦” (Cass. civ., Sez. III, 21/02/2003, n. 2645, Cfr. anche Cass. n. 12287/04 e n. 10493/06).
Così le SS.UU., confermando il precedente orientamento ed adattandolo alla fattispecie dei danni c.d. “lungolatenti” da emotrasfusioni infette hanno definitivamente chiarito che “”¦il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. , e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”¦” (Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 583. Cfr. anche n. 581/08 e n 580/08). Avv. Rosita Mezzini