RESPONSABILITÀ MEDICA E SANITARIA
CONSENSO E DISSENSO ALLE TRASFUSIONI
Di Antonio Vallini Università degli Studi di Pisa DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO (Articolo con lievi modifiche pubblicato su Diritto Pubblico 2003; 1:185-217 e su www.med.unipi.it)
SOMMARIO:
1. Definizione del problema e precisazioni metodologiche.
2. L’art. 32 Cost. ed il diritto di rifiutare le cure anche “a costo” della vita.
3. Rifiuto di cure e paziente incosciente: esame critico delle opinioni più diffuse.
4. Una possibile soluzione: le “apparenti” ambiguità dell’art. 9 della Convenzione di Oviedo.
5. Puntualizzazioni ed aspetti problematici.
1. Tra le situazioni più difficili che possono presentarsi nell’esercizio dell’attività medica, si pone indubbiamente quella del rifiuto da parte del paziente di una determinata terapia, quando tale scelta realizzi un pericolo per la salute o per la stessa vita.
Casi come questi prospettano una drammatica alternativa[1]. Il rispetto della volontà del paziente sarà per lo più avvertito dal sanitario come una sorta di “agevolazione” di un comportamento autodistruttivo, intrinsecamente contraddittoria rispetto al significato originario della propria professione, tanto più difficile da accettare quanto più sussistano concrete possibilità di restituire il malato ad una vita normale, e quanto più le ragioni del rifiuto di cure appaiano difficilmente comprensibili o irrazionali. D’altra parte, l’imposizione coattiva del trattamento sanitario, comunque essa possa essere concepita e realizzata, assumerà evidentemente i tratti di una violenza, particolarmente umiliante non solo perché rivolta al “corpo” del paziente, ma soprattutto perché destinata a svilire le convinzioni personali più radicate e profonde dell’interessato: la sua concezione della vita e della morte; i suoi “punti di vista” sotto il profilo etico, filosofico, religioso; il diritto di ergersi ad unico “vero” arbitro dei propri più intimi interessi.
La responsabilità per la gestione di vicende così problematiche viene a ricadere, nei fatti, interamente sul medico. Per lo più, il diritto interviene, in questo campo, a posteriori, per valutare “col senno di poi” (e con esiti pressoché imprevedibili) il significato penale della vicenda. Nel momento, tuttavia, in cui si impone una decisione operativa, vanamente il professionista potrebbe cercare un qualche supporto nella scienza e nella prassi giuridica, capaci sinora di offrire soltanto una gamma gravemente contraddittoria di soluzioni: il sistema normativo, ed i soggetti che di questo sistema dovrebbero costituire i portavoce, sembrano abdicare pilatescamente al proprio ruolo di orientamento “preventivo” dell’agire umano .
Indicazioni a dir poco ambigue si evincono, in primo luogo, dalla giurisprudenza, oscillante tra gli estremi dell’individuazione di misure coercitive “atipiche”, utili al medico per adempiere comunque al proprio compito di tutela della salute anche contra voluntatem[2], ed invece il riconoscimento di un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure[3], addirittura anche quando non confermabile, stante lo stato di incoscienza del paziente[4]. Altrettale variabilità di vedute si riscontra in dottrina[5]. Contrapposte ad un’impostazione, sostanzialmente dominante, che deduce dalla chiara lettera del secondo comma dell’art.32 della Costituzione l’impossibilità di una qualsiasi imposizione coattiva di trattamenti sanitari, si riscontrano, difatti, numerose posizioni rigoristiche, ancorate al dogma dell’assoluta indisponibilità della vita. L’esistenza di un “dovere di vivere” quale limite implicito al diritto, costituzionalmente tutelato, di rifiutare le cure, viene affermata motivando vuoi sulla base delle norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio, vuoi alla luce dell’art.5 del codice civile; con riferimento, poi, alla Costituzione, si richiamano ora l’obbligo costituzionale di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale, di cui agli artt.2 e 4 Cost. (obbligo rispetto al quale atti di disposizione “negativa” della propria salute o, addirittura, della propria vita costituirebbero un’inaccettabile “scappatoia”), ora il valore costituzionale della (dignità della) “persona umana”, gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti alla libertà e all’autodeterminazione, e da intendersi «non come volontà di realizzarsi liberamente, ma come valore da preservare e realizzare nel rispetto di se stessi»[6]. Il nugolo di opinioni diviene poi ulteriormente fumoso allorquando, dal piano delle valutazioni di carattere squisitamente giuridico-penalistico, la visuale si estenda ad impostazioni in varia misura riguardanti il piano della bioetica[7], della filosofia[8], della deontologia medica[9].
Indubbiamente una tale difformità di vedute risulta, in buona misura, fisiologica, con riferimento ad una questione tanto complessa e coinvolgente. Quel che si può tuttavia rimproverare alla scienza giuridica, è il frequente indulgere a considerazioni magari di notevole significato culturale, ma che rischiano di risultare fuorvianti nel contesto di un’argomentazione che aspiri ad essere squisitamente giuridica. Se, in particolare, l’intento è quello di dedurre dal sistema vigente le “regole” spendibili in casi come questi, il giurista dovrebbe, con un vero e proprio “atto di umiltà”, indossare i panni dell’esegeta “puro” e “neutrale” del dato positivo, tralasciando improvvisazioni filosofiche o da politico del diritto, e tentando, nei limiti dell’umanamente possibile, di “astrarsi” dai propri convincimenti, affinché essi non alterino surrettiziamente il percorso argomentativo. Un impegno tutt’altro che inesigibile: basta, in poche parole, da un lato estromettere programmaticamente dall’argomentazione qualsiasi notazione di valore che non trovi un immediato ed evidente riscontro di carattere normativo; dall’altro, non tentare a tutti i costi di capovolgere, con sofismi più o meno raffinati, le soluzioni che appaiano maggiormente coerenti col dato normativo, solo perché ritenute inconciliabili con aprioristiche opzioni ideologiche.
Questa scelta metodologica non impone necessariamente, di per sé, una sterile riproposizione della lettera della legge. Com’è noto, una scelta interpretativa può dirsi fondata nella misura in cui rappresenti, piuttosto, l’esito più congruo, sul piano logico-argomentativo, della dialettica sempre intercorrente tra “regole” e “principi”: non soltanto “legittima”, ma addirittura doverosa è una lettura teleologicamente orientata della normativa vigente, perché una deferenza acritica al tenore lessicale della singola disposizione, atomisticamente considerata, rischia in realtà di tradire il “sistema” giuridico, introducendovi fattori di incoerenza «non solo logica ma soprattutto valutativa»[10]. Purtuttavia, qualsiasi interpretazione “orientata ai valori” deve dedurre questi ultimi da norme di diritto positivo che li valorizzino esplicitamente, per non piegare le soluzioni adottate ad opzioni non già proprie dell’ordinamento giuridico, ma munite di un generico fondamento “culturale”, o addirittura semplicemente proprie del singolo interprete.
2. Entrando in medias res, è nostro intendimento – ispirato da evidenti ragioni di economia espositiva – dedicare attenzione soltanto ad alcuni “aspetti”, tra i tanti ipotizzabili, della problematica in esame. Un primo profilo meritevole di considerazione è quello inerente all’esistenza stessa di un diritto di rifiutare le cure, anche laddove quest’ultimo implichi, nei fatti, una rinunzia alla vita. Un secondo profilo – che assume rilievo, ovviamente, soltanto risolvendo affermativamente il primo – concerne la persistente validità del dissenso rispetto alle cure, qualora il malato, in quanto incosciente, non sia in grado di darne conferma. Per quanto, nella motivazione di alcune sentenze, a queste due questioni venga dedicata una considerazione unitaria ed indifferenziata, esse sembrano in realtà connotarsi in modo del tutto eterogeneo. Con riferimento alla prima ipotesi, difatti, sembra potersi affermare una sostanziale univocità di principi e valori in gioco, tanto da poter dedurre la “regola” operativa immediatamente da quei principi; nel secondo caso sembra per contro palesarsi un contrasto irrisolto di principi, con una inevitabile complicazione del ragionamento ermeneutico. Ma procediamo con ordine.
L’art. 32, secondo comma, della Costituzione afferma a chiare lettere che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario»; a meno che un intervento coattivo non sia espressamente e specificamente autorizzato dalla legge, e a patto che i contenuti di quest’ultima siano rispettosi del valore della “persona umana”. Quel che viene a sancirsi è, insomma, un vero e proprio diritto generale di rifiutare le cure[11] (che nella più recente giurisprudenza costituzionale è stato, tra l’altro, giustamente interpretato come forma speciale di manifestazione del diritto alla libertà personale di cui all’art.13 Cost.[12]). Altre eccezioni a tale diritto, oltre a quella dei trattamenti sanitari obbligatori, non sono previste: in nessun dove appare esplicitato un “dovere di vivere”[13], né in altro modo sembra potersi individuare nel “rischio di morte” (o di malattia) un limite negativo al criterio della volontarietà dei trattamenti sanitari. Nessuna legge, v’è da aggiungere, prevede un trattamento sanitario obbligatorio nel caso in cui il rifiuto di cure implichi una rinunzia alla vita. Non meritevoli di considerazione – perché frutto di un evidente sovvertimento della gerarchia delle fonti – sono quelle impostazioni[14] che negano la configurabilità di un dovere (costituzionalmente affermato) di rispettare la volontà del paziente, richiamando all’uopo norme codicistiche (dunque di legge ordinaria, come gli artt. 579 e 580 del c.p., l’art. 5 c.c., gli artt. 593[15] o 54 c.p. [16]). A poco vale l’escamotage di dedurre da tali disposizioni un supposto “principio generale” di indisponibilità del bene vita[17], perché pur sempre di un principio collocato sul piano della legge ordinaria si tratterebbe, come tale incapace di fissare limiti alla regola sancita in modo generale ed inequivoco dall’art.32, 2° comma, Cost.. Né può condividersi l’opinione di chi afferma che la Costituzione, se avesse voluto sovvertire il principio di indisponibilità della salute, avrebbe dovuto farlo expressis verbis[18]: quasi che i valori costituzionali non fossero quelli esplicitati nel testo della Carta fondamentale, ma quelli desumibili da altre fonti, magari previgenti (e quindi implementate in un ordinamento al cui globale superamento era diretto lo sforzo dell’Assemblea Costituente), solo perché da quel testo non apertamente contraddette.
Alla luce, poi, delle premesse metodologiche cui si faceva cenno poc’anzi, non ci paiono neppure condivisibili i tentativi di sostenere la tesi di un limite “implicito” al diritto di rifiutare le cure, da alcuni affermato argomentando dal valore della “dignità della persona umana”[19]. Si sta perseguendo un’interpretazione il più possibile fondata su dati normativi certi: il criterio della “dignità” è certo di valenza costituzionale, ma appare tutt’altro che univoco contenutisticamente. Più in particolare, sintetizzando al massimo la miriade di definizioni in materia, può dirsi che trattasi di un valore la cui tutela viene da taluni concepita come essenzialmente “eterodiretta” rispetto all’individuo (nel senso che tale bene si connoterebbe di contenuti “oggettivamente” riconosciuti come del tutto indisponibili), mentre altri preferiscono attribuire a quel concetto un significato prettamente “autodeterminato”, visto che soltanto al singolo spetterebbe definire la dimensione della propria dignità, venendo quest’ultima ipso facto compromessa nel momento in cui l’ordinamento pretendesse di imporre all’individuo – con riferimento a scelte concernenti unicamente la sua persona – priorità ed opzioni ideologiche da lui non condivise. Orbene: chi si appella a questo referente ambiguo della “dignità”, per negare valore ad un rifiuto di cure implicante un grave danno alla salute, dà per dimostrato ciò che dovrebbe dimostrare, ovvero che, nelle situazioni problematiche di cui si discute, tale concetto assuma una valenza “eterodeterminata”, fungendo da limite rispetto all’autodeterminazione. Ben si potrebbe ritenere rilevante, difatti – d’accordo con la maggior parte dei commentatori[20] – un diverso concetto di “dignità” il quale, lungi dal porsi in contrapposizione con il criterio di autodeterminazione, ne costituirebbe la stessa ratio ispiratrice. D’altra parte, il tenore letterale dell’art.32 2° comma è chiaro nell’attribuire al valore intrinseco della “persona umana” un ruolo sì di limite, ma non già rispetto al principio consensualistico, quanto – con logica esattamente opposta – nei confronti degli spazi legittimamente attribuibili al settore dei trattamenti sanitari contra o praeter voluntatem. Neppure ci pare da seguire chi – facendo riferimento, ad es., agli artt.2 e 4 Cost. – individua nella dimensione “sociale” dell’individuo l’elemento che giustificherebbe l’impedibilità di qualsiasi atto lato sensu autodistruttivo. Si afferma, nello specifico, che nessuna persona potrebbe disporre in termini negativi della propria vita e della propria salute, perché tale scelta implicherebbe una sottrazione agli obblighi sussistenti nei confronti degli altri consociati, di carattere lato sensu solidaristico[21]. Tale ragionamento finisce, nella sostanza, col trasformare surrettiziamente il “diritto alla salute”[22] in un “dovere alla salute”: il benessere psico-fisico viene ad essere inteso non più come prerogativa del singolo, atta a fondare una pretesa solidaristica nei confronti dello Stato e della società, ma come prerogativa dello Stato e della società, implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene “in forma” per meglio poter “servire” alla collettività. Ci sembra difficilmente comprensibile come tale ricostruzione – che involontariamente ripropone le istanze “utilitaristiche” di talune sciagurate ideologie totalitarie – possa conciliarsi con una norma costituzionale che a chiare lettere afferma la non obbligatorietà dei trattamenti sanitari. Certo, la “salute” è considerata, dal primo comma di quella disposizione, anche un interesse “della collettività”, oltre che “dell’individuo”; ma è poi proprio il secondo comma a sancire espressamente criteri e limiti entro i quali (eccezionalmente) la tutela di quel bene possa essere sottratta, per fini sociali, alla disponibilità del singolo, alludendo ai trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge. Non appare convincente il tentativo di convertire apoditticamente l’eccezione nella regola, ampliandone i presupposti applicativi oltre quelli espressamente sanciti.
In conclusione: unico “principio” costituzionale sicuramente riconoscibile come tale è quello della necessaria volontarietà, sempre e comunque, dei trattamenti sanitari[23] (fatta salva la pratica impossibilità di ottenere un “consenso” espresso: v.infra). Anche norme subordinate all’art.32 Cost. sembrano, d’altra parte, informarsi a questo criterio. Tra le più significative possono ricordarsi l’art.33 della l. 833/78 («i trattamenti sanitari sono di norma volontari»: l’eccezione a cui si allude è, ancora una volta, quella dei trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge); l’art.4 del decreto ministeriale 1° settembre 1995, che definisce le trasfusioni come pratiche terapeutiche per le quali è necessario il consenso informato del ricevente[24]; nonché, di recente, alcune disposizioni particolarmente significative della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina” (c.d. “Convenzione di Oviedo”) del 1997, ratificata in Italia con legge 28 marzo 2001, n.145[25]. In particolare devono ricordarsi l’art.2 della Convenzione, che, smentendo qualsiasi tipo di concezione “utilitaristica” dell’individuo e del suo benessere psico-fisico, afferma a chiare lettere la prevalenza «dell’interesse e del valore dell’essere umano» sul «solo interesse della società o della scienza»[26], e l’art.5, ove si afferma, al primo comma, che i trattamenti medici possono essere attuati soltanto «dopo che la persona interessata vi abbia consentito liberamente ed espressamente».
La collocazione gerarchica dei valori in gioco è talmente univoca da contenere in nuce, senza la necessità di ulteriori specificazioni, la stessa “regola” valida per il caso di specie: il medico non può mai imporre alcuna terapia, alcun accertamento diagnostico, alcuna attività medico-sanitaria in genere, laddove a ciò osti il dissenso del paziente, anche quando tale dissenso significhi, nei fatti, l’accettazione della morte.
3. Di molto si complica la questione, tuttavia, non appena la situazione fattuale di riferimento si arricchisca di un ulteriore profilo: lo stato di incoscienza del paziente, che abbia precedentemente dissentito rispetto alle cure che si prospettano necessarie.
È bene chiarire sin da subito, a scanso d’equivoci, come la mancanza attuale della capacità di esprimere un consenso non dia adito a particolari problemi applicativi almeno in tre casi, diversi da quello di nostro immediato interesse: 1) quando il paziente abbia coscientemente accettato l’intervento sanitario, prima di perdere conoscenza; 2) quando, pur mancando la condizione sub 1 (o addirittura sussistendo un previo “rifiuto”), le cure non appaiano tuttavia “necessarie” ed “urgenti”; 3) quando l’interessato non abbia precedentemente espresso alcun “dissenso” rispetto al tipo di trattamento che, nella contingenza, appaia indifferibile (o abbia di recente revocato, anche per facta concludentia, un dissenso precedentemente manifestato). Dalla prima ipotesi deriva, ovviamente, un dovere di intervento, posta l’armonica convergenza dell’istanza “volontaristica” e di quella “solidaristica”. Nel secondo caso, nella misura in cui sia “tecnicamente” possibile procrastinare l’intervento, il principio “consensualistico” mantiene intatto il proprio significato, non implicando il rispetto di tale principio la “lesione” del valore – dialetticamente contrapposto – della “salute”. Il medico sarà allora obbligato ad attendere che il paziente “ritorni in sé”, per svolgere con lui il necessario “dialogo” informativo, senza sentirsi autorizzato ad agire sol perché a lui appaia “del tutto improbabile” (o, peggio, “ingiustificabile”) un eventuale dissenso.
Nell’ultima ipotesi, infine, non si vede che cosa dovrebbe impedire l’attuabilità degli interventi necessari ed indilazionabili, non emergendo in alcun modo un interesse personale contrario e prevalente rispetto a quello valorizzato in via principale dall’ordinamento, ovvero l’interesse “alla salute”. Tale assunto trova oggi ulteriore conforto nell’art.8 della citata Convenzione di Oviedo, alla luce del quale, in caso di urgenza che renda impossibile ottenere un «appropriato consenso», «si potrà procedere immediatamente a tutti gli interventi indispensabili da un punto di vista medico per garantire la salute della persona interessata»: la contrapposizione tra questa norma ed il successivo art.9, di cui si è detto e di cui si dirà, evidenzia come ci si riferisca ad una situazione di “urgenza” relativa ad un paziente che non abbia espresso “direttive anticipate” di carattere negativo. V’è di più: con particolare riferimento, se non altro, al medico ospedaliero, l’intervento si prospetterà in questi casi non solo come lecito, ma come doveroso. Nessuna regola vigente, infatti, legittimerebbe un’astensione dalle cure; per contro, è pacifico che la “posizione di garanzia” del professionista sussista per intero anche nei confronti del paziente “accettato” nel nosocomio in stato di incoscienza. Invero, «nel caso di paziente consenziente, la doverosità dell’attività medica discende dalla subordinazione della natura intrinsecamente solidaristica dell’attività medica e della tutela della salute (art.32 comma 1, Cost.) alla componente personalistica della volontà del paziente (art.32, comma 2, Cost.). Diversamente, nel caso di paziente incosciente o incapace, la doverosità del trattamento ha un fondamento esclusivamente solidaristico, non soggetto a essere integrato dalla volontà del paziente, ma eterolimitato dal disposto dello stesso art.32, comma 1, Cost., là dove, imponendo la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, impone che l’attività del medico sia svolta nell’interesse esclusivo del paziente»[27].
Ben più problematico appare invece il caso di cui si diceva in apertura di paragrafo, relativo all’ipotesi di uno “stato di incoscienza” che renda non confermabile un precedente rifiuto relativo a terapie che si rivelino, nella contingenza, assolutamente improcrastinabili ed insostituibili.
In questa situazione, come si adombrava poc’anzi, appare difficoltosa la stessa individuazione di “principi” utili a guidare l’interprete. Se si dovesse ritenere quel dissenso in varia guisa “meno pregnante” del normale, sarebbe ancora lecito affermare la preminenza comunque della “autodeterminazione” rispetto al dovere generale di tutela della salute gravante sulle strutture pubbliche? Il criterio di mediazione dialettica tra le istanze del solidarismo (o, come altri dicono, della “beneficialità”)[28] e del consensualismo, in materia di trattamenti sanitari (art.32, 1° e 2° comma, Cost.), è usualmente dato dalla manifestazione di volontà del paziente; tale criterio, in questo caso, fornisce tuttavia indicazioni ambigue, risultando incapace di determinare univocamente la prevalenza dell’uno o dell’altro principio in gioco.
Tale incertezza appare confermata, più che risolta, dalla Convenzione di Oviedo. L’art.9 recita difatti: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà, saranno presi in considerazione» [29]. Si prescinde volutamente dall’indicare quando, come ed a quali condizioni il medico debba attribuire rilievo a tali disposizioni anticipate, e che cosa significhi, in concreto, “prendere in considerazione”: a quali fini? Con quali effetti?
La direttiva espressa dalla Convenzione aveva già avuto modo di evidenziare la propria ambiguità una volta trasposta nell’art. 34 del Codice di Deontologia Medica del 1998 («il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso»)[30]. La “ratifica” della convenzione finisce con l’elevare questa ambiguità a livello di “legge ordinaria”, enfatizzandone la contraddittorietà ed estendendone il rilievo all’intero ordinamento[31]. V’è, a dire il vero, chi tenta di risolvere tale complessità affermando, nella sostanza, che in questi casi solo uno dei due “principi” – quello “solidaristico”, per la precisione – avrebbe ragione di essere invocato (di talché l’intervento terapeutico risulterebbe comunque doveroso). Come continuare a fare appello, difatti, ad un criterio di “autodeterminazione”, a fronte di un paziente privo di coscienza e, dunque, del tutto incapace di “autodeterminarsi”? Che senso avrebbe invocare la tutela di un valore del tutto inespresso dal caso concreto[32]? Attraverso questo abile escamotage nominalistico, peraltro, si oscura la dimensione sostanziale del problema, confondendo il valore tutelato con i criteri di individuazione di quel valore. La “manifestazione di volontà”, resa impossibile dallo stato di incapacità, è soltanto un mezzo di cognizione attraverso il quale il paziente rende noto, se del caso, il proprio interesse a non essere curato. Evidentemente, quello che l’art.32, 2° comma, tutela non è un interesse, di incerto significato, a “poter materialmente manifestare il proprio dissenso” (interesse che potrebbe effettivamente riconoscersi soltanto a chi abbia attualmente le capacità psico-fisiche necessarie per poterlo concretizzare), ma un interesse a non essere curato – quale contraltare dell’interesse ad essere curato cui si riferisce il primo comma dell’art.32 Cost. – di cui ben può essere titolare (alla stregua di qualsiasi altro interesse) anche il paziente incosciente. Quest’ultimo non è più in grado, nella contingenza, di estrinsecare la propria volontà; ma ciò, di per sé, non può significare che quel valore non inerisca più alla sfera delle sue prerogative giuridiche[33].
Neppure condivisibili appaiono quelle impostazioni che affermano la necessità di ricorrere, in questi casi, a criteri di ricostruzione del “vero” interesse del paziente dotati di una non meglio dimostrata fondatezza “empirica” o “equitativa” che dir si voglia, e che condurrebbero a sovvertire sempre e comunque il valore del dissenso già espresso. Si dà credito, in particolare, ad un criterio di “consenso presunto”, ovvero ad un consenso verso le cure che sarebbe costantemente da presumersi ogni qual volta si prospetti altrimenti, per il paziente incosciente, un rischio di morte: e ciò perché, si afferma, l’istinto di autoconservazione sarebbe insopprimibile in ogni essere vivente[34]. Un primo aspetto problematico di siffatte concezioni è la mancanza di un qualsivoglia referente normativo, atto a supportarle. D’altra parte, anche dal punto di vista sostanziale, meriterebbe qualche riscontro in più l’asserzione di un impulso umanamente ineluttabile (per definizione) a “sopravvivere”, suscettibile di prevalere su qualsiasi volontà contraria precedentemente espressa, magari radicata in profonde convinzioni di carattere religioso o etico. Già la sola casistica giurisprudenziale in materia sembra, al contrario, smentire in modo eclatante queste considerazioni, ed altrettale sconfessione deriva dalla stessa esistenza di drammatiche questioni sociali come quella dei limiti di liceità dell’eutanasia consensuale, che non avrebbero motivo di esistere se nessuno volesse mai, in nessun caso, veramente morire.
D’altra parte, gli stessi autori che invocano il canone del “consenso presunto” riconoscono invece l’assoluta validità di un dissenso rispetto alle cure (con correlativa accettazione dell’eventualità della morte) laddove manifestato da chi sia capace di intendere e di volere: ammettendo con ciò, evidentemente, l’”umana possibilità” di un siffatto dissenso. Su questi presupposti, il criterio in discussione si palesa per quello che è, ovvero non già una presunzione, munita di un’adeguata giustificazione empirica, ma una vera e propria fictio argomentativa, che imporrebbe di considerare a priori consenziente rispetto alle cure il paziente in stato di incoscienza solo perché tale, anche quando egli abbia in precedenza, per contro, espresso il proprio dissenso.
In realtà, se si vuole offrire una soluzione il più possibile convincente, bisogna accettare il fatto che l’ambiguità delle indicazioni “di principio”, in casi come questo, rende intrinsecamente opinabile qualsiasi approccio teleologicamente orientato, qualsiasi interpretazione evolutiva ed orientata “ai valori”, perché processi ermeneutici di questo tenore verrebbero inevitabilmente ad essere condotti senza la guida di un referente finalistico normativamente fondato, e dunque non potrebbero non connotarsi di un coefficiente più o meno evidente di “arbitrarietà”. Né conforto può essere ricercato sul piano di presunte “regole di esperienza”, che incontrino nel dato empirico o antropologico la propria validità, giacché tali regole (oltre a non poter costituire, di per sé, “diritto”) forniscono indicazioni del tutto equivoche.
Adottando questo punto di vista, deve riconoscersi che le uniche disposizioni rinvenibili nel sistema, in materia di limiti di liceità dei trattamenti sanitari (quelle disposizioni, in particolare, cui si è accennato poc’anzi), subordinano la liceità dell’intervento medico ad un requisito di volontarietà. Certo, già lo si è detto: quello che assume rilievo non è tanto la sussistenza di una “capacità” attuale di manifestare il proprio consenso o dissenso, ma la presenza di un interesse ad essere ovvero a non essere curato. Peraltro, fonte di cognizione privilegiata, per “certificare” tale requisito è, per il nostro ordinamento, una manifestazione di volontà del paziente. Altri criteri di ricostruzione dell’interesse del paziente non sono presi in considerazione dalla legge. Nella situazione che stiamo affrontando, una manifestazione di volontà, innegabilmente, è riscontrabile, e testimonia un interesse a non ricevere certe cure: non si può dunque a priori negare l’applicabilità di quelle disposizioni al caso di specie. O meglio: non è consentito condurre il ragionamento ermeneutico muovendo dal presupposto che, qualora il soggetto versi in stato di incoscienza, si debba far necessariamente ricorso ad una regola che affida l’individuazione del best interest a parametri che prescindono dai contenuti della sua precedente manifestazione di dissenso, senza aver prima accuratamente evidenziato le ragioni per cui quel dissenso non avrebbe (più) l’efficacia che l’ordinamento normalmente gli riconosce[35].
Certo: può darsi che l’individuo in stato di incoscienza non sia più lo “stesso” individuo, o che comunque i suoi “interessi” possano ritenersi mutati rispetto al momento in cui egli manifestò la propria avversione rispetto a certi trattamenti sanitari[36]; ma può anche darsi che non sia così. Solo in virtù di un salto logico si può dedurre, da una tale situazione di incertezza, una certezza nel senso di una prevalenza del bisogno di cure. D’altra parte, la stessa esperienza esistenziale individuale sembra piuttosto testimoniare la validità della opposta soluzione: chi di noi riterrebbe di dover essere considerato un “altro”, dal punto di vista dei valori cui ispira le proprie scelte personali, nel momento in cui, ad es., si addormenti, perdendo la propria “coscienza di sé”?
Inoltre, un aspetto da non sottovalutare è che il problema in discussione non esaurisce le proprie implicazioni con riferimento alla questione (sin troppo “manipolabile” in funzione di preferenze interpretative preconcette) del best interest del paziente incapace: è necessario prendere in considerazione anche eventuali ripercussioni della prestazione sanitaria sull’esistenza futura, da individuo “cosciente”, del medesimo. Orbene, da questo punto di vista non vi è un motivo plausibile per ritenere che tale soggetto, una volta riacquistato il dominio di sé, non debba continuare a condividere quelle opzioni ideologiche, etiche e religiose che avevano, in passato, ispirato la sua avversità rispetto a certi trattamenti sanitari. Sembra dunque tutt’altro che azzardato affermare che definizioni aprioristiche e semplificate dell’”interesse” del paziente incosciente possano far sì che questi, al “risveglio”, avverta comunque il trattamento subito come una violenza nei confronti della propria libertà di autodeterminarsi. Un esito del genere è particolarmente probabile, ad es., con riferimento al caso “classico” del testimone di Geova sottoposto ad una trasfusione coattiva, il quale, ripresa conoscenza, venga a scoprire che, suo malgrado, nel suo corpo scorre il sangue di un altro soggetto, con quel che ne conseguirà sul piano delle sue chances ultraterrene, a mente dei dogmi religiosi di cui è osservante[37]. Poco importerà, a questo soggetto, che si dimostri in vario modo che suo interesse prevalente, al momento dell’urgenza terapeutica, era a sua insaputa divenuto quello a ricevere tale trattamento, giacché è soprattutto sulla sua vita futura e cosciente (e addirittura sulla sua proiezione ultraterrena) che l’intervento emotrasfusionale verrà ad esercitare, ai suoi occhi, un’influenza “nefasta”.
Ancora: può darsi che, al cospetto dell’imminenza effettiva ed attuale della morte, il soggetto sarebbe disposto (se solo fosse cosciente) a rivedere una sua precedente “accettazione”, compiuta “a freddo”, ma può anche darsi che non sia così. Non è lecito affermare che, in astratto, tutti gli individui sarebbero vincolati ad un insopprimibile istinto di autoconservazione, per le ragioni più sopra evidenziate. La dimostrazione di un’irrilevanza, sempre e comunque, del precedente dissenso non può raggiungersi neppure su questa strada.
In questo quadro, assume piuttosto plausibilità un’altra impostazione, che non pretende di “vaticinare” il “vero” interesse del paziente incapace, ma muove intelligentemente dalla constatazione di un’incertezza cognitiva sul punto. Se non è possibile affermare con sicurezza l’invalidità del dissenso precedente, è pur sempre vero che la sua mancata confermabilità lo rende quanto meno di dubbia attualità. Tale perplessità andrebbe in qualche modo risolta, non essendo consentito, al giurista, di pervenire ad un non liquet. Orbene, unico criterio valido all’uopo sarebbe quello riassumibile nell’evocativo brocardo in dubio pro vita[38]. La logica di questa conclusione sembra essere la seguente: nel dubbio circa la prevalenza, nel caso di specie, di un valore soltanto “individualistico” – come quello a rifiutare il trattamento sanitario – ovvero di un valore che, se fosse proprio dell’individuo, corrisponderebbe al contempo anche ad un istanza obiettiva dell’ordinamento (il diritto alla salute), parrebbe opportuno comportarsi come se quest’ultimo fosse quello effettivamente poziore, se non altro perché, scegliendo l’opposta soluzione, il tipo di disvalore che si verrebbe a determinare, in caso di erroneità della scelta, sarebbe notevolmente superiore[39].
Tale impostazione, pur suggestiva e logicamente rigorosa, appare tuttavia discutibile nel momento in cui pone sullo stesso piano due possibilità già a prima vista tutt’altro che equivalenti: se, difatti, l’ipotesi dell’esistenza di un interesse a non essere curato risulta in qualche modo “documentata”, quella opposta si fonda su poco più che un’illazione. V’è dunque se non altro da dubitare che, scegliendo di praticare comunque la cura, si concretizzi un “minor rischio” di ledere il “vero” interesse del paziente, che non nell’ipotesi opposta[40].
Inoltre, il criterio dell’ in dubio pro vita non sembra coerente con norme oggi positivamente riscontrabili nel sistema. Per suo tramite, difatti, si arriva ad affermare, in pratica, una regola atteggiata nei termini di un dovere costantemente valido di applicare il trattamento oggetto di un documentato rifiuto. Ma se tale è la “regola”, come può essa conciliarsi con quella disposizione – questa sì espressamente definita dal nostro sistema – per cui il medico «dovrà prendere in considerazione» le direttive anticipate del paziente (art.9 della Convenzione di Oviedo)? Tale prescrizione – già lo si è detto – è oggi trasmigrata dal mero ambito “deontologico”, dov’era “confinata” dall’art.34 del Codice di deontologia medica, a livello di legge ordinaria. Orbene: come già evidenziato, una disposizione del genere non è in grado, in positivo, di offrire un criterio certo di comportamento, non essendo chiaro cosa significhi, in concreto, “tener conto” delle direttive anticipate; ma sicuramente, in negativo, questa norma non può voler dire che il precedente dissenso verso le cure del paziente incosciente non debba mai assumere rilevanza.
Si potrebbe obiettare che la Convenzione di Oviedo, per quanto ratificata, non assuma un significato immediato (non sia, come si dice, self-executing), fintantoché non ne saranno attuate le direttive da parte del legislatore nazionale. Questo è sicuramente vero per buona parte delle disposizioni di quell’atto internazionale, troppo “compromissorie” per poter risultare dotate di efficacia applicativa diretta[41]; non si vede tuttavia per quale ragione regole atte a rivestire un diretto supporto ermeneutico – come quella “negativa” di cui si è appena detto – non dovrebbero costituire un referente attuale per l’interprete, o addirittura dovrebbero risultare recessive rispetto ad altre (supposte) regole prive di un altrettale riconoscimento sul piano del diritto positivo. Insomma: a fronte dell’incertezza – innegabile – circa la prevalenza, nel caso di specie, di un interesse a curarsi o a non curarsi, l’unico dato normativamente sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere; il che vuol dire che il criterio dell’in dubio pro vita non si attaglia al caso di specie, o per lo meno non è in grado di definire una “regola” orientata nei termini della prevalenza sempre e comunque del bene salute.
A ciò si aggiunga che, generalizzando la logica dell’”in dubio pro vita”, l’atto terapeutico, in quanto tale, troverebbe la propria giustificazione soltanto nell’istanza solidaristica ogni qual volta il malato sia incapace, e non solo quando questi avesse precedentemente dissentito, ma anche quando egli avesse autorizzato l’intervento. Anche in questo caso, difatti, si dovrebbe coerentemente “dubitare” dell’attualità del suo consenso (perché non confermabile), di talché l’attività medica si giustificherebbe soltanto in virtù dell’esigenza di tutelare l’interesse – tra quelli ipoteticamente in gioco – di “maggiore” pregnanza (la salute): un fondamento di legittimità all’evidenza ispirato unicamente al criterio della “beneficialità”, e del tutto sganciato da qualsiasi parametro “consensualistico”. Con la conclusione, all’evidenza inaccettabile, che tutti gli interventi chirurgici implicanti un’anestesia totale, ad es., ben potrebbero, in pratica, prescindere da qualsiasi consenso, ché tanto quest’ultimo risulterebbe automaticamente invalido con la perdita di conoscenza del paziente[42]. Negandosi qualsiasi valore al principio dell’autodeterminazione, poi, verrebbero ad essere vanificate eventuali opzioni del malato per un tipo di intervento piuttosto che per un altro: ogni sua scelta sarebbe di “dubbia” validità per il fatto stesso della sua inattualità, e l’atto medico dovrebbe allora ispirarsi esclusivamente ad un best interest del tutto eterodeterminato.
4. Dunque, riassumendo: il rifiuto di cure vincola il medico a non intervenire, anche se ciò dovesse comportare una compromissione seria dello stato di salute, o addirittura la morte. Non è rinvenibile nel sistema una regola che sancisca l’invalidità sempre e comunque di una manifestazione di dissenso verso le cure, qualora il manifestante cada successivamente in uno stato di incoscienza: esiste, invece, una regola diversa, alla stregua della quale tale volontà deve avere ancora un (qualche) significato. Resta da specificare ulteriormente questa direttiva, per capire in che cosa questo “significato” possa concretizzarsi.
Un primo punto che merita sin da subito di essere chiarito, è che il discrimine tra la validità persistente o meno del rifiuto di cure non può certo correlarsi ad un indagine di merito, utile a valutare quali “motivazioni” a non essere curate risultino più o meno “apprezzabili”[43]. Al di là dell’inaccettabilità intrinseca, in un sistema pluralistico, di una regola che attribuisca a chicchessia un sindacato circa la bontà delle opzioni ideologiche, etiche, religiose o comunque “personali” di un altro soggetto, v’è da dire (ponendo l’attenzione esclusivamente e “neutralmente” al dato positivo) che l’art.32, 2° comma, della Cost., e le norme subordinate che a tale disposizione si ispirano, affermano la validità del rifiuto di cure in quanto tale, senza pretendere oneri di argomentazione, e senza discernere tra moventi più o meno “degni” del rifiuto. Non v’è ragione plausibile per cui questa “indifferenza delle motivazioni” dovrebbe d’improvviso essere rivista, nel caso di incoscienza del paziente, se non quella di ipotizzare uno Stato che “approfitta” della situazione di “minorata difesa” del singolo per arrogarsi un diritto di sindacato – cui in generale ha opportunamente abdicato – circa il merito di scelte dalle implicazioni interamente individuali[44].
Neppure sembra lecito ipotizzare un criterio in base al quale il dissenso sarebbe in qualche modo “meno” efficace del normale, se non confermabile. L’effetto che l’ordinamento, in generale, attribuisce a quell’atto di disposizione è l’illiceità tout court dei trattamenti sanitari contestati: un esito, all’evidenza, insuscettibile di graduazioni quantitative. Il dissenso o è valido, oppure no: se è valido, il medico ha il dovere di non intervenire; se non lo è, il medico ha il dovere di intervenire. Tertium non datur.
Più in generale, a dire il vero, sembra difficile individuare una regola, nella normativa vigente, in grado di specificare quando, ed a quali condizioni, il previo dissenso risulti vincolante, o non vincolante. Nessuna disposizione sembra poterci aiutare sul punto. Tutto quello che la legge ci dice, è che il medico dovrà “tener conto” del previo dissenso: si lascia intravedere la presenza di un discrimine tra rifiuti di cure vincolanti e non vincolanti per il medico, ma non si precisa su quali direttrici tale discrimine venga a collocarsi. A fronte di un siffatto dato normativo, le deduzioni che l’interprete legittimamente può trarre sono, essenzialmente, due.
Potrebbe affermarsi, in primo luogo, la sussistenza di una lacuna normativa stricto sensu, da colmarsi attraverso l’analogia. Seguendo questa opzione, bisognerebbe chiedersi quali norme, tra quelle vigenti, possano considerarsi volte a disciplinare una materia “simile” a quella di cui si discute. In quest’ottica, verrebbe quasi istintivamente da far appello alla (nuova) disciplina in materia di trapianti di organo, in gran parte diretta proprio a definire i presupposti di efficacia di una manifestazione di volontà destinata ad esplicare i propri effetti addirittura post mortem[45]. Più in generale, si potrebbe pensare alle disposizioni civilistiche in materia di testamento[46]. Minimo comune denominatore di queste regolamentazioni, infatti, è quello di attribuire efficacia a manifestazioni di volontà non confermabili, purché documentate per iscritto, e rese nel rispetto di formalità dirette vuoi a garantire esigenze di “certezza”, vuoi ad assicurare la piena consapevolezza del dichiarante circa i contenuti della propria dichiarazione.
Un’estensione analogica di tali normative, al di là di ogni suggestione, non appare tuttavia utilmente praticabile. In primo luogo, sembra discutibile individuare una corrispondenza tra la materia degli atti di disposizione della propria salute e della propria vita – ovvero di beni dotati di un “significato” costituzionale espresso e primario – e la materia degli atti di disposizione mortis causa di altre entità (il proprio cadavere, interessi patrimoniali e familiari, ecc.). Anche ammessa, peraltro, una qualche simiglianza tra tali “materie”, è vero tuttavia che le normative testé evocate risultano troppo intimamente connesse alle caratteristiche delle fattispecie specificamente regolata per potersene concepire un’utile trasposizione in diversi campi d’interesse. Così, con riferimento alla l. n. 91 del 1999, il “significato” dell’atto di disposizione del proprio cadavere si implementa esclusivamente nel contesto di una più complessa procedura amministrativa, appositamente pensata per la tematica dei trapianti[47]; non avrebbe dunque senso – e probabilmente non sarebbe neppure logicamente possibile – estendere i requisiti di validità di tale atto di disposizione ad ambiti del tutto svincolati da una sia pur analoga “procedimentalizzazione”. I diversi oneri “formali” previsti dalla legge per il testamento, poi, si comprendono in una logica tutta civilistica di “validità” o “invalidità” dei rapporti giuridici privatistici discendenti da un atto negoziale a contenuto patrimoniale; logica difficilmente esportabile nel contesto di un atto, come quello di rifiuto di cure, che sembrerebbe più opportunamente qualificarsi, analogamente al consenso scriminante[48], nei termini di un mero “atto giuridico”, o comunque di un “negozio” a contenuto non patrimoniale.
Più in generale, d’altronde, deve ricordarsi come “principio” normalmente riconosciuto in materia di atti di manifestazione della propria volontà sia quello della libertà di forma, con conseguente natura “eccezionale” (ed inestensibilità analogica) delle singole prescrizioni normative di oneri formali[49].
La constatazione della mancanza di referenti atti a supportare una qualsivoglia analogia, accresce la plausibilità di una seconda ipotesi. In particolare, non sembra azzardato affermare come, in realtà, quella individuabile nell’art.9 della Convenzione di Oviedo sia soltanto una lacuna apparente. L’art.9, difatti, ben potrebbe essere interpretato nei termini non già di una disposizione alludente ad una differenza – inevitabilmente bisognosa di specificazioni ed integrazioni ulteriori – tra categorie di rifiuti di cure sempre efficaci, ed altri sempre inefficaci; ma, ben diversamente, nei termini di una norma la quale, dando per scontata la validità assoluta della manifestazione di volontà contraria alla terapia (già evincibile dall’art.5 della Convenzione medesima, non a caso rubricato “regola generale”), individui a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di “onere cautelare”, consistente nel sincerarsi circa l’effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. Il medico “dovrà tener conto” della precedente dichiarazione del malato, in qualunque modo essa sia stata espressa e formalizzata, per valutare se in essa sia riconoscibile un dissenso effettivamente riferito al caso concreto, a quella specifica situazione di urgenza terapeutica[50].
Detto in altri termini: se nel sistema non è individuabile, neppure in via analogica, una “regola” destinata a discernere in via generale ed astratta, in materia medico-sanitaria, tra atti di autodeterminazione “inattuali” ma validi, ovvero non validi, è forse proprio perché tale differenziazione, in via generale ed astratta, non esiste; l’atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, in linea di massima, anche in casi così particolari, solo che l’impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente “si attagli” alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l’accettazione di quegli specifici esiti[51]. La sopravvenuta incoscienza non già, dunque, come evenienza suscettibile di determinare l’applicazione di una regola specifica e diversa da quella, ordinaria, che vieta l’attuazione di trattamenti sanitari contra voluntatem (regola che sarebbe priva di un qualsivoglia fondamento normativo), ma come dato fattuale suscettibile in concreto di rendere più difficoltoso, in un’ottica lato sensu “probatoria”, l’accertamento dell’esistenza di un effettivo dissenso rispetto alle cure[52].
Vari sono i parametri che possono ritenersi utili allo svolgimento di questa verifica. Senza pretese di esaustività, può ricordarsi, in primo luogo, il canone della corrispondenza “contenutistica”, per così dire, tra le modalità di manifestazione dell’atto di volontà, e gli aspetti salienti del caso di specie[53]. Vi dovrà essere, insomma, una precisa simmetria tra il tipo di trattamento sanitario di cui si prospetta la necessità, ed il tipo di trattamento sanitario oggetto del rifiuto: in caso di incertezza su questo punto, saranno le eventuali “motivazioni” del dissenso ad offrire un criterio risolutivo (ad es., un rifiuto di cure derivante dalla convinzione religiosa dell’esistenza di un divieto divino di “assunzione”, in varia guisa, del sangue altrui, sarà evidentemente da ritenersi riferito a tutti i trattamenti implicanti una qualche forma di “contaminazione” ematica, con riferimento esclusivo, tuttavia, alle sole pratiche terapeutiche implicanti l’utilizzazione di sangue umano o animale, non già di prodotti sintetici). Ma dovrà anche essere chiaro, dalle modalità di manifestazione del dissenso, che il paziente è disposto ad accettare l’eventualità di pericoli significativi per la salute, o addirittura per la vita: se il rifiuto di cure risulti a tal proposito del tutto ambiguo, ben si potrà dubitare di una sua pertinenza a situazioni concrete connotate in modo specifico da rischi di questo genere. Ancora una volta, per meglio comprendere quanto l’eventualità della morte sia stata effettivamente presa in considerazione dal singolo, sarà utile, tra l’altro, soppesare le “ragioni” specifiche del suo dissenso, non già per sottoporle ad un giudizio di meritevolezza, ma per dedurre da esse i limiti “contenutistici” del rifiuto di cure.
Non poco significato, ci pare, assumeranno d’altra parte anche i tempi ed i modi di manifestazione del previo rifiuto di cure, e questa volta non tanto per comprenderne l’estensione, ma per essere certi, ancor prima, della sua effettiva esistenza. Sono ipotizzabili una moltitudine di situazioni “intermedie” tra quella, estrema, di un rigetto di determinati trattamenti terapeutici, ampiamente motivato sulla scorta di considerazioni di carattere religioso o ideologico, espresso per iscritto su di un documento che il soggetto portava sempre con sé fino al momento di perdere conoscenza (con ciò evidenziando la propria perdurante adesione a quella manifestazione di volontà[54]); e quella, anch’essa estrema (per motivi uguali e contrari), di un rifiuto di cure generico, manifestato in modo del tutto informale ed episodico a qualche conoscente, in tempi risalenti, e mai più confermato, ed oltretutto connesso a suggestioni irrazionali derivanti da situazioni del tutto contingenti. Sarà necessario, di volta in volta, prendere in considerazione (nei limiti del possibile) contesto, ragioni e motivi della manifestazione di volontà, per comprendere quanto essa effettivamente corrispondesse ad un intimo ed immutato convincimento del malato. Per un indagine di questo tipo, saranno d’aiuto anche colloqui con i più intimi conoscenti del paziente, al fine di ricostruire le convinzioni reali e più radicate del soggetto[55]: non già tuttavia, si badi, per operare una sostituzione delle valutazioni di questi soggetti a quelle del paziente medesimo[56].
È in questo contesto che, ci pare, merita di essere affrontata e risolta la spinosa questione della base di legittimità di un intervento medico diretto a curare un soggetto in pericolo di vita, ed in stato di incoscienza, a causa di un precedente tentativo di darsi la morte (ad es. attraverso l’assunzione di dosi massicce di barbiturici). L’atto del suicidio, difatti, normalmente non assume un significato così univoco, di per sé, da potersi dire implicitamente comprensivo di un netto rifiuto verso qualsivoglia terapia “salvavita”[57]. Spesso, difatti, l’impulso autodistruttivo discende da spinte irrazionali, momentanee, comunque conflittuali, come tali per lo più insuscettibili di assorgere al ruolo di un consapevole e razionale “dissenso” (e si ricordi, tra l’altro, che l’art.32 tutela un diritto di rifiutare le cure, non un diritto di uccidersi tout court[58]). Il medico dovrà dunque normalmente ritenere inesistente, in questi casi, un atto di autodeterminazione rilevante ai sensi del secondo comma dell’art.32 Cost.: a meno che, com’è ovvio, il rifiuto di cure dell’aspirante suicida non sia deducibile da altre manifestazioni di volontà, da ritenersi valide per il caso di specie in base ai criteri già definiti.
5. Giunti a questi risultati, sembra opportuno, a scanso di equivoci, compiere qualche ulteriore, sommaria precisazione.
In primo luogo, l’art.32 della Cost. non contempla un’alternativa tra curarsi e lasciarsi morire, tra curarsi e lasciarsi ammalare, ma si riferisce esclusivamente al diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari[59]. Il che significa che, contrariamente a quanto alcuni autori polemicamente affermano[60], il medico destinatario di un dissenso non già generalizzato, ma riferito soltanto a specifiche cure, non sarà per ciò solo liberato da qualsiasi dovere nei confronti del paziente, ma dovrà comunque ricorrere a tutte le terapie alternative rispetto a quella divenuta impraticabile[61], purché esse abbiano legittimazione scientifica (giacché il dovere del curante si informa per l’appunto alla miglior scienza ed esperienza medica[62]). Qualora il dissenso sia di così ampia portata da rendere in sostanza impraticabile qualsiasi tipo di intervento (venendo con ciò a coincidere con una vera e propria richiesta di eutanasia consensuale passiva[63]), a carico del medico residuerà comunque un dovere di dialogare col paziente circa le implicazioni di una tale scelta[64], essendo un’adeguata informazione, e se opportuno una corretta e sapiente attività di persuasione, gli ultimi mezzi disponibili per ottemperare al proprio compito di garante[65].
Per quanto riguarda poi la particolare “soluzione” che in questa sede si prospetta a proposito del caso di un malato dissenziente in stato attuale di incoscienza, è ovvio che non si ipotizza l’attribuzione al medico di un autonomo potere-dovere “inquirente”[66] analogo a quello proprio di un pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Invero, ciò che conta è che il sanitario compia quelle verifiche, circa la “reale” volontà del paziente, esigibili in situazioni di così pressante emergenza, nei limiti delle concrete possibilità offerte ad un soggetto privo di qualsiasi autorità “istituzionale” in tal senso. Se dovesse poi a posteriori risultare che, in realtà, quel dissenso non era significativo, l’omissione di terapie, con esito mortale, potrà comunque considerarsi non dolosa – se il medico era assolutamente convinto della presenza di un rifiuto di cure – e neppure colposa, se tale convinzione discendeva da una considerazione sufficientemente attenta dei dati a sua conoscenza. Ciò a prescindere dal problema della qualificazione dogmatica del rifiuto di cure – problema che in questa sede volutamente trascuriamo – nei termini di una “scriminante” del reato eventualmente realizzato con l’omissione di terapie[67], ovvero nei termini di un fatto che impedisce il sorgere dello stesso “obbligo di garanzia” nei confronti del malato dissenziente (e con ciò la stessa configurabilità di un fatto tipico omissivo)[68]. Resta a tutt’oggi aperto il problema della qualificazione penalistica da dare ad un intervento terapeutico contra voluntatem (vuoi accompagnato dalla convinzione erronea della “non validità” di un eventuale dissenso – che potrebbe comunque assumere i tratti, a seconda dei casi, ed ammessa la rilevanza penale di tale intervento, di un errore escludente il dolo, ovvero di un errore sul precetto, del quale valutare la scusabilità – vuoi invece volontariamente diretto contraddire la libera scelta del paziente). Effettivamente, soprattutto quando esso sia stato attuato nei confronti di un soggetto in stato di incoscienza, solo a prezzo di qualche forzatura possono dirsi applicabili le fattispecie comuni a tutela dell’autodeterminazione[69]. Sembra dunque doversi onestamente concludere che, per lo meno de iure condito, quel comportamento, pur disdicevole, e sicuramente offensivo di un diritto di valenza addirittura costituzionale, non assume rilievo penale. Sicuramente, peraltro, ne assume uno di carattere deontologico; ben si potrebbe ipotizzare, peraltro, anche una responsabilità di carattere civilistico, implicando quel fatto la lesione di un “diritto soggettivo”, qual è quello di rifiutare le cure.
Non si deve peraltro trascurare una possibile rilevanza “indiretta”, sul piano penalistico, di una mancata copertura consensualistica dell’atto medico, d’altra parte già “intuita”, per così dire, da un significativo filone giurisprudenziale. Invero, non sembra azzardato ritenere che la presenza di un dissenso del paziente faccia sì che l’atto di cura comunque prestato non possa più considerarsi afferente all’ambito di quelle “attività medico-terapeutiche” che l’ordinamento disciplina e valorizza, giacché requisito essenziale di tali attività è proprio quello della non obbligatorietà (nei termini di cui al secondo comma dell’art.32 Cost.). La cura arbitrariamente praticata degrada, per così dire, a comportamento “comune” incidente sull’integrità fisica e sulla libertà morale di una persona. In tal modo, assumono rilevanza non più quelle regole cautelari, tipicamente rivolte ad attività “pericolose” ma “autorizzate”, dirette a definire modalità comportamentali utili a ridurre i rischi insiti in condotte che in generale risultano “socialmente adeguate”, bensì quella sola prescrizione che impone di non praticare tout court attività non positivamente valutate dall’ordinamento, in vario modo suscettive di sfociare in esiti penalmente rilevanti. Ciò significa che, in caso di esito infausto dell’attività sanitaria arbitrariamente svolta, una responsabilità se non altro colposa dovrà dirsi sussistente anche qualora fossero stati rispettati tutti i canoni della migliore scienza medica, essendo stata comunque violata la regola cautelare che imponeva di non accingersi neppure a quel tipo di comportamento rischioso. Qualora poi si dovesse ritenere, con buona parte della dottrina, l’attività medica di per sé normalmente tipica, una responsabilità penale addirittura dolosa potrà per lo più affermarsi anche in caso di risultati positivi per la salute del paziente[70].
[1] Riconducibile – almeno ictu oculi – al paradigma del “conflitto di doveri”, espressione di un sottostante conflitto di beni (cfr. sul punto A.BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di doveri, Milano, 1963, spec. pp. 64 ss.): il dovere di tutela della salute come valore “obiettivo”, da un lato, ed il dovere di rispettare l’autodeterminazione del paziente, dall’altro lato. [2] Per un’applicazione in tal senso dell’art.700 c.p.c., cfr. ad es. Pret. Pescara, decr. 8/11/74, in Nu.dir., 1975, p. 253, nota A.PIANIGIANI; Pret. Modica, ord. 13/8/90, in Foro it., 1991, I, col. 271 ss.. Sul punto v. anche F.RAMACCI – R.RIZ – M.BARNI, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv.it.med.leg., 1983, p. 863. [3] V. ad es. Ass. Firenze, 18/10/1990, Massimo, in Foro it., 1991, II, col. 242; TAR
SOMMARIO:
1. Definizione del problema e precisazioni metodologiche.
2. L’art. 32 Cost. ed il diritto di rifiutare le cure anche “a costo” della vita.
3. Rifiuto di cure e paziente incosciente: esame critico delle opinioni più diffuse.
4. Una possibile soluzione: le “apparenti” ambiguità dell’art. 9 della Convenzione di Oviedo.
5. Puntualizzazioni ed aspetti problematici.
1. Tra le situazioni più difficili che possono presentarsi nell’esercizio dell’attività medica, si pone indubbiamente quella del rifiuto da parte del paziente di una determinata terapia, quando tale scelta realizzi un pericolo per la salute o per la stessa vita.
Casi come questi prospettano una drammatica alternativa[1]. Il rispetto della volontà del paziente sarà per lo più avvertito dal sanitario come una sorta di “agevolazione” di un comportamento autodistruttivo, intrinsecamente contraddittoria rispetto al significato originario della propria professione, tanto più difficile da accettare quanto più sussistano concrete possibilità di restituire il malato ad una vita normale, e quanto più le ragioni del rifiuto di cure appaiano difficilmente comprensibili o irrazionali. D’altra parte, l’imposizione coattiva del trattamento sanitario, comunque essa possa essere concepita e realizzata, assumerà evidentemente i tratti di una violenza, particolarmente umiliante non solo perché rivolta al “corpo” del paziente, ma soprattutto perché destinata a svilire le convinzioni personali più radicate e profonde dell’interessato: la sua concezione della vita e della morte; i suoi “punti di vista” sotto il profilo etico, filosofico, religioso; il diritto di ergersi ad unico “vero” arbitro dei propri più intimi interessi.
La responsabilità per la gestione di vicende così problematiche viene a ricadere, nei fatti, interamente sul medico. Per lo più, il diritto interviene, in questo campo, a posteriori, per valutare “col senno di poi” (e con esiti pressoché imprevedibili) il significato penale della vicenda. Nel momento, tuttavia, in cui si impone una decisione operativa, vanamente il professionista potrebbe cercare un qualche supporto nella scienza e nella prassi giuridica, capaci sinora di offrire soltanto una gamma gravemente contraddittoria di soluzioni: il sistema normativo, ed i soggetti che di questo sistema dovrebbero costituire i portavoce, sembrano abdicare pilatescamente al proprio ruolo di orientamento “preventivo” dell’agire umano .
Indicazioni a dir poco ambigue si evincono, in primo luogo, dalla giurisprudenza, oscillante tra gli estremi dell’individuazione di misure coercitive “atipiche”, utili al medico per adempiere comunque al proprio compito di tutela della salute anche contra voluntatem[2], ed invece il riconoscimento di un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure[3], addirittura anche quando non confermabile, stante lo stato di incoscienza del paziente[4]. Altrettale variabilità di vedute si riscontra in dottrina[5]. Contrapposte ad un’impostazione, sostanzialmente dominante, che deduce dalla chiara lettera del secondo comma dell’art.32 della Costituzione l’impossibilità di una qualsiasi imposizione coattiva di trattamenti sanitari, si riscontrano, difatti, numerose posizioni rigoristiche, ancorate al dogma dell’assoluta indisponibilità della vita. L’esistenza di un “dovere di vivere” quale limite implicito al diritto, costituzionalmente tutelato, di rifiutare le cure, viene affermata motivando vuoi sulla base delle norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio, vuoi alla luce dell’art.5 del codice civile; con riferimento, poi, alla Costituzione, si richiamano ora l’obbligo costituzionale di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale, di cui agli artt.2 e 4 Cost. (obbligo rispetto al quale atti di disposizione “negativa” della propria salute o, addirittura, della propria vita costituirebbero un’inaccettabile “scappatoia”), ora il valore costituzionale della (dignità della) “persona umana”, gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti alla libertà e all’autodeterminazione, e da intendersi «non come volontà di realizzarsi liberamente, ma come valore da preservare e realizzare nel rispetto di se stessi»[6]. Il nugolo di opinioni diviene poi ulteriormente fumoso allorquando, dal piano delle valutazioni di carattere squisitamente giuridico-penalistico, la visuale si estenda ad impostazioni in varia misura riguardanti il piano della bioetica[7], della filosofia[8], della deontologia medica[9].
Indubbiamente una tale difformità di vedute risulta, in buona misura, fisiologica, con riferimento ad una questione tanto complessa e coinvolgente. Quel che si può tuttavia rimproverare alla scienza giuridica, è il frequente indulgere a considerazioni magari di notevole significato culturale, ma che rischiano di risultare fuorvianti nel contesto di un’argomentazione che aspiri ad essere squisitamente giuridica. Se, in particolare, l’intento è quello di dedurre dal sistema vigente le “regole” spendibili in casi come questi, il giurista dovrebbe, con un vero e proprio “atto di umiltà”, indossare i panni dell’esegeta “puro” e “neutrale” del dato positivo, tralasciando improvvisazioni filosofiche o da politico del diritto, e tentando, nei limiti dell’umanamente possibile, di “astrarsi” dai propri convincimenti, affinché essi non alterino surrettiziamente il percorso argomentativo. Un impegno tutt’altro che inesigibile: basta, in poche parole, da un lato estromettere programmaticamente dall’argomentazione qualsiasi notazione di valore che non trovi un immediato ed evidente riscontro di carattere normativo; dall’altro, non tentare a tutti i costi di capovolgere, con sofismi più o meno raffinati, le soluzioni che appaiano maggiormente coerenti col dato normativo, solo perché ritenute inconciliabili con aprioristiche opzioni ideologiche.
Questa scelta metodologica non impone necessariamente, di per sé, una sterile riproposizione della lettera della legge. Com’è noto, una scelta interpretativa può dirsi fondata nella misura in cui rappresenti, piuttosto, l’esito più congruo, sul piano logico-argomentativo, della dialettica sempre intercorrente tra “regole” e “principi”: non soltanto “legittima”, ma addirittura doverosa è una lettura teleologicamente orientata della normativa vigente, perché una deferenza acritica al tenore lessicale della singola disposizione, atomisticamente considerata, rischia in realtà di tradire il “sistema” giuridico, introducendovi fattori di incoerenza «non solo logica ma soprattutto valutativa»[10]. Purtuttavia, qualsiasi interpretazione “orientata ai valori” deve dedurre questi ultimi da norme di diritto positivo che li valorizzino esplicitamente, per non piegare le soluzioni adottate ad opzioni non già proprie dell’ordinamento giuridico, ma munite di un generico fondamento “culturale”, o addirittura semplicemente proprie del singolo interprete.
2. Entrando in medias res, è nostro intendimento – ispirato da evidenti ragioni di economia espositiva – dedicare attenzione soltanto ad alcuni “aspetti”, tra i tanti ipotizzabili, della problematica in esame. Un primo profilo meritevole di considerazione è quello inerente all’esistenza stessa di un diritto di rifiutare le cure, anche laddove quest’ultimo implichi, nei fatti, una rinunzia alla vita. Un secondo profilo – che assume rilievo, ovviamente, soltanto risolvendo affermativamente il primo – concerne la persistente validità del dissenso rispetto alle cure, qualora il malato, in quanto incosciente, non sia in grado di darne conferma. Per quanto, nella motivazione di alcune sentenze, a queste due questioni venga dedicata una considerazione unitaria ed indifferenziata, esse sembrano in realtà connotarsi in modo del tutto eterogeneo. Con riferimento alla prima ipotesi, difatti, sembra potersi affermare una sostanziale univocità di principi e valori in gioco, tanto da poter dedurre la “regola” operativa immediatamente da quei principi; nel secondo caso sembra per contro palesarsi un contrasto irrisolto di principi, con una inevitabile complicazione del ragionamento ermeneutico. Ma procediamo con ordine.
L’art. 32, secondo comma, della Costituzione afferma a chiare lettere che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario»; a meno che un intervento coattivo non sia espressamente e specificamente autorizzato dalla legge, e a patto che i contenuti di quest’ultima siano rispettosi del valore della “persona umana”. Quel che viene a sancirsi è, insomma, un vero e proprio diritto generale di rifiutare le cure[11] (che nella più recente giurisprudenza costituzionale è stato, tra l’altro, giustamente interpretato come forma speciale di manifestazione del diritto alla libertà personale di cui all’art.13 Cost.[12]). Altre eccezioni a tale diritto, oltre a quella dei trattamenti sanitari obbligatori, non sono previste: in nessun dove appare esplicitato un “dovere di vivere”[13], né in altro modo sembra potersi individuare nel “rischio di morte” (o di malattia) un limite negativo al criterio della volontarietà dei trattamenti sanitari. Nessuna legge, v’è da aggiungere, prevede un trattamento sanitario obbligatorio nel caso in cui il rifiuto di cure implichi una rinunzia alla vita. Non meritevoli di considerazione – perché frutto di un evidente sovvertimento della gerarchia delle fonti – sono quelle impostazioni[14] che negano la configurabilità di un dovere (costituzionalmente affermato) di rispettare la volontà del paziente, richiamando all’uopo norme codicistiche (dunque di legge ordinaria, come gli artt. 579 e 580 del c.p., l’art. 5 c.c., gli artt. 593[15] o 54 c.p. [16]). A poco vale l’escamotage di dedurre da tali disposizioni un supposto “principio generale” di indisponibilità del bene vita[17], perché pur sempre di un principio collocato sul piano della legge ordinaria si tratterebbe, come tale incapace di fissare limiti alla regola sancita in modo generale ed inequivoco dall’art.32, 2° comma, Cost.. Né può condividersi l’opinione di chi afferma che la Costituzione, se avesse voluto sovvertire il principio di indisponibilità della salute, avrebbe dovuto farlo expressis verbis[18]: quasi che i valori costituzionali non fossero quelli esplicitati nel testo della Carta fondamentale, ma quelli desumibili da altre fonti, magari previgenti (e quindi implementate in un ordinamento al cui globale superamento era diretto lo sforzo dell’Assemblea Costituente), solo perché da quel testo non apertamente contraddette.
Alla luce, poi, delle premesse metodologiche cui si faceva cenno poc’anzi, non ci paiono neppure condivisibili i tentativi di sostenere la tesi di un limite “implicito” al diritto di rifiutare le cure, da alcuni affermato argomentando dal valore della “dignità della persona umana”[19]. Si sta perseguendo un’interpretazione il più possibile fondata su dati normativi certi: il criterio della “dignità” è certo di valenza costituzionale, ma appare tutt’altro che univoco contenutisticamente. Più in particolare, sintetizzando al massimo la miriade di definizioni in materia, può dirsi che trattasi di un valore la cui tutela viene da taluni concepita come essenzialmente “eterodiretta” rispetto all’individuo (nel senso che tale bene si connoterebbe di contenuti “oggettivamente” riconosciuti come del tutto indisponibili), mentre altri preferiscono attribuire a quel concetto un significato prettamente “autodeterminato”, visto che soltanto al singolo spetterebbe definire la dimensione della propria dignità, venendo quest’ultima ipso facto compromessa nel momento in cui l’ordinamento pretendesse di imporre all’individuo – con riferimento a scelte concernenti unicamente la sua persona – priorità ed opzioni ideologiche da lui non condivise. Orbene: chi si appella a questo referente ambiguo della “dignità”, per negare valore ad un rifiuto di cure implicante un grave danno alla salute, dà per dimostrato ciò che dovrebbe dimostrare, ovvero che, nelle situazioni problematiche di cui si discute, tale concetto assuma una valenza “eterodeterminata”, fungendo da limite rispetto all’autodeterminazione. Ben si potrebbe ritenere rilevante, difatti – d’accordo con la maggior parte dei commentatori[20] – un diverso concetto di “dignità” il quale, lungi dal porsi in contrapposizione con il criterio di autodeterminazione, ne costituirebbe la stessa ratio ispiratrice. D’altra parte, il tenore letterale dell’art.32 2° comma è chiaro nell’attribuire al valore intrinseco della “persona umana” un ruolo sì di limite, ma non già rispetto al principio consensualistico, quanto – con logica esattamente opposta – nei confronti degli spazi legittimamente attribuibili al settore dei trattamenti sanitari contra o praeter voluntatem. Neppure ci pare da seguire chi – facendo riferimento, ad es., agli artt.2 e 4 Cost. – individua nella dimensione “sociale” dell’individuo l’elemento che giustificherebbe l’impedibilità di qualsiasi atto lato sensu autodistruttivo. Si afferma, nello specifico, che nessuna persona potrebbe disporre in termini negativi della propria vita e della propria salute, perché tale scelta implicherebbe una sottrazione agli obblighi sussistenti nei confronti degli altri consociati, di carattere lato sensu solidaristico[21]. Tale ragionamento finisce, nella sostanza, col trasformare surrettiziamente il “diritto alla salute”[22] in un “dovere alla salute”: il benessere psico-fisico viene ad essere inteso non più come prerogativa del singolo, atta a fondare una pretesa solidaristica nei confronti dello Stato e della società, ma come prerogativa dello Stato e della società, implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene “in forma” per meglio poter “servire” alla collettività. Ci sembra difficilmente comprensibile come tale ricostruzione – che involontariamente ripropone le istanze “utilitaristiche” di talune sciagurate ideologie totalitarie – possa conciliarsi con una norma costituzionale che a chiare lettere afferma la non obbligatorietà dei trattamenti sanitari. Certo, la “salute” è considerata, dal primo comma di quella disposizione, anche un interesse “della collettività”, oltre che “dell’individuo”; ma è poi proprio il secondo comma a sancire espressamente criteri e limiti entro i quali (eccezionalmente) la tutela di quel bene possa essere sottratta, per fini sociali, alla disponibilità del singolo, alludendo ai trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge. Non appare convincente il tentativo di convertire apoditticamente l’eccezione nella regola, ampliandone i presupposti applicativi oltre quelli espressamente sanciti.
In conclusione: unico “principio” costituzionale sicuramente riconoscibile come tale è quello della necessaria volontarietà, sempre e comunque, dei trattamenti sanitari[23] (fatta salva la pratica impossibilità di ottenere un “consenso” espresso: v.infra). Anche norme subordinate all’art.32 Cost. sembrano, d’altra parte, informarsi a questo criterio. Tra le più significative possono ricordarsi l’art.33 della l. 833/78 («i trattamenti sanitari sono di norma volontari»: l’eccezione a cui si allude è, ancora una volta, quella dei trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge); l’art.4 del decreto ministeriale 1° settembre 1995, che definisce le trasfusioni come pratiche terapeutiche per le quali è necessario il consenso informato del ricevente[24]; nonché, di recente, alcune disposizioni particolarmente significative della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina” (c.d. “Convenzione di Oviedo”) del 1997, ratificata in Italia con legge 28 marzo 2001, n.145[25]. In particolare devono ricordarsi l’art.2 della Convenzione, che, smentendo qualsiasi tipo di concezione “utilitaristica” dell’individuo e del suo benessere psico-fisico, afferma a chiare lettere la prevalenza «dell’interesse e del valore dell’essere umano» sul «solo interesse della società o della scienza»[26], e l’art.5, ove si afferma, al primo comma, che i trattamenti medici possono essere attuati soltanto «dopo che la persona interessata vi abbia consentito liberamente ed espressamente».
La collocazione gerarchica dei valori in gioco è talmente univoca da contenere in nuce, senza la necessità di ulteriori specificazioni, la stessa “regola” valida per il caso di specie: il medico non può mai imporre alcuna terapia, alcun accertamento diagnostico, alcuna attività medico-sanitaria in genere, laddove a ciò osti il dissenso del paziente, anche quando tale dissenso significhi, nei fatti, l’accettazione della morte.
3. Di molto si complica la questione, tuttavia, non appena la situazione fattuale di riferimento si arricchisca di un ulteriore profilo: lo stato di incoscienza del paziente, che abbia precedentemente dissentito rispetto alle cure che si prospettano necessarie.
È bene chiarire sin da subito, a scanso d’equivoci, come la mancanza attuale della capacità di esprimere un consenso non dia adito a particolari problemi applicativi almeno in tre casi, diversi da quello di nostro immediato interesse: 1) quando il paziente abbia coscientemente accettato l’intervento sanitario, prima di perdere conoscenza; 2) quando, pur mancando la condizione sub 1 (o addirittura sussistendo un previo “rifiuto”), le cure non appaiano tuttavia “necessarie” ed “urgenti”; 3) quando l’interessato non abbia precedentemente espresso alcun “dissenso” rispetto al tipo di trattamento che, nella contingenza, appaia indifferibile (o abbia di recente revocato, anche per facta concludentia, un dissenso precedentemente manifestato). Dalla prima ipotesi deriva, ovviamente, un dovere di intervento, posta l’armonica convergenza dell’istanza “volontaristica” e di quella “solidaristica”. Nel secondo caso, nella misura in cui sia “tecnicamente” possibile procrastinare l’intervento, il principio “consensualistico” mantiene intatto il proprio significato, non implicando il rispetto di tale principio la “lesione” del valore – dialetticamente contrapposto – della “salute”. Il medico sarà allora obbligato ad attendere che il paziente “ritorni in sé”, per svolgere con lui il necessario “dialogo” informativo, senza sentirsi autorizzato ad agire sol perché a lui appaia “del tutto improbabile” (o, peggio, “ingiustificabile”) un eventuale dissenso.
Nell’ultima ipotesi, infine, non si vede che cosa dovrebbe impedire l’attuabilità degli interventi necessari ed indilazionabili, non emergendo in alcun modo un interesse personale contrario e prevalente rispetto a quello valorizzato in via principale dall’ordinamento, ovvero l’interesse “alla salute”. Tale assunto trova oggi ulteriore conforto nell’art.8 della citata Convenzione di Oviedo, alla luce del quale, in caso di urgenza che renda impossibile ottenere un «appropriato consenso», «si potrà procedere immediatamente a tutti gli interventi indispensabili da un punto di vista medico per garantire la salute della persona interessata»: la contrapposizione tra questa norma ed il successivo art.9, di cui si è detto e di cui si dirà, evidenzia come ci si riferisca ad una situazione di “urgenza” relativa ad un paziente che non abbia espresso “direttive anticipate” di carattere negativo. V’è di più: con particolare riferimento, se non altro, al medico ospedaliero, l’intervento si prospetterà in questi casi non solo come lecito, ma come doveroso. Nessuna regola vigente, infatti, legittimerebbe un’astensione dalle cure; per contro, è pacifico che la “posizione di garanzia” del professionista sussista per intero anche nei confronti del paziente “accettato” nel nosocomio in stato di incoscienza. Invero, «nel caso di paziente consenziente, la doverosità dell’attività medica discende dalla subordinazione della natura intrinsecamente solidaristica dell’attività medica e della tutela della salute (art.32 comma 1, Cost.) alla componente personalistica della volontà del paziente (art.32, comma 2, Cost.). Diversamente, nel caso di paziente incosciente o incapace, la doverosità del trattamento ha un fondamento esclusivamente solidaristico, non soggetto a essere integrato dalla volontà del paziente, ma eterolimitato dal disposto dello stesso art.32, comma 1, Cost., là dove, imponendo la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, impone che l’attività del medico sia svolta nell’interesse esclusivo del paziente»[27].
Ben più problematico appare invece il caso di cui si diceva in apertura di paragrafo, relativo all’ipotesi di uno “stato di incoscienza” che renda non confermabile un precedente rifiuto relativo a terapie che si rivelino, nella contingenza, assolutamente improcrastinabili ed insostituibili.
In questa situazione, come si adombrava poc’anzi, appare difficoltosa la stessa individuazione di “principi” utili a guidare l’interprete. Se si dovesse ritenere quel dissenso in varia guisa “meno pregnante” del normale, sarebbe ancora lecito affermare la preminenza comunque della “autodeterminazione” rispetto al dovere generale di tutela della salute gravante sulle strutture pubbliche? Il criterio di mediazione dialettica tra le istanze del solidarismo (o, come altri dicono, della “beneficialità”)[28] e del consensualismo, in materia di trattamenti sanitari (art.32, 1° e 2° comma, Cost.), è usualmente dato dalla manifestazione di volontà del paziente; tale criterio, in questo caso, fornisce tuttavia indicazioni ambigue, risultando incapace di determinare univocamente la prevalenza dell’uno o dell’altro principio in gioco.
Tale incertezza appare confermata, più che risolta, dalla Convenzione di Oviedo. L’art.9 recita difatti: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà, saranno presi in considerazione» [29]. Si prescinde volutamente dall’indicare quando, come ed a quali condizioni il medico debba attribuire rilievo a tali disposizioni anticipate, e che cosa significhi, in concreto, “prendere in considerazione”: a quali fini? Con quali effetti?
La direttiva espressa dalla Convenzione aveva già avuto modo di evidenziare la propria ambiguità una volta trasposta nell’art. 34 del Codice di Deontologia Medica del 1998 («il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso»)[30]. La “ratifica” della convenzione finisce con l’elevare questa ambiguità a livello di “legge ordinaria”, enfatizzandone la contraddittorietà ed estendendone il rilievo all’intero ordinamento[31]. V’è, a dire il vero, chi tenta di risolvere tale complessità affermando, nella sostanza, che in questi casi solo uno dei due “principi” – quello “solidaristico”, per la precisione – avrebbe ragione di essere invocato (di talché l’intervento terapeutico risulterebbe comunque doveroso). Come continuare a fare appello, difatti, ad un criterio di “autodeterminazione”, a fronte di un paziente privo di coscienza e, dunque, del tutto incapace di “autodeterminarsi”? Che senso avrebbe invocare la tutela di un valore del tutto inespresso dal caso concreto[32]? Attraverso questo abile escamotage nominalistico, peraltro, si oscura la dimensione sostanziale del problema, confondendo il valore tutelato con i criteri di individuazione di quel valore. La “manifestazione di volontà”, resa impossibile dallo stato di incapacità, è soltanto un mezzo di cognizione attraverso il quale il paziente rende noto, se del caso, il proprio interesse a non essere curato. Evidentemente, quello che l’art.32, 2° comma, tutela non è un interesse, di incerto significato, a “poter materialmente manifestare il proprio dissenso” (interesse che potrebbe effettivamente riconoscersi soltanto a chi abbia attualmente le capacità psico-fisiche necessarie per poterlo concretizzare), ma un interesse a non essere curato – quale contraltare dell’interesse ad essere curato cui si riferisce il primo comma dell’art.32 Cost. – di cui ben può essere titolare (alla stregua di qualsiasi altro interesse) anche il paziente incosciente. Quest’ultimo non è più in grado, nella contingenza, di estrinsecare la propria volontà; ma ciò, di per sé, non può significare che quel valore non inerisca più alla sfera delle sue prerogative giuridiche[33].
Neppure condivisibili appaiono quelle impostazioni che affermano la necessità di ricorrere, in questi casi, a criteri di ricostruzione del “vero” interesse del paziente dotati di una non meglio dimostrata fondatezza “empirica” o “equitativa” che dir si voglia, e che condurrebbero a sovvertire sempre e comunque il valore del dissenso già espresso. Si dà credito, in particolare, ad un criterio di “consenso presunto”, ovvero ad un consenso verso le cure che sarebbe costantemente da presumersi ogni qual volta si prospetti altrimenti, per il paziente incosciente, un rischio di morte: e ciò perché, si afferma, l’istinto di autoconservazione sarebbe insopprimibile in ogni essere vivente[34]. Un primo aspetto problematico di siffatte concezioni è la mancanza di un qualsivoglia referente normativo, atto a supportarle. D’altra parte, anche dal punto di vista sostanziale, meriterebbe qualche riscontro in più l’asserzione di un impulso umanamente ineluttabile (per definizione) a “sopravvivere”, suscettibile di prevalere su qualsiasi volontà contraria precedentemente espressa, magari radicata in profonde convinzioni di carattere religioso o etico. Già la sola casistica giurisprudenziale in materia sembra, al contrario, smentire in modo eclatante queste considerazioni, ed altrettale sconfessione deriva dalla stessa esistenza di drammatiche questioni sociali come quella dei limiti di liceità dell’eutanasia consensuale, che non avrebbero motivo di esistere se nessuno volesse mai, in nessun caso, veramente morire.
D’altra parte, gli stessi autori che invocano il canone del “consenso presunto” riconoscono invece l’assoluta validità di un dissenso rispetto alle cure (con correlativa accettazione dell’eventualità della morte) laddove manifestato da chi sia capace di intendere e di volere: ammettendo con ciò, evidentemente, l’”umana possibilità” di un siffatto dissenso. Su questi presupposti, il criterio in discussione si palesa per quello che è, ovvero non già una presunzione, munita di un’adeguata giustificazione empirica, ma una vera e propria fictio argomentativa, che imporrebbe di considerare a priori consenziente rispetto alle cure il paziente in stato di incoscienza solo perché tale, anche quando egli abbia in precedenza, per contro, espresso il proprio dissenso.
In realtà, se si vuole offrire una soluzione il più possibile convincente, bisogna accettare il fatto che l’ambiguità delle indicazioni “di principio”, in casi come questo, rende intrinsecamente opinabile qualsiasi approccio teleologicamente orientato, qualsiasi interpretazione evolutiva ed orientata “ai valori”, perché processi ermeneutici di questo tenore verrebbero inevitabilmente ad essere condotti senza la guida di un referente finalistico normativamente fondato, e dunque non potrebbero non connotarsi di un coefficiente più o meno evidente di “arbitrarietà”. Né conforto può essere ricercato sul piano di presunte “regole di esperienza”, che incontrino nel dato empirico o antropologico la propria validità, giacché tali regole (oltre a non poter costituire, di per sé, “diritto”) forniscono indicazioni del tutto equivoche.
Adottando questo punto di vista, deve riconoscersi che le uniche disposizioni rinvenibili nel sistema, in materia di limiti di liceità dei trattamenti sanitari (quelle disposizioni, in particolare, cui si è accennato poc’anzi), subordinano la liceità dell’intervento medico ad un requisito di volontarietà. Certo, già lo si è detto: quello che assume rilievo non è tanto la sussistenza di una “capacità” attuale di manifestare il proprio consenso o dissenso, ma la presenza di un interesse ad essere ovvero a non essere curato. Peraltro, fonte di cognizione privilegiata, per “certificare” tale requisito è, per il nostro ordinamento, una manifestazione di volontà del paziente. Altri criteri di ricostruzione dell’interesse del paziente non sono presi in considerazione dalla legge. Nella situazione che stiamo affrontando, una manifestazione di volontà, innegabilmente, è riscontrabile, e testimonia un interesse a non ricevere certe cure: non si può dunque a priori negare l’applicabilità di quelle disposizioni al caso di specie. O meglio: non è consentito condurre il ragionamento ermeneutico muovendo dal presupposto che, qualora il soggetto versi in stato di incoscienza, si debba far necessariamente ricorso ad una regola che affida l’individuazione del best interest a parametri che prescindono dai contenuti della sua precedente manifestazione di dissenso, senza aver prima accuratamente evidenziato le ragioni per cui quel dissenso non avrebbe (più) l’efficacia che l’ordinamento normalmente gli riconosce[35].
Certo: può darsi che l’individuo in stato di incoscienza non sia più lo “stesso” individuo, o che comunque i suoi “interessi” possano ritenersi mutati rispetto al momento in cui egli manifestò la propria avversione rispetto a certi trattamenti sanitari[36]; ma può anche darsi che non sia così. Solo in virtù di un salto logico si può dedurre, da una tale situazione di incertezza, una certezza nel senso di una prevalenza del bisogno di cure. D’altra parte, la stessa esperienza esistenziale individuale sembra piuttosto testimoniare la validità della opposta soluzione: chi di noi riterrebbe di dover essere considerato un “altro”, dal punto di vista dei valori cui ispira le proprie scelte personali, nel momento in cui, ad es., si addormenti, perdendo la propria “coscienza di sé”?
Inoltre, un aspetto da non sottovalutare è che il problema in discussione non esaurisce le proprie implicazioni con riferimento alla questione (sin troppo “manipolabile” in funzione di preferenze interpretative preconcette) del best interest del paziente incapace: è necessario prendere in considerazione anche eventuali ripercussioni della prestazione sanitaria sull’esistenza futura, da individuo “cosciente”, del medesimo. Orbene, da questo punto di vista non vi è un motivo plausibile per ritenere che tale soggetto, una volta riacquistato il dominio di sé, non debba continuare a condividere quelle opzioni ideologiche, etiche e religiose che avevano, in passato, ispirato la sua avversità rispetto a certi trattamenti sanitari. Sembra dunque tutt’altro che azzardato affermare che definizioni aprioristiche e semplificate dell’”interesse” del paziente incosciente possano far sì che questi, al “risveglio”, avverta comunque il trattamento subito come una violenza nei confronti della propria libertà di autodeterminarsi. Un esito del genere è particolarmente probabile, ad es., con riferimento al caso “classico” del testimone di Geova sottoposto ad una trasfusione coattiva, il quale, ripresa conoscenza, venga a scoprire che, suo malgrado, nel suo corpo scorre il sangue di un altro soggetto, con quel che ne conseguirà sul piano delle sue chances ultraterrene, a mente dei dogmi religiosi di cui è osservante[37]. Poco importerà, a questo soggetto, che si dimostri in vario modo che suo interesse prevalente, al momento dell’urgenza terapeutica, era a sua insaputa divenuto quello a ricevere tale trattamento, giacché è soprattutto sulla sua vita futura e cosciente (e addirittura sulla sua proiezione ultraterrena) che l’intervento emotrasfusionale verrà ad esercitare, ai suoi occhi, un’influenza “nefasta”.
Ancora: può darsi che, al cospetto dell’imminenza effettiva ed attuale della morte, il soggetto sarebbe disposto (se solo fosse cosciente) a rivedere una sua precedente “accettazione”, compiuta “a freddo”, ma può anche darsi che non sia così. Non è lecito affermare che, in astratto, tutti gli individui sarebbero vincolati ad un insopprimibile istinto di autoconservazione, per le ragioni più sopra evidenziate. La dimostrazione di un’irrilevanza, sempre e comunque, del precedente dissenso non può raggiungersi neppure su questa strada.
In questo quadro, assume piuttosto plausibilità un’altra impostazione, che non pretende di “vaticinare” il “vero” interesse del paziente incapace, ma muove intelligentemente dalla constatazione di un’incertezza cognitiva sul punto. Se non è possibile affermare con sicurezza l’invalidità del dissenso precedente, è pur sempre vero che la sua mancata confermabilità lo rende quanto meno di dubbia attualità. Tale perplessità andrebbe in qualche modo risolta, non essendo consentito, al giurista, di pervenire ad un non liquet. Orbene, unico criterio valido all’uopo sarebbe quello riassumibile nell’evocativo brocardo in dubio pro vita[38]. La logica di questa conclusione sembra essere la seguente: nel dubbio circa la prevalenza, nel caso di specie, di un valore soltanto “individualistico” – come quello a rifiutare il trattamento sanitario – ovvero di un valore che, se fosse proprio dell’individuo, corrisponderebbe al contempo anche ad un istanza obiettiva dell’ordinamento (il diritto alla salute), parrebbe opportuno comportarsi come se quest’ultimo fosse quello effettivamente poziore, se non altro perché, scegliendo l’opposta soluzione, il tipo di disvalore che si verrebbe a determinare, in caso di erroneità della scelta, sarebbe notevolmente superiore[39].
Tale impostazione, pur suggestiva e logicamente rigorosa, appare tuttavia discutibile nel momento in cui pone sullo stesso piano due possibilità già a prima vista tutt’altro che equivalenti: se, difatti, l’ipotesi dell’esistenza di un interesse a non essere curato risulta in qualche modo “documentata”, quella opposta si fonda su poco più che un’illazione. V’è dunque se non altro da dubitare che, scegliendo di praticare comunque la cura, si concretizzi un “minor rischio” di ledere il “vero” interesse del paziente, che non nell’ipotesi opposta[40].
Inoltre, il criterio dell’ in dubio pro vita non sembra coerente con norme oggi positivamente riscontrabili nel sistema. Per suo tramite, difatti, si arriva ad affermare, in pratica, una regola atteggiata nei termini di un dovere costantemente valido di applicare il trattamento oggetto di un documentato rifiuto. Ma se tale è la “regola”, come può essa conciliarsi con quella disposizione – questa sì espressamente definita dal nostro sistema – per cui il medico «dovrà prendere in considerazione» le direttive anticipate del paziente (art.9 della Convenzione di Oviedo)? Tale prescrizione – già lo si è detto – è oggi trasmigrata dal mero ambito “deontologico”, dov’era “confinata” dall’art.34 del Codice di deontologia medica, a livello di legge ordinaria. Orbene: come già evidenziato, una disposizione del genere non è in grado, in positivo, di offrire un criterio certo di comportamento, non essendo chiaro cosa significhi, in concreto, “tener conto” delle direttive anticipate; ma sicuramente, in negativo, questa norma non può voler dire che il precedente dissenso verso le cure del paziente incosciente non debba mai assumere rilevanza.
Si potrebbe obiettare che la Convenzione di Oviedo, per quanto ratificata, non assuma un significato immediato (non sia, come si dice, self-executing), fintantoché non ne saranno attuate le direttive da parte del legislatore nazionale. Questo è sicuramente vero per buona parte delle disposizioni di quell’atto internazionale, troppo “compromissorie” per poter risultare dotate di efficacia applicativa diretta[41]; non si vede tuttavia per quale ragione regole atte a rivestire un diretto supporto ermeneutico – come quella “negativa” di cui si è appena detto – non dovrebbero costituire un referente attuale per l’interprete, o addirittura dovrebbero risultare recessive rispetto ad altre (supposte) regole prive di un altrettale riconoscimento sul piano del diritto positivo. Insomma: a fronte dell’incertezza – innegabile – circa la prevalenza, nel caso di specie, di un interesse a curarsi o a non curarsi, l’unico dato normativamente sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere; il che vuol dire che il criterio dell’in dubio pro vita non si attaglia al caso di specie, o per lo meno non è in grado di definire una “regola” orientata nei termini della prevalenza sempre e comunque del bene salute.
A ciò si aggiunga che, generalizzando la logica dell’”in dubio pro vita”, l’atto terapeutico, in quanto tale, troverebbe la propria giustificazione soltanto nell’istanza solidaristica ogni qual volta il malato sia incapace, e non solo quando questi avesse precedentemente dissentito, ma anche quando egli avesse autorizzato l’intervento. Anche in questo caso, difatti, si dovrebbe coerentemente “dubitare” dell’attualità del suo consenso (perché non confermabile), di talché l’attività medica si giustificherebbe soltanto in virtù dell’esigenza di tutelare l’interesse – tra quelli ipoteticamente in gioco – di “maggiore” pregnanza (la salute): un fondamento di legittimità all’evidenza ispirato unicamente al criterio della “beneficialità”, e del tutto sganciato da qualsiasi parametro “consensualistico”. Con la conclusione, all’evidenza inaccettabile, che tutti gli interventi chirurgici implicanti un’anestesia totale, ad es., ben potrebbero, in pratica, prescindere da qualsiasi consenso, ché tanto quest’ultimo risulterebbe automaticamente invalido con la perdita di conoscenza del paziente[42]. Negandosi qualsiasi valore al principio dell’autodeterminazione, poi, verrebbero ad essere vanificate eventuali opzioni del malato per un tipo di intervento piuttosto che per un altro: ogni sua scelta sarebbe di “dubbia” validità per il fatto stesso della sua inattualità, e l’atto medico dovrebbe allora ispirarsi esclusivamente ad un best interest del tutto eterodeterminato.
4. Dunque, riassumendo: il rifiuto di cure vincola il medico a non intervenire, anche se ciò dovesse comportare una compromissione seria dello stato di salute, o addirittura la morte. Non è rinvenibile nel sistema una regola che sancisca l’invalidità sempre e comunque di una manifestazione di dissenso verso le cure, qualora il manifestante cada successivamente in uno stato di incoscienza: esiste, invece, una regola diversa, alla stregua della quale tale volontà deve avere ancora un (qualche) significato. Resta da specificare ulteriormente questa direttiva, per capire in che cosa questo “significato” possa concretizzarsi.
Un primo punto che merita sin da subito di essere chiarito, è che il discrimine tra la validità persistente o meno del rifiuto di cure non può certo correlarsi ad un indagine di merito, utile a valutare quali “motivazioni” a non essere curate risultino più o meno “apprezzabili”[43]. Al di là dell’inaccettabilità intrinseca, in un sistema pluralistico, di una regola che attribuisca a chicchessia un sindacato circa la bontà delle opzioni ideologiche, etiche, religiose o comunque “personali” di un altro soggetto, v’è da dire (ponendo l’attenzione esclusivamente e “neutralmente” al dato positivo) che l’art.32, 2° comma, della Cost., e le norme subordinate che a tale disposizione si ispirano, affermano la validità del rifiuto di cure in quanto tale, senza pretendere oneri di argomentazione, e senza discernere tra moventi più o meno “degni” del rifiuto. Non v’è ragione plausibile per cui questa “indifferenza delle motivazioni” dovrebbe d’improvviso essere rivista, nel caso di incoscienza del paziente, se non quella di ipotizzare uno Stato che “approfitta” della situazione di “minorata difesa” del singolo per arrogarsi un diritto di sindacato – cui in generale ha opportunamente abdicato – circa il merito di scelte dalle implicazioni interamente individuali[44].
Neppure sembra lecito ipotizzare un criterio in base al quale il dissenso sarebbe in qualche modo “meno” efficace del normale, se non confermabile. L’effetto che l’ordinamento, in generale, attribuisce a quell’atto di disposizione è l’illiceità tout court dei trattamenti sanitari contestati: un esito, all’evidenza, insuscettibile di graduazioni quantitative. Il dissenso o è valido, oppure no: se è valido, il medico ha il dovere di non intervenire; se non lo è, il medico ha il dovere di intervenire. Tertium non datur.
Più in generale, a dire il vero, sembra difficile individuare una regola, nella normativa vigente, in grado di specificare quando, ed a quali condizioni, il previo dissenso risulti vincolante, o non vincolante. Nessuna disposizione sembra poterci aiutare sul punto. Tutto quello che la legge ci dice, è che il medico dovrà “tener conto” del previo dissenso: si lascia intravedere la presenza di un discrimine tra rifiuti di cure vincolanti e non vincolanti per il medico, ma non si precisa su quali direttrici tale discrimine venga a collocarsi. A fronte di un siffatto dato normativo, le deduzioni che l’interprete legittimamente può trarre sono, essenzialmente, due.
Potrebbe affermarsi, in primo luogo, la sussistenza di una lacuna normativa stricto sensu, da colmarsi attraverso l’analogia. Seguendo questa opzione, bisognerebbe chiedersi quali norme, tra quelle vigenti, possano considerarsi volte a disciplinare una materia “simile” a quella di cui si discute. In quest’ottica, verrebbe quasi istintivamente da far appello alla (nuova) disciplina in materia di trapianti di organo, in gran parte diretta proprio a definire i presupposti di efficacia di una manifestazione di volontà destinata ad esplicare i propri effetti addirittura post mortem[45]. Più in generale, si potrebbe pensare alle disposizioni civilistiche in materia di testamento[46]. Minimo comune denominatore di queste regolamentazioni, infatti, è quello di attribuire efficacia a manifestazioni di volontà non confermabili, purché documentate per iscritto, e rese nel rispetto di formalità dirette vuoi a garantire esigenze di “certezza”, vuoi ad assicurare la piena consapevolezza del dichiarante circa i contenuti della propria dichiarazione.
Un’estensione analogica di tali normative, al di là di ogni suggestione, non appare tuttavia utilmente praticabile. In primo luogo, sembra discutibile individuare una corrispondenza tra la materia degli atti di disposizione della propria salute e della propria vita – ovvero di beni dotati di un “significato” costituzionale espresso e primario – e la materia degli atti di disposizione mortis causa di altre entità (il proprio cadavere, interessi patrimoniali e familiari, ecc.). Anche ammessa, peraltro, una qualche simiglianza tra tali “materie”, è vero tuttavia che le normative testé evocate risultano troppo intimamente connesse alle caratteristiche delle fattispecie specificamente regolata per potersene concepire un’utile trasposizione in diversi campi d’interesse. Così, con riferimento alla l. n. 91 del 1999, il “significato” dell’atto di disposizione del proprio cadavere si implementa esclusivamente nel contesto di una più complessa procedura amministrativa, appositamente pensata per la tematica dei trapianti[47]; non avrebbe dunque senso – e probabilmente non sarebbe neppure logicamente possibile – estendere i requisiti di validità di tale atto di disposizione ad ambiti del tutto svincolati da una sia pur analoga “procedimentalizzazione”. I diversi oneri “formali” previsti dalla legge per il testamento, poi, si comprendono in una logica tutta civilistica di “validità” o “invalidità” dei rapporti giuridici privatistici discendenti da un atto negoziale a contenuto patrimoniale; logica difficilmente esportabile nel contesto di un atto, come quello di rifiuto di cure, che sembrerebbe più opportunamente qualificarsi, analogamente al consenso scriminante[48], nei termini di un mero “atto giuridico”, o comunque di un “negozio” a contenuto non patrimoniale.
Più in generale, d’altronde, deve ricordarsi come “principio” normalmente riconosciuto in materia di atti di manifestazione della propria volontà sia quello della libertà di forma, con conseguente natura “eccezionale” (ed inestensibilità analogica) delle singole prescrizioni normative di oneri formali[49].
La constatazione della mancanza di referenti atti a supportare una qualsivoglia analogia, accresce la plausibilità di una seconda ipotesi. In particolare, non sembra azzardato affermare come, in realtà, quella individuabile nell’art.9 della Convenzione di Oviedo sia soltanto una lacuna apparente. L’art.9, difatti, ben potrebbe essere interpretato nei termini non già di una disposizione alludente ad una differenza – inevitabilmente bisognosa di specificazioni ed integrazioni ulteriori – tra categorie di rifiuti di cure sempre efficaci, ed altri sempre inefficaci; ma, ben diversamente, nei termini di una norma la quale, dando per scontata la validità assoluta della manifestazione di volontà contraria alla terapia (già evincibile dall’art.5 della Convenzione medesima, non a caso rubricato “regola generale”), individui a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di “onere cautelare”, consistente nel sincerarsi circa l’effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. Il medico “dovrà tener conto” della precedente dichiarazione del malato, in qualunque modo essa sia stata espressa e formalizzata, per valutare se in essa sia riconoscibile un dissenso effettivamente riferito al caso concreto, a quella specifica situazione di urgenza terapeutica[50].
Detto in altri termini: se nel sistema non è individuabile, neppure in via analogica, una “regola” destinata a discernere in via generale ed astratta, in materia medico-sanitaria, tra atti di autodeterminazione “inattuali” ma validi, ovvero non validi, è forse proprio perché tale differenziazione, in via generale ed astratta, non esiste; l’atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, in linea di massima, anche in casi così particolari, solo che l’impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente “si attagli” alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l’accettazione di quegli specifici esiti[51]. La sopravvenuta incoscienza non già, dunque, come evenienza suscettibile di determinare l’applicazione di una regola specifica e diversa da quella, ordinaria, che vieta l’attuazione di trattamenti sanitari contra voluntatem (regola che sarebbe priva di un qualsivoglia fondamento normativo), ma come dato fattuale suscettibile in concreto di rendere più difficoltoso, in un’ottica lato sensu “probatoria”, l’accertamento dell’esistenza di un effettivo dissenso rispetto alle cure[52].
Vari sono i parametri che possono ritenersi utili allo svolgimento di questa verifica. Senza pretese di esaustività, può ricordarsi, in primo luogo, il canone della corrispondenza “contenutistica”, per così dire, tra le modalità di manifestazione dell’atto di volontà, e gli aspetti salienti del caso di specie[53]. Vi dovrà essere, insomma, una precisa simmetria tra il tipo di trattamento sanitario di cui si prospetta la necessità, ed il tipo di trattamento sanitario oggetto del rifiuto: in caso di incertezza su questo punto, saranno le eventuali “motivazioni” del dissenso ad offrire un criterio risolutivo (ad es., un rifiuto di cure derivante dalla convinzione religiosa dell’esistenza di un divieto divino di “assunzione”, in varia guisa, del sangue altrui, sarà evidentemente da ritenersi riferito a tutti i trattamenti implicanti una qualche forma di “contaminazione” ematica, con riferimento esclusivo, tuttavia, alle sole pratiche terapeutiche implicanti l’utilizzazione di sangue umano o animale, non già di prodotti sintetici). Ma dovrà anche essere chiaro, dalle modalità di manifestazione del dissenso, che il paziente è disposto ad accettare l’eventualità di pericoli significativi per la salute, o addirittura per la vita: se il rifiuto di cure risulti a tal proposito del tutto ambiguo, ben si potrà dubitare di una sua pertinenza a situazioni concrete connotate in modo specifico da rischi di questo genere. Ancora una volta, per meglio comprendere quanto l’eventualità della morte sia stata effettivamente presa in considerazione dal singolo, sarà utile, tra l’altro, soppesare le “ragioni” specifiche del suo dissenso, non già per sottoporle ad un giudizio di meritevolezza, ma per dedurre da esse i limiti “contenutistici” del rifiuto di cure.
Non poco significato, ci pare, assumeranno d’altra parte anche i tempi ed i modi di manifestazione del previo rifiuto di cure, e questa volta non tanto per comprenderne l’estensione, ma per essere certi, ancor prima, della sua effettiva esistenza. Sono ipotizzabili una moltitudine di situazioni “intermedie” tra quella, estrema, di un rigetto di determinati trattamenti terapeutici, ampiamente motivato sulla scorta di considerazioni di carattere religioso o ideologico, espresso per iscritto su di un documento che il soggetto portava sempre con sé fino al momento di perdere conoscenza (con ciò evidenziando la propria perdurante adesione a quella manifestazione di volontà[54]); e quella, anch’essa estrema (per motivi uguali e contrari), di un rifiuto di cure generico, manifestato in modo del tutto informale ed episodico a qualche conoscente, in tempi risalenti, e mai più confermato, ed oltretutto connesso a suggestioni irrazionali derivanti da situazioni del tutto contingenti. Sarà necessario, di volta in volta, prendere in considerazione (nei limiti del possibile) contesto, ragioni e motivi della manifestazione di volontà, per comprendere quanto essa effettivamente corrispondesse ad un intimo ed immutato convincimento del malato. Per un indagine di questo tipo, saranno d’aiuto anche colloqui con i più intimi conoscenti del paziente, al fine di ricostruire le convinzioni reali e più radicate del soggetto[55]: non già tuttavia, si badi, per operare una sostituzione delle valutazioni di questi soggetti a quelle del paziente medesimo[56].
È in questo contesto che, ci pare, merita di essere affrontata e risolta la spinosa questione della base di legittimità di un intervento medico diretto a curare un soggetto in pericolo di vita, ed in stato di incoscienza, a causa di un precedente tentativo di darsi la morte (ad es. attraverso l’assunzione di dosi massicce di barbiturici). L’atto del suicidio, difatti, normalmente non assume un significato così univoco, di per sé, da potersi dire implicitamente comprensivo di un netto rifiuto verso qualsivoglia terapia “salvavita”[57]. Spesso, difatti, l’impulso autodistruttivo discende da spinte irrazionali, momentanee, comunque conflittuali, come tali per lo più insuscettibili di assorgere al ruolo di un consapevole e razionale “dissenso” (e si ricordi, tra l’altro, che l’art.32 tutela un diritto di rifiutare le cure, non un diritto di uccidersi tout court[58]). Il medico dovrà dunque normalmente ritenere inesistente, in questi casi, un atto di autodeterminazione rilevante ai sensi del secondo comma dell’art.32 Cost.: a meno che, com’è ovvio, il rifiuto di cure dell’aspirante suicida non sia deducibile da altre manifestazioni di volontà, da ritenersi valide per il caso di specie in base ai criteri già definiti.
5. Giunti a questi risultati, sembra opportuno, a scanso di equivoci, compiere qualche ulteriore, sommaria precisazione.
In primo luogo, l’art.32 della Cost. non contempla un’alternativa tra curarsi e lasciarsi morire, tra curarsi e lasciarsi ammalare, ma si riferisce esclusivamente al diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari[59]. Il che significa che, contrariamente a quanto alcuni autori polemicamente affermano[60], il medico destinatario di un dissenso non già generalizzato, ma riferito soltanto a specifiche cure, non sarà per ciò solo liberato da qualsiasi dovere nei confronti del paziente, ma dovrà comunque ricorrere a tutte le terapie alternative rispetto a quella divenuta impraticabile[61], purché esse abbiano legittimazione scientifica (giacché il dovere del curante si informa per l’appunto alla miglior scienza ed esperienza medica[62]). Qualora il dissenso sia di così ampia portata da rendere in sostanza impraticabile qualsiasi tipo di intervento (venendo con ciò a coincidere con una vera e propria richiesta di eutanasia consensuale passiva[63]), a carico del medico residuerà comunque un dovere di dialogare col paziente circa le implicazioni di una tale scelta[64], essendo un’adeguata informazione, e se opportuno una corretta e sapiente attività di persuasione, gli ultimi mezzi disponibili per ottemperare al proprio compito di garante[65].
Per quanto riguarda poi la particolare “soluzione” che in questa sede si prospetta a proposito del caso di un malato dissenziente in stato attuale di incoscienza, è ovvio che non si ipotizza l’attribuzione al medico di un autonomo potere-dovere “inquirente”[66] analogo a quello proprio di un pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Invero, ciò che conta è che il sanitario compia quelle verifiche, circa la “reale” volontà del paziente, esigibili in situazioni di così pressante emergenza, nei limiti delle concrete possibilità offerte ad un soggetto privo di qualsiasi autorità “istituzionale” in tal senso. Se dovesse poi a posteriori risultare che, in realtà, quel dissenso non era significativo, l’omissione di terapie, con esito mortale, potrà comunque considerarsi non dolosa – se il medico era assolutamente convinto della presenza di un rifiuto di cure – e neppure colposa, se tale convinzione discendeva da una considerazione sufficientemente attenta dei dati a sua conoscenza. Ciò a prescindere dal problema della qualificazione dogmatica del rifiuto di cure – problema che in questa sede volutamente trascuriamo – nei termini di una “scriminante” del reato eventualmente realizzato con l’omissione di terapie[67], ovvero nei termini di un fatto che impedisce il sorgere dello stesso “obbligo di garanzia” nei confronti del malato dissenziente (e con ciò la stessa configurabilità di un fatto tipico omissivo)[68]. Resta a tutt’oggi aperto il problema della qualificazione penalistica da dare ad un intervento terapeutico contra voluntatem (vuoi accompagnato dalla convinzione erronea della “non validità” di un eventuale dissenso – che potrebbe comunque assumere i tratti, a seconda dei casi, ed ammessa la rilevanza penale di tale intervento, di un errore escludente il dolo, ovvero di un errore sul precetto, del quale valutare la scusabilità – vuoi invece volontariamente diretto contraddire la libera scelta del paziente). Effettivamente, soprattutto quando esso sia stato attuato nei confronti di un soggetto in stato di incoscienza, solo a prezzo di qualche forzatura possono dirsi applicabili le fattispecie comuni a tutela dell’autodeterminazione[69]. Sembra dunque doversi onestamente concludere che, per lo meno de iure condito, quel comportamento, pur disdicevole, e sicuramente offensivo di un diritto di valenza addirittura costituzionale, non assume rilievo penale. Sicuramente, peraltro, ne assume uno di carattere deontologico; ben si potrebbe ipotizzare, peraltro, anche una responsabilità di carattere civilistico, implicando quel fatto la lesione di un “diritto soggettivo”, qual è quello di rifiutare le cure.
Non si deve peraltro trascurare una possibile rilevanza “indiretta”, sul piano penalistico, di una mancata copertura consensualistica dell’atto medico, d’altra parte già “intuita”, per così dire, da un significativo filone giurisprudenziale. Invero, non sembra azzardato ritenere che la presenza di un dissenso del paziente faccia sì che l’atto di cura comunque prestato non possa più considerarsi afferente all’ambito di quelle “attività medico-terapeutiche” che l’ordinamento disciplina e valorizza, giacché requisito essenziale di tali attività è proprio quello della non obbligatorietà (nei termini di cui al secondo comma dell’art.32 Cost.). La cura arbitrariamente praticata degrada, per così dire, a comportamento “comune” incidente sull’integrità fisica e sulla libertà morale di una persona. In tal modo, assumono rilevanza non più quelle regole cautelari, tipicamente rivolte ad attività “pericolose” ma “autorizzate”, dirette a definire modalità comportamentali utili a ridurre i rischi insiti in condotte che in generale risultano “socialmente adeguate”, bensì quella sola prescrizione che impone di non praticare tout court attività non positivamente valutate dall’ordinamento, in vario modo suscettive di sfociare in esiti penalmente rilevanti. Ciò significa che, in caso di esito infausto dell’attività sanitaria arbitrariamente svolta, una responsabilità se non altro colposa dovrà dirsi sussistente anche qualora fossero stati rispettati tutti i canoni della migliore scienza medica, essendo stata comunque violata la regola cautelare che imponeva di non accingersi neppure a quel tipo di comportamento rischioso. Qualora poi si dovesse ritenere, con buona parte della dottrina, l’attività medica di per sé normalmente tipica, una responsabilità penale addirittura dolosa potrà per lo più affermarsi anche in caso di risultati positivi per la salute del paziente[70].
[1] Riconducibile – almeno ictu oculi – al paradigma del “conflitto di doveri”, espressione di un sottostante conflitto di beni (cfr. sul punto A.BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di doveri, Milano, 1963, spec. pp. 64 ss.): il dovere di tutela della salute come valore “obiettivo”, da un lato, ed il dovere di rispettare l’autodeterminazione del paziente, dall’altro lato. [2] Per un’applicazione in tal senso dell’art.700 c.p.c., cfr. ad es. Pret. Pescara, decr. 8/11/74, in Nu.dir., 1975, p. 253, nota A.PIANIGIANI; Pret. Modica, ord. 13/8/90, in Foro it., 1991, I, col. 271 ss.. Sul punto v. anche F.RAMACCI – R.RIZ – M.BARNI, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv.it.med.leg., 1983, p. 863. [3] V. ad es. Ass. Firenze, 18/10/1990, Massimo, in Foro it., 1991, II, col. 242; TAR
Convegno: Coscienza, medicina e alternative al sangue. Attualità in tema di rifiuto emotrasfusionale. ASL, Presidio Zona Aretina, 5 febbraio 2000 – Prof. Mauro Barni Docente di Medicina Legale Università di Siena.
Articolo interamente tratto da: www.usl8.toscana.it
“IL DIRITTO DI UN ADULTO CHE RIFIUTA L’EMOTRASFUSIONE ANCHE SALVAVITA. LA POSIZIONE ETICA E DEONTOLOGICA, NEI SUOI RIFLESSI GIURIDICI DELL’ÉQUIPE MEDICA CHE, IN UN INTERVENTO PROGRAMMATO DI ELEZIONE, SENZA INFORMARE DELIBERATAMENTE IL PAZIENTE, CONFIDASSE NELL’EVENTUALE INTERVENTO AUTORIZZATORIO DEL TRIBUNALE AD ESEGUIRE IN STATO DI NECESSITÀ LA TRASFUSIONE RIFIUTATA DURANTE LA NARCOSI OPERATORIA”
Per violenza terapeutica: sopraffazione e morte di un uomo. Il tema della trasfusione ematica, quale estrema ed insostituibile terapia dello schock ipovolemico od anossico in soggetti criticamente depauperati di sangue o di emopigmento per fatti emorragici, accidentali o chirurgici, ovvero per patologie congenite od acquisite, sembrava ormai avviato verso una temperie di più serena rivalutazione, una volta liberato dalle maggiori asprezze inerenti le pur legittime divergenze deontologiche. Vi contribuiva l’affermarsi del principio di autonomia della persona che affrancava il medico dalle eccessive e vincolanti preoccupazioni cliniche sulle esigenze della terapia trasfusionale, resa meno esclusiva e cogente dai nuovi indirizzi relativi al trattamento degli anemizzati ed alla disponibilità selettiva di emoderivati e di razionali strategie chirurgiche. Il dilemma operativo e bioetico si limitava ormai al problema del minore in presenza di rifiuto dei genitori ed a quello del soggetto ormai privo di coscienza che avesse peraltro espresso una direttiva anticipata di rifiuto, ove l’uno o l’altro versassero in effettivo e non altrimenti superabile pericolo di vita. La ridefinizione di queste paradigmatiche eventualità quale è emersa dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 (artt. 6 e 9) e dal Codice italiano di deontologia medica del 1998 (art. 34) che valorizzano tanto il consenso informato del “minore” ormai maturo e in sufficiente misura consapevole delle proprie scelte quanto le direttive anticipate, da sussumere almeno alla stregua di non trascurabili elementi nella formazione del giudizio medico e dell’indirizzo terapeutico, avevano indotto ragionevoli orientamenti. Inoltre, l’ammissione normativa secondo cui la trasfusione “costituisce una pratica non esente da rischi”, che “necessita pertanto del consenso informato del ricevente (art.19 DM 15 gennaio 1991), la fortissima penetrazione di linee-guida nordamericane e anglosassoni in genere sul buon uso dei sangue, l’affiorare di decisioni giurisprudenziali sullo sfondo di una sempre più chiara e partecipata modulazione dottrinaria e deontologica, avevano fortemente attenuato dubbi, angosce, contrasti.
Anche il ricorso preliminare assolutamente deprecabile e professionalmente indegno dei medici raggelati dal dubbio, ai Procuratori della Repubblica competenti per territorio, onde trarne conforto o addirittura autorizzazione per trasfusioni di soggetti ormai non competenti (a parte il caso di “minori”), espressivo di un penoso “trend” di medicina difensiva, sembrava rarefarsi anche per l’avvento di sempre più chiare direttive specialistiche. Sin qui ho usato il tempo imperfetto, perché il processo è stato bruscamente, drammaticamente frenato.
Quanto è occorso a Milano supera infatti e di gran lunga ogni immaginazione e recupera arroganti atteggiamenti interventistici che mai si erano spinti peraltro alla legittimazione della trasfusione coattiva in soggetti adulti, eticamente motivati ed ancora in grado di esprimere con dignità e decisione la propria volontà negativa, pur nella consapevolezza di un pericolo (nella specie attuale ma non incombente) per la vita, in vista di un intervento (neppure urgentissimo). Il rapporto di causalità materiale tra la emotrasfusione coatta e la morte di un paziente in lotta contro una sopraffazione sinanco materiale, quale sembra decisamente emergere dalla ricostruzione medico-legale del caso, esaspera la gravità della vicenda, in cui si embricano paure, arroganze, drammi umani, culminati in una tragica nemesi, fino ad evocare aspetti penalistici fin qui inopinatamente esclusi.
Forse la lezione “fiorentina” che assimilava il trattamento chirurgico non consentito e seguito da morte all’omicidio preterintenzionale è stata dimenticata, e il codice di deontologia medica è stato ignorato in un incredibile e devastante soprassalto difensivistico non della vita del paziente ma della impunità del medico che ha indotto sciagurate decisioni (uso simultaneo della forza fisica e della forza pubblica) insensibili alle voci ammonitrici della scienza, della coscienza, della verità, della compassione e persino della fede. Si trattava di un testimone di Geova: ma questo è un elemento non essenziale. Si trattava soprattutto di una persona che gridava il più sacrosanto dei suoi diritti, la più inviolabile delle sue libertà….
Mi premuro segnalare, con profonda indignazione, la vicenda sanitaria che si concluse con la morte del testimone di Geova…….di anni 51, deceduto il 23 maggio 1996 presso l’Ospedale………al seguito di emotrasfusione coattiva. Il soggetto era ricoverato dal 21 maggio con diagnosi di “neoplasia gastrica – emorragia gastro-intestinale – infarto miocardico”; da qualche giorno aveva avuto episodi di ematemesi; la pressione, all’ingresso era 110/70, la cute pallida; la psiche e il sensorio integri; bassi i valori di emoglobina. Fu prospettato l’intervento; ma il p. espresse netto rifiuto alla emotrasfusione “prima dell’intervento”.
Il 22 maggio non vi era “sanguinamento” ma si insistette per la emotrasfusione interpellando un medico legale e un magistrato che avrebbe autorizzato la emotrasfusione stessa “dove sussiste la necessità” (ma tale assenso del magistrato non è documentato!). Il paziente continua a esprimere fermo e ripetuto rifiuto, anche una volta edotto dal rischio; ha un malore (episodio di sincope) da variazione di decubito (h 15,15); il cardiologo evidenzia (ECG) marcato danno sottocardiaco anterolaterale; alle 17,25 il p. denuncia angor retrosternale o oppressione (lieve miglioramento).
Alle 17.30 (si riporta testualmente quanto risulta in cartella clinica) “si contatta il magistrato… che conferma l’autorizzazione a procedere con le terapie mediche ritenute necessarie secondo scienza e coscienza” (non v’è accenno alla trasfusione e tanto meno per scritto). “Constatato il deterioramento progressivo delle ultime ore delle condizioni generali, della comparsa ECG di danno miocardico, del calo dell’ematocrito, dell’inutilità a procedere nelle terapie effettuate fino ad ora se non si praticano emotrasfusioni, si decide di valutare le condizioni psicofisiche attuali del p. per operare la terapia unica che si ritiene ormai non più procrastinabile (emotrasfusione)”.
Lo psichiatra chiamato per consulenza, conferma il più netto rifiuto del paziente e si limita a riferire del colloquio senza esprimere parere alcuno: “h 18,10: Dopo colloquio con il p. e con la moglie che confermano quanto detto alla psichiatra si attiva la procedura di TSO (sic!) e si richiede l’appoggio della Polizia di Stato (sic!) per poter effettuare terapia trasfusionale. h 12.40: “il p. debolmente risponde con estrema fatica alle domande rivoltegli pur essendo ancora cosciente; fornisce risposte esaurienti e corrette e ribadisce la sua non volontà a subire emotrasfusioni; le condizioni cliniche appaiono in progressivo e rapido decadimento; il p. riferisce dolore retrosternale e dispnea. Si giudica il p. in gravissimo ed immediato pericolo di vita e alla presenza dell’autorità di PS e del Direttore sanitario, si decide di iniziare immediatamente la terapia trasfusionale. Il p. rifiuta con la violenza e con urla la emotrasfusione. La forza pubblica allontana i familiari della stanza, che si oppongono a gran voce. Si decide di contenere il p. per poter eseguire emotrasfusione.
h. 19,45: è in corso la terza sacca. Mucose più rosee. P.A. 130/80. Il p. è agitatissimo e incontrollabile in preda ad uno stato di agitazione psico-motoria grave. ECG … conferma lo stato ischemico miocardico; si decide di proseguire con il programma emotrasfusionale con altre due sacche…il cardiologo contattato telefonicamente concorda.
H. 19.55: ‘l’infermiera al letto del paziente avvisa di crisi lipotimica con arresto del respiro … si inizia rianimazione… h. 20,30: exitus”
Si ritiene di non riportare per ora le dichiarazioni dei congiunti e dei testimoni oculari che peraltro sono in mio possesso e ostensibili in ogni momento.
Il 27 maggio, per incarico della Procura della Repubblica della Pretura………., veniva eseguita l’autopsia del cadavere da parte del Dott…………….dell’istituto di Medicina legale della Università………..il quale tra l’altro segnalava: 1) “buone condizioni di nutrizione … segni di agopuntura (regione mammaria sn. e mano ds.) … 2) al terzo inferiore del braccio di destra, sulla sua superficie flessoria, segni di recente puntura di ago con circostante colorazione ecchimotica rosso-violacea: 3) al terzo medio del braccio di sinistra, nella superficie flessoria, due aree ecchimotiche di forma irregolare… (da manifesta compressione, n.d.s.) Torace: integro lo sterno; fratture costali dalla nona alla undicesima di destra sulla linea emiclaveare con discreta infiltrazione emorragica dei tessuti molli circostanti (compatibili con applicazione di manovre rianimatorie). Cavi pleurici contenenti circa 1000 cc di liquido siero-ematico limpido a sinistra e circa 600 cc a destra, liberi da aderenze. Polmoni: forma e volume nella norma; al taglio parenchima lievemente congesto in sede declive e pallido nei restanti settori, alla spremitura del parenchima fuoriesce modesta quantità di liquido schiumoso dagli apici, specie da quello di destra. Liquido schiumoso nel lume della trachea e dei grossi bronchi. Sacco pericardico: a livello del terzo superiore, sulla faccia anteriore, segno di recente puntura di ago con infiltrazione emorragica; cavo pericardico contenente pochi cc di liquido siero-ematico.
Cuore: di volume aumentato, del peso di 615 gr. Nulla all’epicardio. Endocardio valvolare: numerose vegetazioni calcifiche sui lembi valvolari aortici e sulla mitrale (semilunare aortica: lembi calcifici con aree nodulari fra loro confluenti; fusione dei lembi mediale e posteriore e ispessimento del lembo anteriore. Corde tendinee ispessite specie sul papillare anteriore).
Coronarie con pareti ispessite e calcifiche: il ramo discendente anteriore, a livello del terzo prossimale e del terzo medio, presenta due placche ateromasiche concentriche condizionante stenosi del lume intorno 30-40%; il ramo principale di destra presenta una placca ateromasica al terzo prossimale condizionante una stenosi del lume intorno al 70% e nei restanti settori stenosi irregolarmente distribuite intorno al 50%. Aorta interessata da ateromasia di grado medio-elevato soprattutto al’arco.
Stomaco: contenente scarsa quantità di liquame marroncino, indifferente. A livello della piccola curva, a circa 8 cm dal piloro, area ulcerativa profondamente escavata delle dimensioni di 1,7×1,5 cm con margini irregolari rossastri e fondo necrotico con area rosso-violacea (come per sangue coaugulato), nel contesto di area di cm 7×7 con margini mammellonati, di colorito bianco-grigiastro, di consistenza aumentata con scomparsa della normale plicatura al suo interno; si rilevano altresì numerose aree emorragiche puntiformi che interessano la mucosa della grande curva e del bulbo duodenale. Assenza di sangue nel lume intestinale”.
Nella relazione di consulenza tecnica m.l. per il P.M. che merita se del caso, un dettagliato riesame, sono contenute alcune fondarnentali conclusioni: “La causa della morte…………….è da identificarsi in una acuta insufficienza cardio-circolatoria in soggetto affetto da coronarosclerosi strenosante di grado medio-elevato, cardiomegalia, miocardiosclerosi in corso in grave anemizzazione da neoplasia gastrica”.
“…Nel caso di specie non ricorrevano le circostanze previste dalla legge per effettuare la trasfusione” (in TSO). “Le condizioni erano così precarie da soddisfare appieno i requisiti dello stato di necessità” (cioè soggetto in preda ad angor con imminente pericolo di vita n.d.g.).
“Terapia (trasfusionale)… in quel momento era l’unica che potesse offrire possibilità di successo” (ma il CT molto saggiamente sembra addebitare questa valutazione all’erroneo ragionamento della équipe dei medici curanti perché sa benissimo che in tali condizioni di grave sofferenza miocardica per infarto in atto, la emotrasfusione era assolutamente controindicata perché capace di determinare sovraccarico di un cuore molto sofferente e di produrre uno stress psico-fisico anche mortale: il che puntualmente avvenne in corso di trasfusione n.d.s.). “Lo stress emozionale, indotto dalla trasfusione attuata oltretutto mediante mezzi di coartazione e quindi la sua adeguatezza qualiquantitativa sono elementi per ritenere che anche quest’ultimo (e cioè lo stress… n.d.s.), proprio in considerazione del breve lasso cronologico con l’episodio di arresto cardiaco, abbia svolto un ruolo concausale, nel determinismo del decesso”. “Emerge pertanto che i medici dell’Ospedale ………….. abbiano privilegiato l’autonomia della loro decisione…sulla autonomia del paziente”.
Il GIP della Pretura circondariale di………….. in data 17.6.1998 convalida la richiesta di archiviazione avanzata dal PM rilevando che “per quanto riguarda la condotta dei sanitari indagati, anche se – come ha evidenziato il CT del PM – lo stress psicofisico indotto dalla forzata emotrasfusione ha svolto un ruolo concausale nel determinismo del decesso, in correlazione delle circostanze concrete e del conflitto degli interessi etico-giuridici in gioco, non par che essa sia censurabile sotto il profilo penale”.
E a questo punto non credo necessari ulteriori commenti o riferimenti (CT prodotta dalla vedova ………….. ecc.), riservandoli ad una ulteriore occasione, che, mi auguro, non può non intervenire.
Tre sole brevissime note finali: 1) l’ammalato, era si anenimizzato per sanguinamento di neoplasia gastrica, ma il 23 maggio 1996 versava in crisi di angor per accertata insufficienza coronarica (rilievo ECG di lesione infartuale) 2) la emotrasfusione non era pertanto indicata, trattandosi di p. da sottoporre subito a terapia intensiva cardiologica 3) la morte fu (con) causata dalla emotrasfusione coattiva e dallo stress psico-fisico che vi si accompagnò. Esistono pertanto chiari elementi di colpa per imperizia e imprudenza. Ma la vicenda travalica di per se stessa ogni legittimità deontologica e giuridica per il dato di fatto di una terapia violentemente praticata contro la volontà chiaramente, espressa dal paziente, mediante soppraffazione fisica e dispregio della libertà e della dignità di una persona cosciente moralmente motivata e pienamente capace di intendere e di volere.
A parte la ricorrenza degli estremi di cui all’art. 610 c.p. (violenza privata) e dell’art. 584 c.p. (o 586 c.p.) che non può non essere riconsiderata, è nella specie del tutto evidente la violazione: dell’art. 34, ultimo capv.. del c.d.m. per di più perpetrata con violenza e sopraffazione su paziente in condizioni di piena coscienza. Avendone ricevuto dalla vedova ………….. preghiera di interessamento, mi rivolgo pertanto alla massima autorità ordinistica, come è mio pieno dovere deontologico, per ogni provvedimento informativo e/o disciplinare che vorrà attuare, restando a disposizione per fornire tutta la documentazione – anche nominativa – del caso.
“IL DIRITTO DI UN ADULTO CHE RIFIUTA L’EMOTRASFUSIONE ANCHE SALVAVITA. LA POSIZIONE ETICA E DEONTOLOGICA, NEI SUOI RIFLESSI GIURIDICI DELL’ÉQUIPE MEDICA CHE, IN UN INTERVENTO PROGRAMMATO DI ELEZIONE, SENZA INFORMARE DELIBERATAMENTE IL PAZIENTE, CONFIDASSE NELL’EVENTUALE INTERVENTO AUTORIZZATORIO DEL TRIBUNALE AD ESEGUIRE IN STATO DI NECESSITÀ LA TRASFUSIONE RIFIUTATA DURANTE LA NARCOSI OPERATORIA”
Per violenza terapeutica: sopraffazione e morte di un uomo. Il tema della trasfusione ematica, quale estrema ed insostituibile terapia dello schock ipovolemico od anossico in soggetti criticamente depauperati di sangue o di emopigmento per fatti emorragici, accidentali o chirurgici, ovvero per patologie congenite od acquisite, sembrava ormai avviato verso una temperie di più serena rivalutazione, una volta liberato dalle maggiori asprezze inerenti le pur legittime divergenze deontologiche. Vi contribuiva l’affermarsi del principio di autonomia della persona che affrancava il medico dalle eccessive e vincolanti preoccupazioni cliniche sulle esigenze della terapia trasfusionale, resa meno esclusiva e cogente dai nuovi indirizzi relativi al trattamento degli anemizzati ed alla disponibilità selettiva di emoderivati e di razionali strategie chirurgiche. Il dilemma operativo e bioetico si limitava ormai al problema del minore in presenza di rifiuto dei genitori ed a quello del soggetto ormai privo di coscienza che avesse peraltro espresso una direttiva anticipata di rifiuto, ove l’uno o l’altro versassero in effettivo e non altrimenti superabile pericolo di vita. La ridefinizione di queste paradigmatiche eventualità quale è emersa dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 (artt. 6 e 9) e dal Codice italiano di deontologia medica del 1998 (art. 34) che valorizzano tanto il consenso informato del “minore” ormai maturo e in sufficiente misura consapevole delle proprie scelte quanto le direttive anticipate, da sussumere almeno alla stregua di non trascurabili elementi nella formazione del giudizio medico e dell’indirizzo terapeutico, avevano indotto ragionevoli orientamenti. Inoltre, l’ammissione normativa secondo cui la trasfusione “costituisce una pratica non esente da rischi”, che “necessita pertanto del consenso informato del ricevente (art.19 DM 15 gennaio 1991), la fortissima penetrazione di linee-guida nordamericane e anglosassoni in genere sul buon uso dei sangue, l’affiorare di decisioni giurisprudenziali sullo sfondo di una sempre più chiara e partecipata modulazione dottrinaria e deontologica, avevano fortemente attenuato dubbi, angosce, contrasti.
Anche il ricorso preliminare assolutamente deprecabile e professionalmente indegno dei medici raggelati dal dubbio, ai Procuratori della Repubblica competenti per territorio, onde trarne conforto o addirittura autorizzazione per trasfusioni di soggetti ormai non competenti (a parte il caso di “minori”), espressivo di un penoso “trend” di medicina difensiva, sembrava rarefarsi anche per l’avvento di sempre più chiare direttive specialistiche. Sin qui ho usato il tempo imperfetto, perché il processo è stato bruscamente, drammaticamente frenato.
Quanto è occorso a Milano supera infatti e di gran lunga ogni immaginazione e recupera arroganti atteggiamenti interventistici che mai si erano spinti peraltro alla legittimazione della trasfusione coattiva in soggetti adulti, eticamente motivati ed ancora in grado di esprimere con dignità e decisione la propria volontà negativa, pur nella consapevolezza di un pericolo (nella specie attuale ma non incombente) per la vita, in vista di un intervento (neppure urgentissimo). Il rapporto di causalità materiale tra la emotrasfusione coatta e la morte di un paziente in lotta contro una sopraffazione sinanco materiale, quale sembra decisamente emergere dalla ricostruzione medico-legale del caso, esaspera la gravità della vicenda, in cui si embricano paure, arroganze, drammi umani, culminati in una tragica nemesi, fino ad evocare aspetti penalistici fin qui inopinatamente esclusi.
Forse la lezione “fiorentina” che assimilava il trattamento chirurgico non consentito e seguito da morte all’omicidio preterintenzionale è stata dimenticata, e il codice di deontologia medica è stato ignorato in un incredibile e devastante soprassalto difensivistico non della vita del paziente ma della impunità del medico che ha indotto sciagurate decisioni (uso simultaneo della forza fisica e della forza pubblica) insensibili alle voci ammonitrici della scienza, della coscienza, della verità, della compassione e persino della fede. Si trattava di un testimone di Geova: ma questo è un elemento non essenziale. Si trattava soprattutto di una persona che gridava il più sacrosanto dei suoi diritti, la più inviolabile delle sue libertà….
Mi premuro segnalare, con profonda indignazione, la vicenda sanitaria che si concluse con la morte del testimone di Geova…….di anni 51, deceduto il 23 maggio 1996 presso l’Ospedale………al seguito di emotrasfusione coattiva. Il soggetto era ricoverato dal 21 maggio con diagnosi di “neoplasia gastrica – emorragia gastro-intestinale – infarto miocardico”; da qualche giorno aveva avuto episodi di ematemesi; la pressione, all’ingresso era 110/70, la cute pallida; la psiche e il sensorio integri; bassi i valori di emoglobina. Fu prospettato l’intervento; ma il p. espresse netto rifiuto alla emotrasfusione “prima dell’intervento”.
Il 22 maggio non vi era “sanguinamento” ma si insistette per la emotrasfusione interpellando un medico legale e un magistrato che avrebbe autorizzato la emotrasfusione stessa “dove sussiste la necessità” (ma tale assenso del magistrato non è documentato!). Il paziente continua a esprimere fermo e ripetuto rifiuto, anche una volta edotto dal rischio; ha un malore (episodio di sincope) da variazione di decubito (h 15,15); il cardiologo evidenzia (ECG) marcato danno sottocardiaco anterolaterale; alle 17,25 il p. denuncia angor retrosternale o oppressione (lieve miglioramento).
Alle 17.30 (si riporta testualmente quanto risulta in cartella clinica) “si contatta il magistrato… che conferma l’autorizzazione a procedere con le terapie mediche ritenute necessarie secondo scienza e coscienza” (non v’è accenno alla trasfusione e tanto meno per scritto). “Constatato il deterioramento progressivo delle ultime ore delle condizioni generali, della comparsa ECG di danno miocardico, del calo dell’ematocrito, dell’inutilità a procedere nelle terapie effettuate fino ad ora se non si praticano emotrasfusioni, si decide di valutare le condizioni psicofisiche attuali del p. per operare la terapia unica che si ritiene ormai non più procrastinabile (emotrasfusione)”.
Lo psichiatra chiamato per consulenza, conferma il più netto rifiuto del paziente e si limita a riferire del colloquio senza esprimere parere alcuno: “h 18,10: Dopo colloquio con il p. e con la moglie che confermano quanto detto alla psichiatra si attiva la procedura di TSO (sic!) e si richiede l’appoggio della Polizia di Stato (sic!) per poter effettuare terapia trasfusionale. h 12.40: “il p. debolmente risponde con estrema fatica alle domande rivoltegli pur essendo ancora cosciente; fornisce risposte esaurienti e corrette e ribadisce la sua non volontà a subire emotrasfusioni; le condizioni cliniche appaiono in progressivo e rapido decadimento; il p. riferisce dolore retrosternale e dispnea. Si giudica il p. in gravissimo ed immediato pericolo di vita e alla presenza dell’autorità di PS e del Direttore sanitario, si decide di iniziare immediatamente la terapia trasfusionale. Il p. rifiuta con la violenza e con urla la emotrasfusione. La forza pubblica allontana i familiari della stanza, che si oppongono a gran voce. Si decide di contenere il p. per poter eseguire emotrasfusione.
h. 19,45: è in corso la terza sacca. Mucose più rosee. P.A. 130/80. Il p. è agitatissimo e incontrollabile in preda ad uno stato di agitazione psico-motoria grave. ECG … conferma lo stato ischemico miocardico; si decide di proseguire con il programma emotrasfusionale con altre due sacche…il cardiologo contattato telefonicamente concorda.
H. 19.55: ‘l’infermiera al letto del paziente avvisa di crisi lipotimica con arresto del respiro … si inizia rianimazione… h. 20,30: exitus”
Si ritiene di non riportare per ora le dichiarazioni dei congiunti e dei testimoni oculari che peraltro sono in mio possesso e ostensibili in ogni momento.
Il 27 maggio, per incarico della Procura della Repubblica della Pretura………., veniva eseguita l’autopsia del cadavere da parte del Dott…………….dell’istituto di Medicina legale della Università………..il quale tra l’altro segnalava: 1) “buone condizioni di nutrizione … segni di agopuntura (regione mammaria sn. e mano ds.) … 2) al terzo inferiore del braccio di destra, sulla sua superficie flessoria, segni di recente puntura di ago con circostante colorazione ecchimotica rosso-violacea: 3) al terzo medio del braccio di sinistra, nella superficie flessoria, due aree ecchimotiche di forma irregolare… (da manifesta compressione, n.d.s.) Torace: integro lo sterno; fratture costali dalla nona alla undicesima di destra sulla linea emiclaveare con discreta infiltrazione emorragica dei tessuti molli circostanti (compatibili con applicazione di manovre rianimatorie). Cavi pleurici contenenti circa 1000 cc di liquido siero-ematico limpido a sinistra e circa 600 cc a destra, liberi da aderenze. Polmoni: forma e volume nella norma; al taglio parenchima lievemente congesto in sede declive e pallido nei restanti settori, alla spremitura del parenchima fuoriesce modesta quantità di liquido schiumoso dagli apici, specie da quello di destra. Liquido schiumoso nel lume della trachea e dei grossi bronchi. Sacco pericardico: a livello del terzo superiore, sulla faccia anteriore, segno di recente puntura di ago con infiltrazione emorragica; cavo pericardico contenente pochi cc di liquido siero-ematico.
Cuore: di volume aumentato, del peso di 615 gr. Nulla all’epicardio. Endocardio valvolare: numerose vegetazioni calcifiche sui lembi valvolari aortici e sulla mitrale (semilunare aortica: lembi calcifici con aree nodulari fra loro confluenti; fusione dei lembi mediale e posteriore e ispessimento del lembo anteriore. Corde tendinee ispessite specie sul papillare anteriore).
Coronarie con pareti ispessite e calcifiche: il ramo discendente anteriore, a livello del terzo prossimale e del terzo medio, presenta due placche ateromasiche concentriche condizionante stenosi del lume intorno 30-40%; il ramo principale di destra presenta una placca ateromasica al terzo prossimale condizionante una stenosi del lume intorno al 70% e nei restanti settori stenosi irregolarmente distribuite intorno al 50%. Aorta interessata da ateromasia di grado medio-elevato soprattutto al’arco.
Stomaco: contenente scarsa quantità di liquame marroncino, indifferente. A livello della piccola curva, a circa 8 cm dal piloro, area ulcerativa profondamente escavata delle dimensioni di 1,7×1,5 cm con margini irregolari rossastri e fondo necrotico con area rosso-violacea (come per sangue coaugulato), nel contesto di area di cm 7×7 con margini mammellonati, di colorito bianco-grigiastro, di consistenza aumentata con scomparsa della normale plicatura al suo interno; si rilevano altresì numerose aree emorragiche puntiformi che interessano la mucosa della grande curva e del bulbo duodenale. Assenza di sangue nel lume intestinale”.
Nella relazione di consulenza tecnica m.l. per il P.M. che merita se del caso, un dettagliato riesame, sono contenute alcune fondarnentali conclusioni: “La causa della morte…………….è da identificarsi in una acuta insufficienza cardio-circolatoria in soggetto affetto da coronarosclerosi strenosante di grado medio-elevato, cardiomegalia, miocardiosclerosi in corso in grave anemizzazione da neoplasia gastrica”.
“…Nel caso di specie non ricorrevano le circostanze previste dalla legge per effettuare la trasfusione” (in TSO). “Le condizioni erano così precarie da soddisfare appieno i requisiti dello stato di necessità” (cioè soggetto in preda ad angor con imminente pericolo di vita n.d.g.).
“Terapia (trasfusionale)… in quel momento era l’unica che potesse offrire possibilità di successo” (ma il CT molto saggiamente sembra addebitare questa valutazione all’erroneo ragionamento della équipe dei medici curanti perché sa benissimo che in tali condizioni di grave sofferenza miocardica per infarto in atto, la emotrasfusione era assolutamente controindicata perché capace di determinare sovraccarico di un cuore molto sofferente e di produrre uno stress psico-fisico anche mortale: il che puntualmente avvenne in corso di trasfusione n.d.s.). “Lo stress emozionale, indotto dalla trasfusione attuata oltretutto mediante mezzi di coartazione e quindi la sua adeguatezza qualiquantitativa sono elementi per ritenere che anche quest’ultimo (e cioè lo stress… n.d.s.), proprio in considerazione del breve lasso cronologico con l’episodio di arresto cardiaco, abbia svolto un ruolo concausale, nel determinismo del decesso”. “Emerge pertanto che i medici dell’Ospedale ………….. abbiano privilegiato l’autonomia della loro decisione…sulla autonomia del paziente”.
Il GIP della Pretura circondariale di………….. in data 17.6.1998 convalida la richiesta di archiviazione avanzata dal PM rilevando che “per quanto riguarda la condotta dei sanitari indagati, anche se – come ha evidenziato il CT del PM – lo stress psicofisico indotto dalla forzata emotrasfusione ha svolto un ruolo concausale nel determinismo del decesso, in correlazione delle circostanze concrete e del conflitto degli interessi etico-giuridici in gioco, non par che essa sia censurabile sotto il profilo penale”.
E a questo punto non credo necessari ulteriori commenti o riferimenti (CT prodotta dalla vedova ………….. ecc.), riservandoli ad una ulteriore occasione, che, mi auguro, non può non intervenire.
Tre sole brevissime note finali: 1) l’ammalato, era si anenimizzato per sanguinamento di neoplasia gastrica, ma il 23 maggio 1996 versava in crisi di angor per accertata insufficienza coronarica (rilievo ECG di lesione infartuale) 2) la emotrasfusione non era pertanto indicata, trattandosi di p. da sottoporre subito a terapia intensiva cardiologica 3) la morte fu (con) causata dalla emotrasfusione coattiva e dallo stress psico-fisico che vi si accompagnò. Esistono pertanto chiari elementi di colpa per imperizia e imprudenza. Ma la vicenda travalica di per se stessa ogni legittimità deontologica e giuridica per il dato di fatto di una terapia violentemente praticata contro la volontà chiaramente, espressa dal paziente, mediante soppraffazione fisica e dispregio della libertà e della dignità di una persona cosciente moralmente motivata e pienamente capace di intendere e di volere.
A parte la ricorrenza degli estremi di cui all’art. 610 c.p. (violenza privata) e dell’art. 584 c.p. (o 586 c.p.) che non può non essere riconsiderata, è nella specie del tutto evidente la violazione: dell’art. 34, ultimo capv.. del c.d.m. per di più perpetrata con violenza e sopraffazione su paziente in condizioni di piena coscienza. Avendone ricevuto dalla vedova ………….. preghiera di interessamento, mi rivolgo pertanto alla massima autorità ordinistica, come è mio pieno dovere deontologico, per ogni provvedimento informativo e/o disciplinare che vorrà attuare, restando a disposizione per fornire tutta la documentazione – anche nominativa – del caso.
Dr. Lelio Mario Sarteschi. Dipartimento di Medicina della Procreazione e dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Pisa.
Articolo interamente tratto da: www.med.unipi.it
Introduzione
In tempi recenti si è assistito allo sviluppo di una ricerca multidisciplinare mirante a ridurre al massimo l’utilizzazione del sangue nella terapia medico-chirurgica. Le ragioni di tale ricerca sono molteplici. In primo luogo vi è la crescente consapevolezza dei pericoli legati alle trasfusioni di sangue. E’ indubitabile infatti che, nonostante i progressi compiuti, non si è ancora in grado di eliminare del tutto le complicanze post-trasfusionali (1). Alle mai sopite apprensioni derivanti dal virus noti -epatite ed AIDS (2) in particolare – si è aggiunto recentemente il timore della contaminazione da agenti infettivi poco conosciuti (si veda per esempio il crescente allarme per il prione del morbo di Creutzfeld-Jacob (3). In molti studi clinici le trasfusioni sono state associate ad incremento di recidiva e ridotta sopravvivenza dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico per neoplasia (4) e inoltre sono state implicate nella genesi delle complicanze infettive post-operatorie, sia in pazienti sottoposti a chirurgia addominale (5) che ortopedica (6). Più recente è la pubblicazione dei dati secondo cui le trasfusioni peri-operatorie costituiscono un indipendente fattore di rischio nella c.d. “multiple organ failure”(MOF) post-traumatica (7).
In secondo luogo c’è la continua pressione dei centri trasfusionali perché sia perseguita con rigore la politica dei cosiddetto “buon uso del sangue”. Come è noto, questa risorsa è frutto di donazioni volontarie e pertanto ogni spreco, come l’impiego del sangue intero e le trasfusioni inutili nei malati terminali, dovrebbe essere evitato. Si deve tener conto inoltre, che mentre in alcune aree geografiche vi è un’alta disponibilità di sangue, in altre vi è carenza, e in situazioni catastrofiche anche le zone ad alta disponibilità potrebbero rapidamente impoverirsi. Ancora più interessanti in proposito sono i recenti studi pubblicati, secondo cui sembra che il mondo abbia bisogno ogni anno di 7,5 milioni di litri di sangue in più. Gli esperti prevedono che entro il 2030 mancheranno ogni anno, nei soli Stati Uniti, 4 milioni di unità di sangue (8).
Un terzo settore che stimola la ricerca, specialmente nel campo dei sostituti dei globuli rossi, è quello delle situazioni di emergenza. Sostanze capaci di ripristinare il volume ematico e velcolare l’ossigeno, di pronta utilizzazione anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero, sarebbero estremamente utili nelle circostanze di gravi disastri naturali. incidenti stradali o conflitti militari. La spinta maggiore alla ricerca nella medicina senza sangue viene però dal costante incremento, a livello mondiale, di coloro che per motivazioni religiose, rifiutano assolutamente le trasfusioni di sangue, i “testimoni di Geova”. La crescente presenza di questa comunità religiosa (in Italia ci sono oltre 220.000 Testimoni – 1 ogni 255 persone – ma la cifra raggiunge i 400.000 se si aggiungono i simpatizzanti), ha fornito un eccellente stimolo alla ricerca di strategie e strumenti terapeutici, che pian piano vengono utilizzati con profitto anche su coloro che non fanno obiezione di tipo religioso.
In questa relazione partiremo dunque proprio dal problema del trattamento di chi dissente alle trasfusioni di sangue, vedremo quali sono le risorse attuali nella tera-pia e quali i futuri sviluppi della medicina senza sangue. Linee guida nel trattamento dei pazienti che dissentono all’uso delle trasfusioni di sangue.
Il paziente che rifiuta trasfusioni di sangue, anche a rischio della propria vita, pone al medico una serie di difficoltà, etiche, legali e tecniche, che potrebbero generare inutili conflitti e pericolose perdite di tempo. Per risolvere questa difficoltà, in una recente consensus conference sono state presentate alcune linee guida da utilizzare nel trattamento dei pazienti testimoni di Geova (9). Riteniamo che tali indicazioni, se applicate, potrebbero esitare, sia in un miglior trattamento di questi pazienti, che in un avanzamento nell’esperienza della medicina senza sangue, sicuramente utile per tutti.
Queste sono le linee guida proposte:
l . Accettare la limitazione che il sangue allogenico non può essere usato.
2. Usare le alternative al sangue allogenico ove possibile e appropriato.
3. Discutere le conseguenze con il paziente. inclusa la possibilità di un’emorragia che può mettere in pericolo la vita o addirittura provocare la morte se non viene trasfuso.
4. Se non si può o non si vuole trattare un paziente testimone dì Geova, stabilire di trasferire il paziente in una struttura disponibile come ad esempio i Centri di Chirurgia Senza Sangue.
5. Contattare il locale Comitato di Assistenza Sanitaria dei Testimoni di Geova per informazioni e aiuto (la congregazione dei testimoni dì Geova ha istituito locali comitati sanitari che sono costituiti da membri della congregazione ben informati e preparati per fungere da tramite fra il medico e il paziente).
6. Cercare assistenza legale quando si ha a che fare con un adulto in stato di incoscienza o incompetente, andare alla ricerca di una precedente sentenza.
Queste direttive si basano su una avanzata concezione del rapporto medico-paziente, che tiene conto dell’individuo nella sua integrità psico-fisica ed è perfettamente in sintonia con le norme sul “consenso dell’avente diritto” esistenti nel nostro Paese (10, 11).
Revisione critica del bisogno trasfusionale.
L’accettazione del paziente, con i limiti imposti dalle sue credenze religiose, non deve però significare rassegnazione e senso di impotenza. E’ necessario tener presente che l’esperienza internazionale sui testimoni di Geova ha dimostrato come si possa fare a meno delle trasfusioni di sangue anche nelle circostanze più disperate, purché si applichino adeguate strategie terapeutiche (12). L’analisi dei dati pubblicati su testimoni di Geova sottoposti ad alta chirurgia senza trasfusioni di sangue ha infatti permesso di scoprire che il rifiuto trasfusionale aggiunge un rischio di mortalità da anemia valutabile approssimativamente tra lo 0,5% e l’1,5%. Poiché però ogni trasfusione ha un potenziale di reazioni avverse, tra lievi e gravi, valutabile intorno al 20% (13), Kitchens ritiene che la morbilità e la mortalità conseguenti alle trasfusioni probabilmente superano i rischi derivanti dal rifiuto trasfusionale (14).
E’ proprio dall’esperienza maturata nei centri dove si opera con i Testimoni nel pieno rispetto delle loro convinzioni che si è giunti negli ultimi anni ad una revisione critica dei livelli di concentrazione emoglobinica compatibili con la vita. Alla consensus conference tenuta nel 1988, sotto l’egida della FIDA e del N1H, si concluse che il valore trigger di 10 g/dL di Hb era senza basi scientifiche e si propose un nuovo valore standard di 7 g/dL (15). Oggi sappiamo che la sopravvivenza è possibile a concentrazioni emoglobiniche estremamente basse (1,4 g/dL), mentre la mortalità, con incidenza peraltro sconosciuta, si comincia ad incontrare al livelli di Hb inferiori a 5 dL. Per livelli superiori a 5 g/dl- non esistono prove fondate di un sostanziale incremento di mortalità (16). Ovviamente la non esistenza di un ‘trasfusion trigger” non significa che tutti i pazienti possano tollerare bassi livelli di emoglobina senza conseguenze; la presenza di coesistenti patologie può limitare notevolmente il grado di anemizzazione sopportabile. Ciò che si deve puntualizzare è il fatto che non possiamo attenerci a valori standard di concentrazione emoglobinica per affermare il bisogno trasfusionale; tale necessità deve essere valutata caso per caso. La sola base scientifica per l’intervento trasfusionale sta nella dimostrazione della caduta del rapporto fra trasporto e consumo di ossigeno al di sotto di un livello critico, che si riflette in un incremento dei livelli di lattato per attivazione del metabolismo anacrobio (17) . Attualmente i parametri per monitorare lo stato di questo rapporto critico (CO, CaO2, DO2, VO2, OER) sono misurabili solo con metodiche invasive (catetere di Swan-Ganz).
Strategie terapeutiche non trasfusionali.
Si deve innanzitutto considerare la grande differenza esistente fra interventi in elezione e trattamenti di urgenza. La diagnosi precoce, di grande importanza per ogni paziente, può essere fondamentale nel trattamento del paziente che rifiuta le emotrasfusioni. Si dovrebbe compiere ogni sforzo per condurre al letto operatorio il soggetto con il migliore assetto ematologico. A questo riguardo, dato che i Testimoni rifiutano il predeposito, diversi Autori hanno trovato utile massimizzare i livelli di emoglobina preoperatoria, facendo precedere gli interventi chirurgici da cicli di 3-4 settimane di terapia con eritropoietina e ferro. E’ stato dimostrato infatti in ogni campo della chirurgia, che la somministrazione di eritropoietina ricombinante nel periodo perioperatorio incrementa la concentrazione emoglobinica e aiuta a prevenire l’anemizzazione post-operatoria. La stimolazione dell’eritropoiesi è resa evidente dall’incremento della conta dei reticolociti nel terzo giorno di trattamento. L’equivalente di una unità di sangue è prodotta nell’arco di una settimana, mentre l’equivalente di cinque unità è prodotta in 28 giorni. Pertanto la terapia di quattro settimane con EPO produce un tasso di eritropoiesi pari a 2,5 volte il valore normale e consente di pianificare interventi in cui sia prevedibile una perdita di sangue pari a 5 unità (18). L’importanza di una adeguata preparazione è stata evidenziata recentemente dalla pubblicazione dei primi lavori sui trapianti di fegato compiuti senza l’impiego di sangue e emoderivati (19).
Durante l’intervento chirurgico si dovrà prestare particolare attenzione alle procedure che consentono di ridurre le perdite di sangue (corretta pianificazione preoperatoria, embolizzazione arteriosa selettiva, meticolosa emostasi, emodiluizione normovolemica, emodiluizione ípervolemica, recupero intraoperatorio del sangue, ipotensione controllata ed eventuale uso di agenti emostatici) e al mantenimento del volume circolante e dell’output cardiaco (plasmaexpanders e cardiocinetici). Altri presidi fondamentali, che possono essere impiegati anche al di fuori del contesto operatorio, nei reparti di terapia intensiva, sono quelli miranti a massimizzare la disponibilità di ossigeno (ventilazione assistita con alte concentrazioni di ossigeno; eventuali cicli in camera iperbarica; impiego dei sostituti dei globuli rossi non derivanti da sangue umano o animale, come i perfluorochimici e l’emoglobina ricombinante) e le procedure volte a ridurre il consumo di ossigeno (lieve ipotermia; sedazione; blocco neuromuscolare con ventilazione assistita) (20). La piastrino-aferesi, già usata nella chirurgia cardiaca è stata recentemente utilizzata anche nei trapianti di fegato, consentendo di reinfondere ai pazienti il proprio plasma ricco di piastrine alla fine dell’intervento. E’ stato calcolato che con tale tecnica si riduce la richiesta di trasfusioni di circa il 40% (21).
Più difficile ovviamente è la gestione delle situazioni di emergenza. In questi casi è più che mai importante l’attenta valutazione iniziale e la stretta sorveglianza. Si devono ridurre al minimo i prelievi di sangue per il monitoraggio dei parametri ematici. In uno studio compiuto in una unità di terapia intensiva è stato dimostrato come i pazienti ivi ricoverati erano soggetti ad una media di quattro prelievi al giorno, con una perdita ematica calcolata di circa 1 litro di sangue per tutto il periodo di degenza (22).
Non si deve ritardare alcuna procedura diagnostica (gastroscopia nell’ematemesi, per es.) e bisogna rendersi disponibili per intervenire anche se i livelli di emoglobina sono bassi. Una équipe chirurgica con vasta esperienza nel trattamento dei testimoni di Geova riferisce quanto segue: “Nella nostra serie di testimoni di Geova attivamente sanguinanti, l’iniziale trattamento conservativo con terapia chirurgica dilazionata ha portato ad un tasso di mortalità pari al 75%, rispetto al tasso del 20% ottenuto da quando si effettua l’operazione di emergenza entro le 24 ore dall’ingresso in ospedale … Quando la perdita di sangue (durante l’intervento) è stata inferiore a 500 ml, nessun paziente è morto, indipendentemente dal livello di emoglobina preoperatoria” (23). Sviluppi futuri della medicina senza sangue.
Gli sviluppi futuri della medicina senza sangue sono legati, certamente agli avanzamenti delle tecniche chirurgiche, ma soprattutto alla utilizzazione clinica dei sostituti artificiali del sangue e dei fattori di crescita emopoietici.
La ricerca nel campo dei sostituti artificiali del sangue ha progredito recentemente in varie direzioni.
Il plasma può essere sostituito, per la sua funzione volumetrica, da preparazioni colloidali, che esercitano una pressione osmotica analoga a quella delle proteine plasmatiche. Questi preparati sono da molto tempo a disposizione in diverse soluzioni (gelatina, destrano, amido idrossietílico), ma nuovi prodotti stanno per essere immessi sul mercato, con maggiori capacità di rimpiazzare il volume ematico durante gli interventi operatori (si veda il sito http://www.biotimeinc.com/ ). Molto più difficile è la sostituzione delle proteine plasmatiche. Attualmente sono disponibili alcuni fattori implicati nel meccanismo della coagulazione, prodotti per mezzo della ricombinazione genica, come il Fattore VIII (si veda il sito http://www.ahp.com/products/rhahf.htm ), il Fattore IX (si veda il sito http://www.genetics.com/genetics/genetics/products/benefix/index.htm ), il Fattore VIIa (si veda il sito http://www.novo.dk/health/cd/facts.asp ).
E’ in preparazione il Fattore X (si veda in Medline http://www.healthgate.com/cgi-bin/q-format.cgi?f=G&d=fmb97&m=197938&ui=97417727 ). Ma interessanti sviluppi a breve termine potrebbero venire dalla utilizzazione degli animali transgenici (si veda sito: http://www.genzyme.com/ir/gztc/welcome.htm ). Le proteine transgeniche sono prodotte inserendo DNA umano in cellule animali, così che dal latte delle femmine discendenti si possono ricavare le molecole desiderate. Tutte le proteine plasmatiche possono teoricamente essere prodotte con questo sistema; l’antitrombina III è attualmente in fase due di valutazione clinica (http://www.genzyme.com/ir/gztc/at3.htm ), mentre l’albumina è in fase di preparazione (http://www.genzyme.com/ir/gztc/humserm.htm ).
La ricerca di un sostituto dei globuli rossi è iniziata circa 40 anni addietro, ma ha ricevuto un notevole impulso solo recentemente, specialmente in seguito alla epidemia di AIDS. Le strade percorse fino ad oggi sono due, quella dell’emoglobina modificata e quella dei perfluorocomposti (PFC).
L’emoglobina modificata è oggi prodotta sia da globuli rossi, umani (sì veda il sito Hemosol Inc: http://www.hemosol.com/ ) o animali (si veda il sito Biopure Corporation http://www.biopure.com/html/hemopure.html ) che con la ricombinazione genica (si veda ìl sito Baxter: http://www.baxter.com/doctors/blood_therapies/hemo_therapeutics/index.html ). L’attuale emoglobina artificiale si è dimostrata capace, non solo di agire efficacemente quale trasportatrice di ossigeno, ma anche di stimolare il midollo osseo alla produzione di globuli rossi (si veda NoBlood.com – Recombinant Human Hemoglobin for Patients with Anemia: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1494 ). Attualmente ci sono almeno sei aziende produttrici di questo sostituto dei globuli rossi, due delle quali in fase tre di valutazione clinica; ma già una seconda generazione è in preparazione, con lo sviluppo di emoglobina microincapsulata (veri globuli rossi artificiali. all’interno dei quali potrà essere incluso un sistema multienzimatico).
I perfluorocomposti sono sostanze di sintesi organica, note per la loro elevata capacità di trasportare l’ossigeno. La prima generazione di questi prodotti, sviluppata per uso clinico nel 1976 (Fluosol DA), aveva notevoli limiti: Richiedeva che il paziente respirasse ad alte tensioni di ossi-eno per essere efficace, era rapidamente rimossa dal circolo e ritenuta nel sistema reticolo-endoteliale, provocandone soppressione, e in alcuni pazienti provocava attivazione del complemento. Per tali ragioni il Fluosol non ha ottenuto l’approvazione della FDA come sostituto dei globuli rossi. La ricerca è tuttavia proseguita. Attualmente una nuova generazione di perfluorocomposti è venuta all’esistenza, con almeno tre aziende dedicate alla sperimentazione (si veda Alliance Pharmaceutical Corp.: http://www.allp.com/ox.htm , Synthetic Blood International : http://www.sybd.com/Synthetic.html e la russa Perftoran (si veda Perftoran: http://www.perftoran.ru/ ) Il prodotto dell’Alliance Pharmaceutical, OxygentR è attualmente in fase 2 di sperimentazione clinica.
Un nuovo orizzonte sembra che si stia aprendo anche nella produzione di piastrine artificiali. La Keio University, in collaborazione con la Green Cross Corp, sta sviluppando un prodotto costituito da liposomi ricoperti da GP1b, una glicoproteina che si trova sulla superficie delle piastrine, il cui ruolo è quello di legarsi ad altri fattori della coagulazione per formare l’impalcatura del coagulo. La glicoproteina è prodotta con ingegneria genetica ed ha la stessa struttura di quella umana (si veda NoBlood.com – Checkpoints ori Road to Artificial Blood: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1589 )
I fattori di crescita emopoietici costituiscono l’altro fronte, denso di prospettive soprattutto in campo medico. Tali sostanze sono implicate nella produzione delle diverse cellule ematiche; i geni per molte di esse sono stati clonati, così che è oggi possibile produrne una grande quantità mediante l’ingegneria genetica.
La proliferazione delle cellule staminali, dalle quali, come è noto originano le diverse linee cellulari del sangue è stimolata dallo Stem cell factor (SCF). Oggi esso è disponibile per la sperimentazione clinica ed ha già completato la fase 3 (si veda Amgen: http://wwwext.Amgen.com/product/Pipeline.html#stemgen )
La produzione di granulociti, monociti/macrofagi e linfociti-T è potenziata dai Myeloid growth factors (G-CFS e GM-CFS), fattori di crescita già in uso clinico come supporto nei pazienti sottoposti a chemioterapia e trapianto di midollo osseo (http://www.neupogen.com/pub/index9.htm ). Per circa 30 anni gli ematologi hanno cercato il regolatore umorale delle piastrine, la trombopoietina. Tale fattore è particolarmente desiderato in ambito oncologico, allo scopo di ridurre le trombocitopenie causate dalle chemioterapie mielosoppressive (cfr http://www.pslgroup.com/dg/3ecba.htm ). Attualmente sono almeno tre i prodotti dell’ingegneria genetica utilizzabili per tale scopo. Due di essi sono in fase 2 di sperimentazione: la trombopoietina (TPO – si veda: http://www.gene.com/Pipeline/pipeline.html#3 ) e il fattore di cresscita e sviluppo dei megacariociti (PEG- rHuMGDF, prodotto da Amgen), una è stata recentemente licenziata per l’utilizzazione clinica, l’interleuchina-11 (IL-11 si veda: http://www.neumega.com/default.asp ).
Dell’eritropoietina (EPO) , potente stimolatore dell’eritropoiesi, oggi impiegata non solo in corso di insufficienza renale, ma anche in altre forme di anemia (http://www.thebody.com/ortho/procrit/full.html, si è già detto a proposito della preparazione agli interventi chirurgici.
L’insieme delle prospettive ha permesso lo sviluppo, nel Nord America, ma sempre più anche nel resto del mondo, dei cosiddetti “programmi di medicina senza sangue” (si veda: http://www.trasfusionfree.com/ ).
A coadiuvare questa ricerca, che potrebbe diventare una vera e propria disciplina autonoma all’interno degli studi delle facoltà di Medicina, vi sono attualmente diversi siti internet. Nell’intento di promuovere questo tipo di studi, la Divisione di Chirurgia Generale dell’Università di Pisa (Dipartimento di Oncologia), sotto la direzione del prof. Franco Mosca, ha recentemente linkato una pagina apposita dedicata alla ricerca nel campo della medicina senza sangue. Il sito, il cui indirizzo è http://www.med.unipi.it/patchir/bloodl/bmr-it.htm è in continua evoluzione e permette un aggiornamento costante, grazie al monitoraggio mondiale continuativo compiuto dagli operatori.
Conclusioni Lo sviluppo tecniche e prodotti che riducono o addirittura annullano la necessità del ricorso alle trasfusioni allogeniche ha ricevuto un forte impulso in anni recenti. Inevitabili complicanze post-trasfusionali, continua sollecitazione al buon uso del sangue da parte dei centri trasfusionali, pericolo di gravi emergenze sanitarie e crescita del rifiuto emotrasfusionale per motivazioni religiose, costituiscono un insieme di fattori altamente stimolanti per la ricerca, che attualmente è giunta al rango di una vera e propria disciplina universitaria. La rete informatica mondiale (World Wide Web) è sicuramente lo strumento più valido per lo scambio di esperienze e il continuo aggiornamento in questa disciplina dal rapido progresso.
Bibliografia. 1-Klein HG. Allogeneic transfusion risks in the surgical patient. Am J Surg 1995; 170 (suppl 6A):21-26.
2-Williams AE, Thomson RA, Schreiber GB, Watanabe K, Bethel J, Lo A, Kleinman SH, Hollingswort Q Nemo JG. Estimates of infectious disease risk factors in US blood donors. JAMA. 1997; 277:967-972.
3-Busch MP, Glynn SA, Schreiber GB. Potential increased risk of virus transmission due to exclusion of older donors because of concern over CreutzfeldJakob disease. Transfusion 1997; 37:996-1002.
4-Blumberg N, Chuang-Stein C, Heal JM. The relation ship of blood transfusion, tumor staging, and cancer recurrence. Transfusion 1990; 30:291-294.
5-Johanson S, Andersson M. Adverse effects of perioperative blood transfusion in patients with colorectal cancer. Eur J Surg 1992; 158:419-425.
6-Koval M, Rosemberg AD, Zuckerman JD, Aharonoff GB, Skovron ML, Benstein RI—-, Su E, Chakka M. Does blood transfusion inercase the risk of infection after hip fracture? J Orthop Tratima 1997; ) 1:260-266.
7-Moore FA, Moore EE, Sauaia A. Blood transfusion. An indipendent risk factor for postinjury multiple organ failure. Arch Surg 1997; 132:620-625.
8-Nucci ML, Abuchowsky A. Il sangue artificiale. Le Scienze 1998, 356:32-38- 9-Spence RK. Surgical red blood cell transfusion practice policies. Am J Surg 1995; 170 (suppl 6A): 14,15 (Appendix 2).
10-Associazione Europea dei Testimoni di Geova per la Tutela della Libertà Religiosa. Emotrasfusioni e consenso informato. La questione di minori. Il diritto di famiglia e delle persone 1996. Fasc. 1: 376-418.
11-Beria di Argentine A. Il consenso informato nella trasfusione di sangue. Aspetti giuridici. La trasfusione del sangue 1995; 40:329-341.
12-Howell PJ Bamber PA. Severe acute anemia in a Jehovah’s Witness – Survival without blood transfusion. Anaesthesia 1987: 42:44-48.
13-Walker RH. Transfusion risk. Am J Clin Pathol 1987; 88:374-378.
14-Kítchens CS, Are transfusion overrated? Surgical outcome of Jehovah’s Witnesses. Am J Med 1993; 94: 117-119.
15-Consensus Conference. Perioperative red blood cell transfusion. JAMA 1988; 260:2700-2703.
16-Viele MK, Weiskopf RB. What can we learn about the need for transfusion from patients who refuse blood? The experience with Jehovah’s Witnesses. Transfusion 1994; 34:396-401.
17-Greenburg AG. New transfusion strategies. Am J Surg 1997; 173:49-52
18-Goodnough LT, Monk TG, Andriole GL. Erythroipoietin therapy. N Eng J Med 1997; 336:933-938.
19-Ramos HC, Todo S, Kang Y, Felekouras E, Doyle HR, StarzI TE. Liver transplantation without the use of blood products. Arch Surg 1994; 129:528-533. 20-Culkin Mann M, Votto J, Kambe J, McNamee MJ Management of the severely anemic patient who refuses transfusion: Lesson learned during the care of a Jehovah’s Witness. Ann Intern Med 1992; 117:1042-1048.
21-Skolnick AA. Ridurre al minimo la necessita di trasfusioni. JAMA, ed. it. 1993, 5:39-42.
22-Smoller BR, Kruskall MS. Phlebotomy for diagnostic laboratory tests in adults. N Eng J Med 1986; 314:1233~1235.
23-Atabek U, Spencer RK, Pello M, Alexander J, Camishion R. Pancreaticoduodenectomy without homologous blood transfusion in an ariemic Jehovah’s Witness. Arch Surg 1992; 127:349-351.
Introduzione
In tempi recenti si è assistito allo sviluppo di una ricerca multidisciplinare mirante a ridurre al massimo l’utilizzazione del sangue nella terapia medico-chirurgica. Le ragioni di tale ricerca sono molteplici. In primo luogo vi è la crescente consapevolezza dei pericoli legati alle trasfusioni di sangue. E’ indubitabile infatti che, nonostante i progressi compiuti, non si è ancora in grado di eliminare del tutto le complicanze post-trasfusionali (1). Alle mai sopite apprensioni derivanti dal virus noti -epatite ed AIDS (2) in particolare – si è aggiunto recentemente il timore della contaminazione da agenti infettivi poco conosciuti (si veda per esempio il crescente allarme per il prione del morbo di Creutzfeld-Jacob (3). In molti studi clinici le trasfusioni sono state associate ad incremento di recidiva e ridotta sopravvivenza dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico per neoplasia (4) e inoltre sono state implicate nella genesi delle complicanze infettive post-operatorie, sia in pazienti sottoposti a chirurgia addominale (5) che ortopedica (6). Più recente è la pubblicazione dei dati secondo cui le trasfusioni peri-operatorie costituiscono un indipendente fattore di rischio nella c.d. “multiple organ failure”(MOF) post-traumatica (7).
In secondo luogo c’è la continua pressione dei centri trasfusionali perché sia perseguita con rigore la politica dei cosiddetto “buon uso del sangue”. Come è noto, questa risorsa è frutto di donazioni volontarie e pertanto ogni spreco, come l’impiego del sangue intero e le trasfusioni inutili nei malati terminali, dovrebbe essere evitato. Si deve tener conto inoltre, che mentre in alcune aree geografiche vi è un’alta disponibilità di sangue, in altre vi è carenza, e in situazioni catastrofiche anche le zone ad alta disponibilità potrebbero rapidamente impoverirsi. Ancora più interessanti in proposito sono i recenti studi pubblicati, secondo cui sembra che il mondo abbia bisogno ogni anno di 7,5 milioni di litri di sangue in più. Gli esperti prevedono che entro il 2030 mancheranno ogni anno, nei soli Stati Uniti, 4 milioni di unità di sangue (8).
Un terzo settore che stimola la ricerca, specialmente nel campo dei sostituti dei globuli rossi, è quello delle situazioni di emergenza. Sostanze capaci di ripristinare il volume ematico e velcolare l’ossigeno, di pronta utilizzazione anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero, sarebbero estremamente utili nelle circostanze di gravi disastri naturali. incidenti stradali o conflitti militari. La spinta maggiore alla ricerca nella medicina senza sangue viene però dal costante incremento, a livello mondiale, di coloro che per motivazioni religiose, rifiutano assolutamente le trasfusioni di sangue, i “testimoni di Geova”. La crescente presenza di questa comunità religiosa (in Italia ci sono oltre 220.000 Testimoni – 1 ogni 255 persone – ma la cifra raggiunge i 400.000 se si aggiungono i simpatizzanti), ha fornito un eccellente stimolo alla ricerca di strategie e strumenti terapeutici, che pian piano vengono utilizzati con profitto anche su coloro che non fanno obiezione di tipo religioso.
In questa relazione partiremo dunque proprio dal problema del trattamento di chi dissente alle trasfusioni di sangue, vedremo quali sono le risorse attuali nella tera-pia e quali i futuri sviluppi della medicina senza sangue. Linee guida nel trattamento dei pazienti che dissentono all’uso delle trasfusioni di sangue.
Il paziente che rifiuta trasfusioni di sangue, anche a rischio della propria vita, pone al medico una serie di difficoltà, etiche, legali e tecniche, che potrebbero generare inutili conflitti e pericolose perdite di tempo. Per risolvere questa difficoltà, in una recente consensus conference sono state presentate alcune linee guida da utilizzare nel trattamento dei pazienti testimoni di Geova (9). Riteniamo che tali indicazioni, se applicate, potrebbero esitare, sia in un miglior trattamento di questi pazienti, che in un avanzamento nell’esperienza della medicina senza sangue, sicuramente utile per tutti.
Queste sono le linee guida proposte:
l . Accettare la limitazione che il sangue allogenico non può essere usato.
2. Usare le alternative al sangue allogenico ove possibile e appropriato.
3. Discutere le conseguenze con il paziente. inclusa la possibilità di un’emorragia che può mettere in pericolo la vita o addirittura provocare la morte se non viene trasfuso.
4. Se non si può o non si vuole trattare un paziente testimone dì Geova, stabilire di trasferire il paziente in una struttura disponibile come ad esempio i Centri di Chirurgia Senza Sangue.
5. Contattare il locale Comitato di Assistenza Sanitaria dei Testimoni di Geova per informazioni e aiuto (la congregazione dei testimoni dì Geova ha istituito locali comitati sanitari che sono costituiti da membri della congregazione ben informati e preparati per fungere da tramite fra il medico e il paziente).
6. Cercare assistenza legale quando si ha a che fare con un adulto in stato di incoscienza o incompetente, andare alla ricerca di una precedente sentenza.
Queste direttive si basano su una avanzata concezione del rapporto medico-paziente, che tiene conto dell’individuo nella sua integrità psico-fisica ed è perfettamente in sintonia con le norme sul “consenso dell’avente diritto” esistenti nel nostro Paese (10, 11).
Revisione critica del bisogno trasfusionale.
L’accettazione del paziente, con i limiti imposti dalle sue credenze religiose, non deve però significare rassegnazione e senso di impotenza. E’ necessario tener presente che l’esperienza internazionale sui testimoni di Geova ha dimostrato come si possa fare a meno delle trasfusioni di sangue anche nelle circostanze più disperate, purché si applichino adeguate strategie terapeutiche (12). L’analisi dei dati pubblicati su testimoni di Geova sottoposti ad alta chirurgia senza trasfusioni di sangue ha infatti permesso di scoprire che il rifiuto trasfusionale aggiunge un rischio di mortalità da anemia valutabile approssimativamente tra lo 0,5% e l’1,5%. Poiché però ogni trasfusione ha un potenziale di reazioni avverse, tra lievi e gravi, valutabile intorno al 20% (13), Kitchens ritiene che la morbilità e la mortalità conseguenti alle trasfusioni probabilmente superano i rischi derivanti dal rifiuto trasfusionale (14).
E’ proprio dall’esperienza maturata nei centri dove si opera con i Testimoni nel pieno rispetto delle loro convinzioni che si è giunti negli ultimi anni ad una revisione critica dei livelli di concentrazione emoglobinica compatibili con la vita. Alla consensus conference tenuta nel 1988, sotto l’egida della FIDA e del N1H, si concluse che il valore trigger di 10 g/dL di Hb era senza basi scientifiche e si propose un nuovo valore standard di 7 g/dL (15). Oggi sappiamo che la sopravvivenza è possibile a concentrazioni emoglobiniche estremamente basse (1,4 g/dL), mentre la mortalità, con incidenza peraltro sconosciuta, si comincia ad incontrare al livelli di Hb inferiori a 5 dL. Per livelli superiori a 5 g/dl- non esistono prove fondate di un sostanziale incremento di mortalità (16). Ovviamente la non esistenza di un ‘trasfusion trigger” non significa che tutti i pazienti possano tollerare bassi livelli di emoglobina senza conseguenze; la presenza di coesistenti patologie può limitare notevolmente il grado di anemizzazione sopportabile. Ciò che si deve puntualizzare è il fatto che non possiamo attenerci a valori standard di concentrazione emoglobinica per affermare il bisogno trasfusionale; tale necessità deve essere valutata caso per caso. La sola base scientifica per l’intervento trasfusionale sta nella dimostrazione della caduta del rapporto fra trasporto e consumo di ossigeno al di sotto di un livello critico, che si riflette in un incremento dei livelli di lattato per attivazione del metabolismo anacrobio (17) . Attualmente i parametri per monitorare lo stato di questo rapporto critico (CO, CaO2, DO2, VO2, OER) sono misurabili solo con metodiche invasive (catetere di Swan-Ganz).
Strategie terapeutiche non trasfusionali.
Si deve innanzitutto considerare la grande differenza esistente fra interventi in elezione e trattamenti di urgenza. La diagnosi precoce, di grande importanza per ogni paziente, può essere fondamentale nel trattamento del paziente che rifiuta le emotrasfusioni. Si dovrebbe compiere ogni sforzo per condurre al letto operatorio il soggetto con il migliore assetto ematologico. A questo riguardo, dato che i Testimoni rifiutano il predeposito, diversi Autori hanno trovato utile massimizzare i livelli di emoglobina preoperatoria, facendo precedere gli interventi chirurgici da cicli di 3-4 settimane di terapia con eritropoietina e ferro. E’ stato dimostrato infatti in ogni campo della chirurgia, che la somministrazione di eritropoietina ricombinante nel periodo perioperatorio incrementa la concentrazione emoglobinica e aiuta a prevenire l’anemizzazione post-operatoria. La stimolazione dell’eritropoiesi è resa evidente dall’incremento della conta dei reticolociti nel terzo giorno di trattamento. L’equivalente di una unità di sangue è prodotta nell’arco di una settimana, mentre l’equivalente di cinque unità è prodotta in 28 giorni. Pertanto la terapia di quattro settimane con EPO produce un tasso di eritropoiesi pari a 2,5 volte il valore normale e consente di pianificare interventi in cui sia prevedibile una perdita di sangue pari a 5 unità (18). L’importanza di una adeguata preparazione è stata evidenziata recentemente dalla pubblicazione dei primi lavori sui trapianti di fegato compiuti senza l’impiego di sangue e emoderivati (19).
Durante l’intervento chirurgico si dovrà prestare particolare attenzione alle procedure che consentono di ridurre le perdite di sangue (corretta pianificazione preoperatoria, embolizzazione arteriosa selettiva, meticolosa emostasi, emodiluizione normovolemica, emodiluizione ípervolemica, recupero intraoperatorio del sangue, ipotensione controllata ed eventuale uso di agenti emostatici) e al mantenimento del volume circolante e dell’output cardiaco (plasmaexpanders e cardiocinetici). Altri presidi fondamentali, che possono essere impiegati anche al di fuori del contesto operatorio, nei reparti di terapia intensiva, sono quelli miranti a massimizzare la disponibilità di ossigeno (ventilazione assistita con alte concentrazioni di ossigeno; eventuali cicli in camera iperbarica; impiego dei sostituti dei globuli rossi non derivanti da sangue umano o animale, come i perfluorochimici e l’emoglobina ricombinante) e le procedure volte a ridurre il consumo di ossigeno (lieve ipotermia; sedazione; blocco neuromuscolare con ventilazione assistita) (20). La piastrino-aferesi, già usata nella chirurgia cardiaca è stata recentemente utilizzata anche nei trapianti di fegato, consentendo di reinfondere ai pazienti il proprio plasma ricco di piastrine alla fine dell’intervento. E’ stato calcolato che con tale tecnica si riduce la richiesta di trasfusioni di circa il 40% (21).
Più difficile ovviamente è la gestione delle situazioni di emergenza. In questi casi è più che mai importante l’attenta valutazione iniziale e la stretta sorveglianza. Si devono ridurre al minimo i prelievi di sangue per il monitoraggio dei parametri ematici. In uno studio compiuto in una unità di terapia intensiva è stato dimostrato come i pazienti ivi ricoverati erano soggetti ad una media di quattro prelievi al giorno, con una perdita ematica calcolata di circa 1 litro di sangue per tutto il periodo di degenza (22).
Non si deve ritardare alcuna procedura diagnostica (gastroscopia nell’ematemesi, per es.) e bisogna rendersi disponibili per intervenire anche se i livelli di emoglobina sono bassi. Una équipe chirurgica con vasta esperienza nel trattamento dei testimoni di Geova riferisce quanto segue: “Nella nostra serie di testimoni di Geova attivamente sanguinanti, l’iniziale trattamento conservativo con terapia chirurgica dilazionata ha portato ad un tasso di mortalità pari al 75%, rispetto al tasso del 20% ottenuto da quando si effettua l’operazione di emergenza entro le 24 ore dall’ingresso in ospedale … Quando la perdita di sangue (durante l’intervento) è stata inferiore a 500 ml, nessun paziente è morto, indipendentemente dal livello di emoglobina preoperatoria” (23). Sviluppi futuri della medicina senza sangue.
Gli sviluppi futuri della medicina senza sangue sono legati, certamente agli avanzamenti delle tecniche chirurgiche, ma soprattutto alla utilizzazione clinica dei sostituti artificiali del sangue e dei fattori di crescita emopoietici.
La ricerca nel campo dei sostituti artificiali del sangue ha progredito recentemente in varie direzioni.
Il plasma può essere sostituito, per la sua funzione volumetrica, da preparazioni colloidali, che esercitano una pressione osmotica analoga a quella delle proteine plasmatiche. Questi preparati sono da molto tempo a disposizione in diverse soluzioni (gelatina, destrano, amido idrossietílico), ma nuovi prodotti stanno per essere immessi sul mercato, con maggiori capacità di rimpiazzare il volume ematico durante gli interventi operatori (si veda il sito http://www.biotimeinc.com/ ). Molto più difficile è la sostituzione delle proteine plasmatiche. Attualmente sono disponibili alcuni fattori implicati nel meccanismo della coagulazione, prodotti per mezzo della ricombinazione genica, come il Fattore VIII (si veda il sito http://www.ahp.com/products/rhahf.htm ), il Fattore IX (si veda il sito http://www.genetics.com/genetics/genetics/products/benefix/index.htm ), il Fattore VIIa (si veda il sito http://www.novo.dk/health/cd/facts.asp ).
E’ in preparazione il Fattore X (si veda in Medline http://www.healthgate.com/cgi-bin/q-format.cgi?f=G&d=fmb97&m=197938&ui=97417727 ). Ma interessanti sviluppi a breve termine potrebbero venire dalla utilizzazione degli animali transgenici (si veda sito: http://www.genzyme.com/ir/gztc/welcome.htm ). Le proteine transgeniche sono prodotte inserendo DNA umano in cellule animali, così che dal latte delle femmine discendenti si possono ricavare le molecole desiderate. Tutte le proteine plasmatiche possono teoricamente essere prodotte con questo sistema; l’antitrombina III è attualmente in fase due di valutazione clinica (http://www.genzyme.com/ir/gztc/at3.htm ), mentre l’albumina è in fase di preparazione (http://www.genzyme.com/ir/gztc/humserm.htm ).
La ricerca di un sostituto dei globuli rossi è iniziata circa 40 anni addietro, ma ha ricevuto un notevole impulso solo recentemente, specialmente in seguito alla epidemia di AIDS. Le strade percorse fino ad oggi sono due, quella dell’emoglobina modificata e quella dei perfluorocomposti (PFC).
L’emoglobina modificata è oggi prodotta sia da globuli rossi, umani (sì veda il sito Hemosol Inc: http://www.hemosol.com/ ) o animali (si veda il sito Biopure Corporation http://www.biopure.com/html/hemopure.html ) che con la ricombinazione genica (si veda ìl sito Baxter: http://www.baxter.com/doctors/blood_therapies/hemo_therapeutics/index.html ). L’attuale emoglobina artificiale si è dimostrata capace, non solo di agire efficacemente quale trasportatrice di ossigeno, ma anche di stimolare il midollo osseo alla produzione di globuli rossi (si veda NoBlood.com – Recombinant Human Hemoglobin for Patients with Anemia: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1494 ). Attualmente ci sono almeno sei aziende produttrici di questo sostituto dei globuli rossi, due delle quali in fase tre di valutazione clinica; ma già una seconda generazione è in preparazione, con lo sviluppo di emoglobina microincapsulata (veri globuli rossi artificiali. all’interno dei quali potrà essere incluso un sistema multienzimatico).
I perfluorocomposti sono sostanze di sintesi organica, note per la loro elevata capacità di trasportare l’ossigeno. La prima generazione di questi prodotti, sviluppata per uso clinico nel 1976 (Fluosol DA), aveva notevoli limiti: Richiedeva che il paziente respirasse ad alte tensioni di ossi-eno per essere efficace, era rapidamente rimossa dal circolo e ritenuta nel sistema reticolo-endoteliale, provocandone soppressione, e in alcuni pazienti provocava attivazione del complemento. Per tali ragioni il Fluosol non ha ottenuto l’approvazione della FDA come sostituto dei globuli rossi. La ricerca è tuttavia proseguita. Attualmente una nuova generazione di perfluorocomposti è venuta all’esistenza, con almeno tre aziende dedicate alla sperimentazione (si veda Alliance Pharmaceutical Corp.: http://www.allp.com/ox.htm , Synthetic Blood International : http://www.sybd.com/Synthetic.html e la russa Perftoran (si veda Perftoran: http://www.perftoran.ru/ ) Il prodotto dell’Alliance Pharmaceutical, OxygentR è attualmente in fase 2 di sperimentazione clinica.
Un nuovo orizzonte sembra che si stia aprendo anche nella produzione di piastrine artificiali. La Keio University, in collaborazione con la Green Cross Corp, sta sviluppando un prodotto costituito da liposomi ricoperti da GP1b, una glicoproteina che si trova sulla superficie delle piastrine, il cui ruolo è quello di legarsi ad altri fattori della coagulazione per formare l’impalcatura del coagulo. La glicoproteina è prodotta con ingegneria genetica ed ha la stessa struttura di quella umana (si veda NoBlood.com – Checkpoints ori Road to Artificial Blood: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1589 )
I fattori di crescita emopoietici costituiscono l’altro fronte, denso di prospettive soprattutto in campo medico. Tali sostanze sono implicate nella produzione delle diverse cellule ematiche; i geni per molte di esse sono stati clonati, così che è oggi possibile produrne una grande quantità mediante l’ingegneria genetica.
La proliferazione delle cellule staminali, dalle quali, come è noto originano le diverse linee cellulari del sangue è stimolata dallo Stem cell factor (SCF). Oggi esso è disponibile per la sperimentazione clinica ed ha già completato la fase 3 (si veda Amgen: http://wwwext.Amgen.com/product/Pipeline.html#stemgen )
La produzione di granulociti, monociti/macrofagi e linfociti-T è potenziata dai Myeloid growth factors (G-CFS e GM-CFS), fattori di crescita già in uso clinico come supporto nei pazienti sottoposti a chemioterapia e trapianto di midollo osseo (http://www.neupogen.com/pub/index9.htm ). Per circa 30 anni gli ematologi hanno cercato il regolatore umorale delle piastrine, la trombopoietina. Tale fattore è particolarmente desiderato in ambito oncologico, allo scopo di ridurre le trombocitopenie causate dalle chemioterapie mielosoppressive (cfr http://www.pslgroup.com/dg/3ecba.htm ). Attualmente sono almeno tre i prodotti dell’ingegneria genetica utilizzabili per tale scopo. Due di essi sono in fase 2 di sperimentazione: la trombopoietina (TPO – si veda: http://www.gene.com/Pipeline/pipeline.html#3 ) e il fattore di cresscita e sviluppo dei megacariociti (PEG- rHuMGDF, prodotto da Amgen), una è stata recentemente licenziata per l’utilizzazione clinica, l’interleuchina-11 (IL-11 si veda: http://www.neumega.com/default.asp ).
Dell’eritropoietina (EPO) , potente stimolatore dell’eritropoiesi, oggi impiegata non solo in corso di insufficienza renale, ma anche in altre forme di anemia (http://www.thebody.com/ortho/procrit/full.html, si è già detto a proposito della preparazione agli interventi chirurgici.
L’insieme delle prospettive ha permesso lo sviluppo, nel Nord America, ma sempre più anche nel resto del mondo, dei cosiddetti “programmi di medicina senza sangue” (si veda: http://www.trasfusionfree.com/ ).
A coadiuvare questa ricerca, che potrebbe diventare una vera e propria disciplina autonoma all’interno degli studi delle facoltà di Medicina, vi sono attualmente diversi siti internet. Nell’intento di promuovere questo tipo di studi, la Divisione di Chirurgia Generale dell’Università di Pisa (Dipartimento di Oncologia), sotto la direzione del prof. Franco Mosca, ha recentemente linkato una pagina apposita dedicata alla ricerca nel campo della medicina senza sangue. Il sito, il cui indirizzo è http://www.med.unipi.it/patchir/bloodl/bmr-it.htm è in continua evoluzione e permette un aggiornamento costante, grazie al monitoraggio mondiale continuativo compiuto dagli operatori.
Conclusioni Lo sviluppo tecniche e prodotti che riducono o addirittura annullano la necessità del ricorso alle trasfusioni allogeniche ha ricevuto un forte impulso in anni recenti. Inevitabili complicanze post-trasfusionali, continua sollecitazione al buon uso del sangue da parte dei centri trasfusionali, pericolo di gravi emergenze sanitarie e crescita del rifiuto emotrasfusionale per motivazioni religiose, costituiscono un insieme di fattori altamente stimolanti per la ricerca, che attualmente è giunta al rango di una vera e propria disciplina universitaria. La rete informatica mondiale (World Wide Web) è sicuramente lo strumento più valido per lo scambio di esperienze e il continuo aggiornamento in questa disciplina dal rapido progresso.
Bibliografia. 1-Klein HG. Allogeneic transfusion risks in the surgical patient. Am J Surg 1995; 170 (suppl 6A):21-26.
2-Williams AE, Thomson RA, Schreiber GB, Watanabe K, Bethel J, Lo A, Kleinman SH, Hollingswort Q Nemo JG. Estimates of infectious disease risk factors in US blood donors. JAMA. 1997; 277:967-972.
3-Busch MP, Glynn SA, Schreiber GB. Potential increased risk of virus transmission due to exclusion of older donors because of concern over CreutzfeldJakob disease. Transfusion 1997; 37:996-1002.
4-Blumberg N, Chuang-Stein C, Heal JM. The relation ship of blood transfusion, tumor staging, and cancer recurrence. Transfusion 1990; 30:291-294.
5-Johanson S, Andersson M. Adverse effects of perioperative blood transfusion in patients with colorectal cancer. Eur J Surg 1992; 158:419-425.
6-Koval M, Rosemberg AD, Zuckerman JD, Aharonoff GB, Skovron ML, Benstein RI—-, Su E, Chakka M. Does blood transfusion inercase the risk of infection after hip fracture? J Orthop Tratima 1997; ) 1:260-266.
7-Moore FA, Moore EE, Sauaia A. Blood transfusion. An indipendent risk factor for postinjury multiple organ failure. Arch Surg 1997; 132:620-625.
8-Nucci ML, Abuchowsky A. Il sangue artificiale. Le Scienze 1998, 356:32-38- 9-Spence RK. Surgical red blood cell transfusion practice policies. Am J Surg 1995; 170 (suppl 6A): 14,15 (Appendix 2).
10-Associazione Europea dei Testimoni di Geova per la Tutela della Libertà Religiosa. Emotrasfusioni e consenso informato. La questione di minori. Il diritto di famiglia e delle persone 1996. Fasc. 1: 376-418.
11-Beria di Argentine A. Il consenso informato nella trasfusione di sangue. Aspetti giuridici. La trasfusione del sangue 1995; 40:329-341.
12-Howell PJ Bamber PA. Severe acute anemia in a Jehovah’s Witness – Survival without blood transfusion. Anaesthesia 1987: 42:44-48.
13-Walker RH. Transfusion risk. Am J Clin Pathol 1987; 88:374-378.
14-Kítchens CS, Are transfusion overrated? Surgical outcome of Jehovah’s Witnesses. Am J Med 1993; 94: 117-119.
15-Consensus Conference. Perioperative red blood cell transfusion. JAMA 1988; 260:2700-2703.
16-Viele MK, Weiskopf RB. What can we learn about the need for transfusion from patients who refuse blood? The experience with Jehovah’s Witnesses. Transfusion 1994; 34:396-401.
17-Greenburg AG. New transfusion strategies. Am J Surg 1997; 173:49-52
18-Goodnough LT, Monk TG, Andriole GL. Erythroipoietin therapy. N Eng J Med 1997; 336:933-938.
19-Ramos HC, Todo S, Kang Y, Felekouras E, Doyle HR, StarzI TE. Liver transplantation without the use of blood products. Arch Surg 1994; 129:528-533. 20-Culkin Mann M, Votto J, Kambe J, McNamee MJ Management of the severely anemic patient who refuses transfusion: Lesson learned during the care of a Jehovah’s Witness. Ann Intern Med 1992; 117:1042-1048.
21-Skolnick AA. Ridurre al minimo la necessita di trasfusioni. JAMA, ed. it. 1993, 5:39-42.
22-Smoller BR, Kruskall MS. Phlebotomy for diagnostic laboratory tests in adults. N Eng J Med 1986; 314:1233~1235.
23-Atabek U, Spencer RK, Pello M, Alexander J, Camishion R. Pancreaticoduodenectomy without homologous blood transfusion in an ariemic Jehovah’s Witness. Arch Surg 1992; 127:349-351.
Convegno: Coscienza, medicina e alternative al sangue. Attualità in tema di rifiuto emotrasfusionale. ASL, Presidio Zona Casentino Sabato 4 marzo 2000.
BREVI NOTE IN TEMA DI CONSENSO INFORMATO ED AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE. IL CASO PARTICOLARE DELL’EMOTRASFUSIONE. Articolo interamente tratto da: www.usl8.toscana.it.
Il nostro ordinamento tutela i diritti fondamentali ed inviolabili della persona (art. 2 Cost.), fra i quali si annovera quello della libertà personale (art. 13 Cost.), che si esplica, fra l’altro, nel diritto di libertà religiosa (art. 19 Cost.) e nel diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Quest’ultimo, in particolare, prevede la riserva di legge per l’imposizione di trattamenti sanitari ed il limite tassativo del rispetto della persona umana anche nell’esecuzione di trattamenti imposti. Diretta derivazione di tale principio costituzionale è il disposto dell’art. 33 della L. n. 833/78 che, appunto, prevede la generale volontarietà dei trattamenti sanitari (cfr.: art. 32 Codice Deontologia Medica).
Volontarietà significa autodeterminazione nella scelta del trattamento, quantomeno nel senso della libertà di rifiuto di una determinata terapia.
Perché possa esprimersi reale consenso alla terapia, detto consenso deve essere “informato”, nel senso che il paziente deve essere posto in grado di conoscerne le caratteristiche, gli effetti (diretti e collaterali), nonché gli eventuali rischi, oltre – ovviamente – le eventuali alternative esistenti.
D’altra parte, il consenso del paziente, se non può dirsi la “scriminante” (ex art. 50 c.p.) che rende lecito l’atto medico (lecito, infatti, di per sé), ne costituisce certamente il limite naturale invalicabile.
Va, altresì, sottolineato che le motivazioni (di carattere religioso o non) e la rischiosità oggettiva della terapia non costituiscono elementi di rilievo per il rispetto del rifiuto nei confronti della terapia.
Da ciò consegue che, di fronte al rifiuto da parte di un paziente adulto e cosciente, il medico non possa (e non debba) far altro che desistere, procurando di assistere il paziente stesso con tutte le altre tecniche e terapie disponibili.
Si discute, da parte di alcuni, sul comportamento che il medico debba (o possa) tenere in caso di concreto ed attuale pericolo di vita del paziente per l’ipotesi in cui questi rifiuti una terapia “salvavita”.
Vi è chi sostiene, infatti, che il medico ometterebbe un atto dovuto rispettando il rifiuto e si renderebbe automaticamente responsabile della morte del paziente, così commettendo il reato di omicidio (colposo, se non doloso).
Si sostiene, conseguentemente, che il medico non debba tener conto del dissenso e che possa eseguire la terapia rifiutata, senza rispondere di violenza privata od altro reato, in quanto scriminato dallo “stato di necessità” (ex art. 54 c.p.) che esclude la punibilità della condotta finalizzata a salvare l’altrui vita.
La ricostruzione è fallace e risente, in realtà, di una concezione sostanzialmente paternalistica della professione medica secondo la quale è dovere (e fors’anche diritto) del medico curare il malato secondo propria scienza e propria coscienza, oltre che della (a volte mal celata) convinzione della “obiettiva irragionevolezza” del rifiuto di determinate terapie (emotrasfusione, particolarmente).
In realtà, se è indiscutibile che il medico abbia l’obbligo di prestare adeguata cura al paziente, è anche vero che l’obbligo sorge in quanto il paziente vi si sottopone ed accetta la terapia.
Diversamente opinando, il medico che operasse per salvare la vita al proprio paziente, nonostante il di lui dissenso rispetto alla terapia, dovrebbe dirsi scriminato non già dal citato art. 54 c.p. (di cui meglio si dirà), ma dall’art. 51 c.p. (adempimento di un dovere), esattamente come, per intendersi, non risponde di sequestro di persona il carabiniere che provvede ad un arresto a termini di legge.
Di fronte ad un cosciente ed “adulto” rifiuto, nessuna responsabilità può attribuirsi al medico che abbia rispettato il dissenso.
Nel caso in cui il soggetto sia, infatti, titolare di entrambi gli interessi (per altro, di pari dignità costituzionale) non può che essere lasciato al medesimo il diritto di decidere quale considerare prevalente. Sarà, quindi, solamente sulla base di un “consenso (anche presunto) dell’avente diritto” che si potrà ledere un interesse per tutelarne un altro.
In difetto, si arriverebbe all’illecita sottoposizione del paziente all’arbitrio del medico solamente a causa delle sue gravi condizioni di salute, in realtà finendo per contrapporre non il diritto alla vita ed il diritto all’autodeterminazione, bensì il diritto del medico di curare secondo la propria coscienza ed il diritto del paziente ad essere curato secondo la sua propria.
Ed il diritto di curare secondo coscienza mai potrebbe prevalere sul diritto ad essere curato secondo coscienza.
Ma l’inconferenza della scriminante dello stato di necessità si ricava anche “aliunde”.
Difatti, l’art. 2045 c.c. prevede l’indennizzabilità del danno patito dalla “vittima” della condotta scriminata ex art. 54 c.p. (del quale costituisce “pendant”).
Or dunque, è logicamente incompatibile prevedere un indennizzo (destinato a ristorare) quando il soggetto si sia visto ledere al solo scopo e con il risultato della tutela di un interesse prevalente.
Quale senso può avere l’indennizzo a favore di chi è stato, a conti fatti, avvantaggiato?
E’ ovvio, quindi, che il danneggiato deve essere soggetto diverso dal “beneficiario” della condotta scriminata dall’art. 54 c.p.
Il vero problema non è, quindi, quello del rifiuto cosciente ed “adulto”, bensì quello determinato dal paziente non in grado di esprimere consenso o dissenso a causa della propria minore età o del proprio stato di incoscienza.
Quanto a quest’ultimo, sia chiaro, lo stesso è rilevante soltanto ove abbia impedito l’espressione di un consenso o di un dissenso, giacché lo stato di incoscienza sopravvenuto è irrilevante, rimanendo valida la volontà espressa prima della perdita di coscienza.
Nel caso in cui, invece e per l’appunto, lo stato di incoscienza sia “originario”, la situazione appare assai delicata.
Legittimamente il consenso ad una congrua terapia deve presumersi in capo a chiunque non sia in grado di esprimere opinione contraria, ragion per cui non è possibile presumere la volontà di rinunciare ad una terapia salvavita (cfr. art. 35 Codice Deontologia Medica).
Si tratta, tuttavia, di presunzione relativa, la quale ammette prova contraria (anche se è chiaro che, stante la rilevanza dell’interesse in giuoco, detta prova contraria dovrà avere un grado di attendibilità notevolissimo).
E’ indiscutibile, per altro, che può ritenersi sufficiente, ad esempio, una dichiarazione predisposta e recata seco dal paziente, sempre che – ovviamente – non siamo noti elementi in senso contrario.
Altrettanto delicata è la questione relativa ai minori.
Questi ultimi non hanno capacità di autodeterminazione, ragion per cui, relativamente ai medesimi, non v’è dichiarazione che possa superare la “presunzione di consenso” di cui sopra si è detto. Il parere dei genitori, ove dissenziente rispetto alla terapia, non può ritenersi determinante: spetterà al Magistrato (Tribunale per i Minorenni) disporre nell’interesse del minore. E’ evidente che il serio dubbio sull’assenso ad una determinata terapia, ovvero il fermo dissenso espresso dai genitori del minore, in particolar modo quando, come per il caso dell’emotrasfusione (cfr. DM. 15.01.1991), la terapia stessa non sia esente da rischi, impone al medico ancora maggiore cautela nel procedere solamente ove la stessa sia assolutamente indispensabile e non vi siano valide alternative disponibili.
BREVI NOTE IN TEMA DI CONSENSO INFORMATO ED AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE. IL CASO PARTICOLARE DELL’EMOTRASFUSIONE. Articolo interamente tratto da: www.usl8.toscana.it.
Il nostro ordinamento tutela i diritti fondamentali ed inviolabili della persona (art. 2 Cost.), fra i quali si annovera quello della libertà personale (art. 13 Cost.), che si esplica, fra l’altro, nel diritto di libertà religiosa (art. 19 Cost.) e nel diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Quest’ultimo, in particolare, prevede la riserva di legge per l’imposizione di trattamenti sanitari ed il limite tassativo del rispetto della persona umana anche nell’esecuzione di trattamenti imposti. Diretta derivazione di tale principio costituzionale è il disposto dell’art. 33 della L. n. 833/78 che, appunto, prevede la generale volontarietà dei trattamenti sanitari (cfr.: art. 32 Codice Deontologia Medica).
Volontarietà significa autodeterminazione nella scelta del trattamento, quantomeno nel senso della libertà di rifiuto di una determinata terapia.
Perché possa esprimersi reale consenso alla terapia, detto consenso deve essere “informato”, nel senso che il paziente deve essere posto in grado di conoscerne le caratteristiche, gli effetti (diretti e collaterali), nonché gli eventuali rischi, oltre – ovviamente – le eventuali alternative esistenti.
D’altra parte, il consenso del paziente, se non può dirsi la “scriminante” (ex art. 50 c.p.) che rende lecito l’atto medico (lecito, infatti, di per sé), ne costituisce certamente il limite naturale invalicabile.
Va, altresì, sottolineato che le motivazioni (di carattere religioso o non) e la rischiosità oggettiva della terapia non costituiscono elementi di rilievo per il rispetto del rifiuto nei confronti della terapia.
Da ciò consegue che, di fronte al rifiuto da parte di un paziente adulto e cosciente, il medico non possa (e non debba) far altro che desistere, procurando di assistere il paziente stesso con tutte le altre tecniche e terapie disponibili.
Si discute, da parte di alcuni, sul comportamento che il medico debba (o possa) tenere in caso di concreto ed attuale pericolo di vita del paziente per l’ipotesi in cui questi rifiuti una terapia “salvavita”.
Vi è chi sostiene, infatti, che il medico ometterebbe un atto dovuto rispettando il rifiuto e si renderebbe automaticamente responsabile della morte del paziente, così commettendo il reato di omicidio (colposo, se non doloso).
Si sostiene, conseguentemente, che il medico non debba tener conto del dissenso e che possa eseguire la terapia rifiutata, senza rispondere di violenza privata od altro reato, in quanto scriminato dallo “stato di necessità” (ex art. 54 c.p.) che esclude la punibilità della condotta finalizzata a salvare l’altrui vita.
La ricostruzione è fallace e risente, in realtà, di una concezione sostanzialmente paternalistica della professione medica secondo la quale è dovere (e fors’anche diritto) del medico curare il malato secondo propria scienza e propria coscienza, oltre che della (a volte mal celata) convinzione della “obiettiva irragionevolezza” del rifiuto di determinate terapie (emotrasfusione, particolarmente).
In realtà, se è indiscutibile che il medico abbia l’obbligo di prestare adeguata cura al paziente, è anche vero che l’obbligo sorge in quanto il paziente vi si sottopone ed accetta la terapia.
Diversamente opinando, il medico che operasse per salvare la vita al proprio paziente, nonostante il di lui dissenso rispetto alla terapia, dovrebbe dirsi scriminato non già dal citato art. 54 c.p. (di cui meglio si dirà), ma dall’art. 51 c.p. (adempimento di un dovere), esattamente come, per intendersi, non risponde di sequestro di persona il carabiniere che provvede ad un arresto a termini di legge.
Di fronte ad un cosciente ed “adulto” rifiuto, nessuna responsabilità può attribuirsi al medico che abbia rispettato il dissenso.
Nel caso in cui il soggetto sia, infatti, titolare di entrambi gli interessi (per altro, di pari dignità costituzionale) non può che essere lasciato al medesimo il diritto di decidere quale considerare prevalente. Sarà, quindi, solamente sulla base di un “consenso (anche presunto) dell’avente diritto” che si potrà ledere un interesse per tutelarne un altro.
In difetto, si arriverebbe all’illecita sottoposizione del paziente all’arbitrio del medico solamente a causa delle sue gravi condizioni di salute, in realtà finendo per contrapporre non il diritto alla vita ed il diritto all’autodeterminazione, bensì il diritto del medico di curare secondo la propria coscienza ed il diritto del paziente ad essere curato secondo la sua propria.
Ed il diritto di curare secondo coscienza mai potrebbe prevalere sul diritto ad essere curato secondo coscienza.
Ma l’inconferenza della scriminante dello stato di necessità si ricava anche “aliunde”.
Difatti, l’art. 2045 c.c. prevede l’indennizzabilità del danno patito dalla “vittima” della condotta scriminata ex art. 54 c.p. (del quale costituisce “pendant”).
Or dunque, è logicamente incompatibile prevedere un indennizzo (destinato a ristorare) quando il soggetto si sia visto ledere al solo scopo e con il risultato della tutela di un interesse prevalente.
Quale senso può avere l’indennizzo a favore di chi è stato, a conti fatti, avvantaggiato?
E’ ovvio, quindi, che il danneggiato deve essere soggetto diverso dal “beneficiario” della condotta scriminata dall’art. 54 c.p.
Il vero problema non è, quindi, quello del rifiuto cosciente ed “adulto”, bensì quello determinato dal paziente non in grado di esprimere consenso o dissenso a causa della propria minore età o del proprio stato di incoscienza.
Quanto a quest’ultimo, sia chiaro, lo stesso è rilevante soltanto ove abbia impedito l’espressione di un consenso o di un dissenso, giacché lo stato di incoscienza sopravvenuto è irrilevante, rimanendo valida la volontà espressa prima della perdita di coscienza.
Nel caso in cui, invece e per l’appunto, lo stato di incoscienza sia “originario”, la situazione appare assai delicata.
Legittimamente il consenso ad una congrua terapia deve presumersi in capo a chiunque non sia in grado di esprimere opinione contraria, ragion per cui non è possibile presumere la volontà di rinunciare ad una terapia salvavita (cfr. art. 35 Codice Deontologia Medica).
Si tratta, tuttavia, di presunzione relativa, la quale ammette prova contraria (anche se è chiaro che, stante la rilevanza dell’interesse in giuoco, detta prova contraria dovrà avere un grado di attendibilità notevolissimo).
E’ indiscutibile, per altro, che può ritenersi sufficiente, ad esempio, una dichiarazione predisposta e recata seco dal paziente, sempre che – ovviamente – non siamo noti elementi in senso contrario.
Altrettanto delicata è la questione relativa ai minori.
Questi ultimi non hanno capacità di autodeterminazione, ragion per cui, relativamente ai medesimi, non v’è dichiarazione che possa superare la “presunzione di consenso” di cui sopra si è detto. Il parere dei genitori, ove dissenziente rispetto alla terapia, non può ritenersi determinante: spetterà al Magistrato (Tribunale per i Minorenni) disporre nell’interesse del minore. E’ evidente che il serio dubbio sull’assenso ad una determinata terapia, ovvero il fermo dissenso espresso dai genitori del minore, in particolar modo quando, come per il caso dell’emotrasfusione (cfr. DM. 15.01.1991), la terapia stessa non sia esente da rischi, impone al medico ancora maggiore cautela nel procedere solamente ove la stessa sia assolutamente indispensabile e non vi siano valide alternative disponibili.
I medici si impegnano a usare la propria conoscenza, le proprie capacità e la propria esperienza per combattere le malattie e la morte. Tuttavia, che dire se un paziente rifiuta il trattamento raccomandato? C’è la probabilità che questo accada se il paziente è un testimone di Geova e il trattamento prevede l’uso di sangue intero, eritrociti concentrati, plasma o piastrine.
Un medico può pensare che la scelta del paziente di non accettare un trattamento che implica l’uso di sangue leghi le mani a un personale medico scrupoloso. Tuttavia non bisogna dimenticare che anche pazienti che non sono testimoni di Geova decidono spesso di non seguire le raccomandazioni del loro medico. Secondo Appelbaum Roth,1 e il 19% dei pazienti delle cliniche universitarie ha rifiutato almeno un trattamento o una tecnica, anche se il 15% di questi dinieghi “poteva mettere a repentaglio la vita”.
L’idea generale che “il medico sa cosa è meglio” induce la maggioranza dei pazienti a rimettersi alla sua abilità e alla sua conoscenza. Ma sarebbe molto pericoloso se un medico si comportasse come se tale idea fosse un fatto scientificamente provato e agisse con i pazienti di conseguenza. È vero che la nostra preparazione, l’abilitazione alla professione e l’esperienza ci danno notevoli privilegi in campo medico. I pazienti, però, hanno dei diritti. E, come probabilmente sappiamo, la legge (anche la Costituzione) dà più importanza ai diritti.
Sulle pareti di quasi tutti gli ospedali è esposta la “Carta dei diritti del paziente”. Uno di questi diritti è quello del consenso consapevole, che più precisamente si potrebbe chiamare scelta consapevole. Dopo che il paziente è stato informato dei possibili risultati di vari trattamenti (o del mancato trattamento), spetta a lui decidere il da farsi. Nell’Albert Einstein Hospital del Bronx (New York), una direttiva di massima nei confronti delle trasfusioni di sangue e dei testimoni di Geova diceva: “Qualsiasi paziente adulto che non sia privo della capacità di intendere e di volere ha diritto di rifiutare un trattamento indipendentemente da quanto tale rifiuto possa nuocere alla sua salute”.2
Anche se i medici possono esprimere preoccupazioni in relazione all’etica o alla responsabilità, i tribunali hanno ribadito il fatto che la scelta del paziente è più importante.3 La Corte d’Appello di New York ha detto che “il diritto del paziente di decidere l’andamento della sua cura [è] la cosa più importante … [Un] medico non può essere ritenuto colpevole di inadempienza delle sue responsabilità legali o professionali quando rispetta il diritto che un paziente adulto capace ha di rifiutare un trattamento medico”.4 Quel tribunale ha pure fatto rilevare che “l’integrità etica della professione medica, pur essendo importante, non può avere maggior peso dei diritti individuali fondamentali qui rivendicati. Ad essere di somma importanza sono le necessità e i desideri dell’individuo, non le esigenze di un’istituzione”.5
Quando un Testimone rifiuta il sangue, la coscienza dei medici può essere turbata al pensiero di non seguire quella che sembra essere la terapia ottimale. Ciò che il Testimone chiede ai medici coscienziosi di fare, però, è di provvedergli la migliore cura alternativa possibile in quelle circostanze. Spesso dobbiamo modificare la terapia in base alle circostanze, come ad esempio ipertensione, forte allergia agli antibiotici o il non disporre di certe costose attrezzature. Trattandosi di pazienti Testimoni, si chiede ai medici di affrontare il problema medico o chirurgico tenendo conto della scelta e della coscienza del paziente, della sua decisione morale/religiosa di astenersi dal sangue.
Numerosi rapporti su grossi interventi chirurgici eseguiti su pazienti Testimoni mostrano che molti medici possono, in tutta coscienza e con esito favorevole, accondiscendere alla richiesta di non far uso di sangue. Per esempio, nel 1981, Cooley passò in rassegna 1.026 interventi cardiovascolari, il 22% dei quali su minori. Egli affermò che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”.6 Kambouris 7 ha parlato di interventi di alta chirurgia eseguiti su Testimoni ad alcuni dei quali era stato “negato un trattamento chirurgico urgente perché rifiutavano la trasfusione di sangue”. Egli ha detto: “A tutti i pazienti è stato assicurato prima del trattamento che in sala operatoria le loro convinzioni religiose sarebbero state rispettate, indipendentemente dalle circostanze. Questa linea di condotta non ha avuto effetti negativi”.
Quando un paziente è testimone di Geova, oltre al fatto della scelta entra in gioco anche la coscienza. Non si può pensare solo alla coscienza del medico. Che dire di quella del paziente? I testimoni di Geova considerano la vita un dono di Dio rappresentato dal sangue. Accettano il comando biblico dato ai cristiani di ‘astenersi dal sangue’ (Atti 15:28, 29).8 Quindi, se un medico assumesse un atteggiamento paternalistico e calpestasse le profonde e radicate convinzioni religiose del paziente, le conseguenze potrebbero essere tragiche. Papa Giovanni Paolo II ha osservato che violentare la coscienza di qualcuno “è il più doloroso colpo inferto alla dignità umana. È, in un certo senso, peggiore dell’infliggere la morte fisica, dell’uccidere”.9
Mentre i testimoni di Geova rifiutano il sangue per motivi religiosi, sono sempre di più i pazienti non Testimoni che decidono di evitare il sangue per rischi come AIDS, epatite non-A non-B e reazioni immunologiche. Possiamo dire loro il nostro parere circa il fatto che tali rischi sembrano minori rispetto ai vantaggi. Ma, come fa notare l’Ordine dei Medici Americani, il paziente è “l’ultimo arbitro nella decisione se accettare i rischi del trattamento o dell’operazione raccomandata dal medico o rischiare di farne a meno. Tale è il diritto naturale dell’individuo, che la legge riconosce”.10
A questo proposito, Macklin 11 ha menzionato il problema dei rischi/vantaggi in relazione a un Testimone che “rischiò di morire dissanguato senza trasfusione”. Uno studente di medicina disse: “Era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Che si fa quando le convinzioni religiose sono contrarie all’unico trattamento esistente?” Il ragionamento di Macklin: “Potremmo essere fermamente convinti che quest’uomo stia facendo uno sbaglio. Ma i testimoni di Geova credono che l’essere trasfusi … [possa] avere come risultato la dannazione eterna. Noi siamo preparati ad analizzare i rischi e i vantaggi dal punto di vista medico, ma se si contrappone la dannazione eterna alla vita che rimane da vivere sulla terra, l’analisi assume un’angolazione diversa”.11
In questo numero del Journal Vercillo e Duprey 12 fanno riferimento a In re Osborne per sottolineare la necessità di garantire la sicurezza delle persone a carico. Ma com’è stato risolto il caso? Esso riguardava il padre gravemente ferito di due minorenni. Il tribunale stabilì che, se fosse morto, i figli sarebbero stati affidati alle cure, materiali e spirituali, dei parenti. Perciò, come in altri casi recenti,13 il tribunale non ha ritenuto che lo stato avesse alcun motivo impellente per non tener conto della cura scelta dal paziente; l’intervento del giudice per autorizzare un trattamento che il paziente riteneva molto discutibile era ingiustificato.14 Con un trattamento alternativo il paziente si riprese e continuò ad aver cura della sua famiglia.
Non è forse vero che la maggioranza dei casi che si sono presentati, o che probabilmente si presenteranno, ai medici si può risolvere senza far uso di sangue? I nostri studi e la nostra sfera di competenza riguardano problemi medici, tuttavia i pazienti sono esseri umani i cui valori e le cui aspirazioni non si possono ignorare. Nessuno meglio di loro sa quali sono le cose più importanti per ciascuno, qual è la propria morale e la propria coscienza, cioè le cose che danno un senso alla vita.
Può essere una sfida per noi medici rispettare la coscienza religiosa dei pazienti Testimoni. Ma nell’accettare questa sfida diamo risalto a preziose libertà che tutti noi abbiamo a cuore. John Stuart Mill ha scritto appropriatamente: “Nessuna società in cui queste libertà, nell’insieme, non siano rispettate può dirsi libera, qualunque sia la sua forma di governo … Ciascuno è il legittimo custode della propria salute, fisica, mentale o spirituale. Gli uomini hanno molto da guadagnare lasciando che ognuno viva come gli sembra bene, anziché costringerlo a vivere come sembra bene agli altri”.15
1. Appelbaum PS, Roth LH: Patients who refuse treatment in medical hospitals. JAMA 1983; 250:1296-1301.
2. Macklin R: The inner workings of an ethics committee: Latest battle over Jehovah’s Witnesses. Hastings Cent Rep 1988; 18(1):15-20.
3. Bouvia v Superior Court, 179 Cal App 3d 1127, 225 Cal Rptr 297 (1986); In re Brown, 478 So 2d 1033 (Miss 1985).
4. In re Storar, 438 NYS 2d 266, 273, 420 NE 2d 64, 71 (NY 1981).
5. Rivers v Katz, 504 NYS 2d 74, 80 n 6, 495 NE 2d 337, 343 n 6 (NY 1986).
6. Dixon JL, Smalley MG: Jehovah’s Witnesses. The surgical/ethical challenge. JAMA 1981; 246:2471-2472.
7. Kambouris AA: Major abdominal operations on Jehovah’s Witnesses. Am Surg 1987; 53:350-356.
8. Jehovah’s Witnesses and the Question of Blood. Brooklyn, NY, Watchtower Bible and Tract Society, 1977, pp 1-64.
9. Pope denounces Polish crackdown. NY Times, January 11, 1982, p A9.
10. Office of the General Counsel: Medicolegal Forms with Legal Analysis. Chicago, American Medical Association, 1973, p 24.
11. Kleiman D: Hospital philosopher confronts decisions of life. NY Times, January 23, 1984, pp B1, B3.
12. Vercillo AP, Duprey SV: Jehovah’s Witnesses and the transfusion of blood products. NY State J Med 1988; 88:493-494.
13. Wons v Public Health Trust, 500 So 2d 679 (Fla Dist Ct App) (1987); Randolph v City of New York, 117 AD 2d 44, 501 NYS 2d 837 (1986); Taft v Taft, 383 Mass 331, 446 NE 2d 395 (1983).
14. In re Osborne, 294 A 2d 372 (DC Ct App 1972).
15. Mill JS: On liberty, in Adler MJ (ed): Great Books of the Western World. Chicago, Encyclopaedia Britannica, Inc, 1952, vol 43, p 273.
Un medico può pensare che la scelta del paziente di non accettare un trattamento che implica l’uso di sangue leghi le mani a un personale medico scrupoloso. Tuttavia non bisogna dimenticare che anche pazienti che non sono testimoni di Geova decidono spesso di non seguire le raccomandazioni del loro medico. Secondo Appelbaum Roth,1 e il 19% dei pazienti delle cliniche universitarie ha rifiutato almeno un trattamento o una tecnica, anche se il 15% di questi dinieghi “poteva mettere a repentaglio la vita”.
L’idea generale che “il medico sa cosa è meglio” induce la maggioranza dei pazienti a rimettersi alla sua abilità e alla sua conoscenza. Ma sarebbe molto pericoloso se un medico si comportasse come se tale idea fosse un fatto scientificamente provato e agisse con i pazienti di conseguenza. È vero che la nostra preparazione, l’abilitazione alla professione e l’esperienza ci danno notevoli privilegi in campo medico. I pazienti, però, hanno dei diritti. E, come probabilmente sappiamo, la legge (anche la Costituzione) dà più importanza ai diritti.
Sulle pareti di quasi tutti gli ospedali è esposta la “Carta dei diritti del paziente”. Uno di questi diritti è quello del consenso consapevole, che più precisamente si potrebbe chiamare scelta consapevole. Dopo che il paziente è stato informato dei possibili risultati di vari trattamenti (o del mancato trattamento), spetta a lui decidere il da farsi. Nell’Albert Einstein Hospital del Bronx (New York), una direttiva di massima nei confronti delle trasfusioni di sangue e dei testimoni di Geova diceva: “Qualsiasi paziente adulto che non sia privo della capacità di intendere e di volere ha diritto di rifiutare un trattamento indipendentemente da quanto tale rifiuto possa nuocere alla sua salute”.2
Anche se i medici possono esprimere preoccupazioni in relazione all’etica o alla responsabilità, i tribunali hanno ribadito il fatto che la scelta del paziente è più importante.3 La Corte d’Appello di New York ha detto che “il diritto del paziente di decidere l’andamento della sua cura [è] la cosa più importante … [Un] medico non può essere ritenuto colpevole di inadempienza delle sue responsabilità legali o professionali quando rispetta il diritto che un paziente adulto capace ha di rifiutare un trattamento medico”.4 Quel tribunale ha pure fatto rilevare che “l’integrità etica della professione medica, pur essendo importante, non può avere maggior peso dei diritti individuali fondamentali qui rivendicati. Ad essere di somma importanza sono le necessità e i desideri dell’individuo, non le esigenze di un’istituzione”.5
Quando un Testimone rifiuta il sangue, la coscienza dei medici può essere turbata al pensiero di non seguire quella che sembra essere la terapia ottimale. Ciò che il Testimone chiede ai medici coscienziosi di fare, però, è di provvedergli la migliore cura alternativa possibile in quelle circostanze. Spesso dobbiamo modificare la terapia in base alle circostanze, come ad esempio ipertensione, forte allergia agli antibiotici o il non disporre di certe costose attrezzature. Trattandosi di pazienti Testimoni, si chiede ai medici di affrontare il problema medico o chirurgico tenendo conto della scelta e della coscienza del paziente, della sua decisione morale/religiosa di astenersi dal sangue.
Numerosi rapporti su grossi interventi chirurgici eseguiti su pazienti Testimoni mostrano che molti medici possono, in tutta coscienza e con esito favorevole, accondiscendere alla richiesta di non far uso di sangue. Per esempio, nel 1981, Cooley passò in rassegna 1.026 interventi cardiovascolari, il 22% dei quali su minori. Egli affermò che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”.6 Kambouris 7 ha parlato di interventi di alta chirurgia eseguiti su Testimoni ad alcuni dei quali era stato “negato un trattamento chirurgico urgente perché rifiutavano la trasfusione di sangue”. Egli ha detto: “A tutti i pazienti è stato assicurato prima del trattamento che in sala operatoria le loro convinzioni religiose sarebbero state rispettate, indipendentemente dalle circostanze. Questa linea di condotta non ha avuto effetti negativi”.
Quando un paziente è testimone di Geova, oltre al fatto della scelta entra in gioco anche la coscienza. Non si può pensare solo alla coscienza del medico. Che dire di quella del paziente? I testimoni di Geova considerano la vita un dono di Dio rappresentato dal sangue. Accettano il comando biblico dato ai cristiani di ‘astenersi dal sangue’ (Atti 15:28, 29).8 Quindi, se un medico assumesse un atteggiamento paternalistico e calpestasse le profonde e radicate convinzioni religiose del paziente, le conseguenze potrebbero essere tragiche. Papa Giovanni Paolo II ha osservato che violentare la coscienza di qualcuno “è il più doloroso colpo inferto alla dignità umana. È, in un certo senso, peggiore dell’infliggere la morte fisica, dell’uccidere”.9
Mentre i testimoni di Geova rifiutano il sangue per motivi religiosi, sono sempre di più i pazienti non Testimoni che decidono di evitare il sangue per rischi come AIDS, epatite non-A non-B e reazioni immunologiche. Possiamo dire loro il nostro parere circa il fatto che tali rischi sembrano minori rispetto ai vantaggi. Ma, come fa notare l’Ordine dei Medici Americani, il paziente è “l’ultimo arbitro nella decisione se accettare i rischi del trattamento o dell’operazione raccomandata dal medico o rischiare di farne a meno. Tale è il diritto naturale dell’individuo, che la legge riconosce”.10
A questo proposito, Macklin 11 ha menzionato il problema dei rischi/vantaggi in relazione a un Testimone che “rischiò di morire dissanguato senza trasfusione”. Uno studente di medicina disse: “Era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Che si fa quando le convinzioni religiose sono contrarie all’unico trattamento esistente?” Il ragionamento di Macklin: “Potremmo essere fermamente convinti che quest’uomo stia facendo uno sbaglio. Ma i testimoni di Geova credono che l’essere trasfusi … [possa] avere come risultato la dannazione eterna. Noi siamo preparati ad analizzare i rischi e i vantaggi dal punto di vista medico, ma se si contrappone la dannazione eterna alla vita che rimane da vivere sulla terra, l’analisi assume un’angolazione diversa”.11
In questo numero del Journal Vercillo e Duprey 12 fanno riferimento a In re Osborne per sottolineare la necessità di garantire la sicurezza delle persone a carico. Ma com’è stato risolto il caso? Esso riguardava il padre gravemente ferito di due minorenni. Il tribunale stabilì che, se fosse morto, i figli sarebbero stati affidati alle cure, materiali e spirituali, dei parenti. Perciò, come in altri casi recenti,13 il tribunale non ha ritenuto che lo stato avesse alcun motivo impellente per non tener conto della cura scelta dal paziente; l’intervento del giudice per autorizzare un trattamento che il paziente riteneva molto discutibile era ingiustificato.14 Con un trattamento alternativo il paziente si riprese e continuò ad aver cura della sua famiglia.
Non è forse vero che la maggioranza dei casi che si sono presentati, o che probabilmente si presenteranno, ai medici si può risolvere senza far uso di sangue? I nostri studi e la nostra sfera di competenza riguardano problemi medici, tuttavia i pazienti sono esseri umani i cui valori e le cui aspirazioni non si possono ignorare. Nessuno meglio di loro sa quali sono le cose più importanti per ciascuno, qual è la propria morale e la propria coscienza, cioè le cose che danno un senso alla vita.
Può essere una sfida per noi medici rispettare la coscienza religiosa dei pazienti Testimoni. Ma nell’accettare questa sfida diamo risalto a preziose libertà che tutti noi abbiamo a cuore. John Stuart Mill ha scritto appropriatamente: “Nessuna società in cui queste libertà, nell’insieme, non siano rispettate può dirsi libera, qualunque sia la sua forma di governo … Ciascuno è il legittimo custode della propria salute, fisica, mentale o spirituale. Gli uomini hanno molto da guadagnare lasciando che ognuno viva come gli sembra bene, anziché costringerlo a vivere come sembra bene agli altri”.15
1. Appelbaum PS, Roth LH: Patients who refuse treatment in medical hospitals. JAMA 1983; 250:1296-1301.
2. Macklin R: The inner workings of an ethics committee: Latest battle over Jehovah’s Witnesses. Hastings Cent Rep 1988; 18(1):15-20.
3. Bouvia v Superior Court, 179 Cal App 3d 1127, 225 Cal Rptr 297 (1986); In re Brown, 478 So 2d 1033 (Miss 1985).
4. In re Storar, 438 NYS 2d 266, 273, 420 NE 2d 64, 71 (NY 1981).
5. Rivers v Katz, 504 NYS 2d 74, 80 n 6, 495 NE 2d 337, 343 n 6 (NY 1986).
6. Dixon JL, Smalley MG: Jehovah’s Witnesses. The surgical/ethical challenge. JAMA 1981; 246:2471-2472.
7. Kambouris AA: Major abdominal operations on Jehovah’s Witnesses. Am Surg 1987; 53:350-356.
8. Jehovah’s Witnesses and the Question of Blood. Brooklyn, NY, Watchtower Bible and Tract Society, 1977, pp 1-64.
9. Pope denounces Polish crackdown. NY Times, January 11, 1982, p A9.
10. Office of the General Counsel: Medicolegal Forms with Legal Analysis. Chicago, American Medical Association, 1973, p 24.
11. Kleiman D: Hospital philosopher confronts decisions of life. NY Times, January 23, 1984, pp B1, B3.
12. Vercillo AP, Duprey SV: Jehovah’s Witnesses and the transfusion of blood products. NY State J Med 1988; 88:493-494.
13. Wons v Public Health Trust, 500 So 2d 679 (Fla Dist Ct App) (1987); Randolph v City of New York, 117 AD 2d 44, 501 NYS 2d 837 (1986); Taft v Taft, 383 Mass 331, 446 NE 2d 395 (1983).
14. In re Osborne, 294 A 2d 372 (DC Ct App 1972).
15. Mill JS: On liberty, in Adler MJ (ed): Great Books of the Western World. Chicago, Encyclopaedia Britannica, Inc, 1952, vol 43, p 273.
Forse vi domanderete perché alcuni medici e ospedali si rivolgano subito al tribunale per avere l’autorizzazione a trasfondere. Spesso questo è dovuto al timore di incorrere in responsabilità penali.
Questa preoccupazione è del tutto infondata quando i testimoni di Geova scelgono terapie alternative al sangue. Un medico dell’Albert Einstein College of Medicine (USA) scrive: “Quasi tutti [i Testimoni] firmano senza esitazioni l’apposito modulo provveduto dall’Ordine dei Medici Americani con cui si sollevano da responsabilità medici e ospedali, e molti [Testimoni] portano con sé un tesserino con cui informano i medici della propria volontà. Il modulo ‘Rifiuto di accettare sangue ed emoderivati’ debitamente firmato e datato costituisce un accordo contrattuale ed è legalmente vincolante”. — Anesthesiology News, ottobre 1989.
Sì, i testimoni di Geova sono pronti a collaborare assicurando in maniera legalmente valida al medico o all’ospedale che non andranno incontro a responsabilità se porranno in atto, dietro richiesta, terapie alternative al sangue. Come raccomandano esperti in materia, ciascun Testimone porta con sé un apposito ‘Documento sanitario’. Questo tesserino viene rinnovato ogni anno ed è firmato dall’individuo e da testimoni, uno dei quali è spesso il parente più stretto.
Nel marzo 1990 la Corte Suprema dell’Ontario, in Canada, ha confermato una sentenza che si era espressa a favore di tale documento: “Il tesserino è la dichiarazione scritta di una posizione valida che il latore del medesimo può legittimamente assumere ponendo per iscritto una condizione all’accordo con il medico”. In Medicinsk Etik (1985) il prof. Daniel Andersen scrive: “Se il paziente ha rilasciato un’esplicita dichiarazione scritta dicendo che è testimone di Geova e che non vuole sangue in nessuna circostanza, il rispetto per l’autodeterminazione del paziente richiede che la sua volontà venga rispettata, proprio come se fosse stata espressa a voce”.
I Testimoni sono disposti a firmare anche gli appositi moduli di consenso in uso negli ospedali. Un ospedale di Friburgo, in Germania, ne utilizza uno in cui il medico può descrivere in un apposito spazio le informazioni che ha fornito al paziente circa la terapia. Poi, sopra le firme del medico e del paziente, c’è scritto: “Come appartenente al gruppo religioso dei Testimoni di Geova, rifiuto categoricamente l’impiego di sangue o emoderivati in relazione all’intervento a cui sarò sottoposto. Sono consapevole del fatto che la procedura programmata e necessaria comporterà pertanto un maggiore rischio di complicanze emorragiche. Dopo essere stato debitamente informato, in particolare su questo aspetto, chiedo che il necessario intervento chirurgico venga eseguito senza fare ricorso a sangue o emoderivati”. — Herz Kreislauf, agosto 1987.
In realtà le metodiche alternative alla trasfusione di sangue possono comportare meno rischi. Ma il punto che qui si vuol mettere in risalto è che i pazienti Testimoni sono lieti di sollevare i medici da responsabilità a questo riguardo affinché i medici possano concentrarsi sul loro compito, quello di aiutare i malati a guarire. Questa collaborazione giova a tutti, come spiega il dott. Angelos A. Kambouris nell’articolo “Grossi interventi addominali su testimoni di Geova”:
“Il chirurgo dovrebbe considerare vincolanti gli accordi preoperatori e attenervisi indipendentemente da ciò che potrebbe succedere durante e dopo l’operazione. [Questo] consente ai pazienti di avere un atteggiamento positivo nei confronti della terapia chirurgica e distoglie l’attenzione del chirurgo dalle considerazioni di natura giuridico-filosofica concentrandola su quelle tecnico-chirurgiche, cosa che gli permette di operare al meglio delle sue capacità e di agire nei migliori interessi del paziente”. — The American Surgeon, giugno 1987.
I medici si trovano davanti a una particolare sfida quando i loro pazienti sono testimoni di Geova. I seguaci di questa fede hanno profonde convinzioni religiose che impediscono loro di accettare sangue intero omologo o autologo, eritrociti concentrati, globuli bianchi o piastrine. Molti consentiranno l’uso della macchina cuore-polmone (non avviata con sangue), dell’apparecchiatura per la dialisi o di apparecchiature analoghe se la circolazione extracorporea è ininterrotta.
Il personale sanitario non deve preoccuparsi di eventuali responsabilità, poiché i Testimoni prenderanno le adeguate misure legali per esonerarlo da ogni responsabilità conseguente al loro consapevole rifiuto del sangue. Essi accettano liquidi sostitutivi non contenenti sangue. L’uso di queste e di altre accurate tecniche ha permesso ai medici di eseguire grossi interventi chirurgici su ogni tipo di pazienti Testimoni, adulti e minorenni. È stato quindi adottato per tali pazienti uno standard di assistenza medica che si concilia con il principio di curare la “persona integrale”. (JAMA 1981;246:2471-2472).
Un grosso problema sanitario mette a dura prova i medici. Negli Stati Uniti ci sono oltre mezzo milione di testimoni di Geova che non accettano trasfusioni di sangue. Il numero dei Testimoni e di quelli che si uniscono a loro è in aumento. Anche se in passato molti medici e funzionari ospedalieri consideravano il problema della trasfusione un problema legale e chiedevano l’autorizzazione del tribunale per procedere come ritenevano opportuno dal punto di vista medico, recente letteratura medica rivela che sta avendo luogo un notevole cambiamento di opinione. Forse questo è il risultato dell’accresciuta esperienza dei chirurghi con pazienti aventi bassissimi livelli di emoglobina e può anche essere un indice del fatto che viene sempre più riconosciuto il principio giuridico del consenso consapevole.
Ora un gran numero di casi di traumi e di chirurgia elettiva inerenti a Testimoni sia adulti che minorenni vengono risolti senza trasfusioni di sangue. Ultimamente, rappresentanti dei testimoni di Geova si sono incontrati con chirurghi e dirigenti amministrativi in alcuni dei più grossi centri medici del paese. Questi incontri hanno migliorato la comprensione e contribuito a risolvere problemi relativi a ricupero del sangue, trapianti e a come evitare scontri medico-legali.
LA POSIZIONE DEL TESTIMONE RIGUARDO ALLA TERAPIA
I testimoni di Geova accettano il trattamento medico e chirurgico. Anzi, fra loro ci sono decine di medici, e anche di chirurghi. Ma i Testimoni sono persone profondamente religiose e convinte del fatto che le trasfusioni di sangue sono loro vietate da passi biblici come: “Solo non dovete mangiare la carne con la sua anima, col suo sangue” (Genesi 9:3-4); ‘Ne devi versare il sangue e lo devi coprire di polvere’ (Levitico 17:13-14); e: ‘Astenetevi dalla fornicazione e da ciò che è stato strangolato e dal sangue’ (Atti 15:19-21).
Pur non essendo questi versetti espressi in termini medici, per i Testimoni essi escludono la trasfusione di sangue intero, di eritrociti concentrati e di plasma, nonché la somministrazione di globuli bianchi e di piastrine. L’intendimento religioso dei Testimoni, però, non vieta categoricamente l’uso di parti come albumina, immunoglobuline e preparati per l’emofilia; ciascun Testimone deciderà personalmente se accettarli.
I Testimoni credono che il sangue prelevato dal corpo dev’essere eliminato, per cui non accettano l’autotrasfusione di sangue predepositato. Sono contrari a quelle tecniche di raccolta o emodiluizione nel corso dell’intervento operatorio che comportano la conservazione di sangue. Molti Testimoni però consentono l’uso di apparecchiature per la dialisi o della macchina cuore-polmone (non avviata con sangue) nonché il ricupero del sangue nel corso dell’intervento operatorio purché la circolazione extracorporea sia ininterrotta; il medico vorrà chiedere a ogni singolo paziente ciò che la sua coscienza gli comanda.
I Testimoni non pensano che la Bibbia contenga commenti diretti sui trapianti di organi; per cui spetta al singolo Testimone decidere in merito a trapianti di cornea, di rene o di altri tessuti.
POSSIBILI I GROSSI INTERVENTI CHIRURGICI
Ci sono stati spesso chirurghi che hanno rifiutato di prendere in cura i Testimoni perché il loro atteggiamento circa l’uso di parti del sangue apparentemente ‘legava le mani al medico’, ma ora molti medici preferiscono considerare la situazione solo come un’ulteriore complicazione che mette alla prova la loro abilità. Dato che i Testimoni non sono contrari ai liquidi sostitutivi colloidali o cristalloidi, né all’elettrocauterizzazione, all’anestesia ipotensiva o all’ipotermia, vi si è fatto ricorso con buoni risultati. Le attuali e future applicazioni di hetastarch, la somministrazione per via endovenosa di forti dosi di dextran contenente ferro, e il bisturi a ultrasuoni promettono bene e non danno luogo a obiezioni dal punto di vista religioso. E se un sostituto del sangue a base di fluoro di recente produzione (Fluosol-DA) si dimostrerà innocuo ed efficace, il suo uso non sarà in contrasto con le credenze dei Testimoni.
Nel 1977 Ott e Cooley riferirono in merito a 542 operazioni cardiovascolari eseguite su Testimoni senza trasfondere sangue e conclusero che questa procedura può essere seguita “con un rischio ragionevolmente basso”. Rispondendo alla nostra richiesta, Cooley ha recentemente preparato una statistica su 1.026 operazioni, il 22% delle quali su minori, concludendo che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”. In modo analogo, il dott. Michael E. DeBakey comunica “che nella grande maggioranza delle situazioni [riguardanti i Testimoni] il rischio delle operazioni senza l’uso di trasfusioni di sangue non è maggiore che per quei pazienti con cui possiamo usare le trasfusioni di sangue” (comunicazione personale, marzo 1981). Nella letteratura medica si parla anche di complessi interventi all’apparato urinario e di chirurgia ortopedica eseguiti con successo. Il dott. G. Dean MacEwen e il dott. J. Richard Bowen scrivono che la fusione spinale posteriore “è stata realizzata con successo su 20 [Testimoni] minorenni” (dati inediti, agosto 1981). Essi aggiungono: “Il chirurgo deve imparare a rispettare il diritto del paziente di rifiutare una trasfusione di sangue pur seguendo sempre tecniche chirurgiche tali da risultare innocue per il paziente”.
Herbsman riferisce di avere avuto buoni risultati in casi, tra cui alcuni di minorenni, “in cui c’era stata forte perdita di sangue a seguito di traumi”. Egli ammette che “i Testimoni sono alquanto in svantaggio quando si tratta del sangue. Nondimeno è chiaro che ci sono alternative in sostituzione del sangue”. Notando che molti chirurghi hanno ritenuto di non poter accettare come pazienti i Testimoni “per timore di conseguenze legali”, egli mostra che questa non è una preoccupazione valida.
ASPETTI LEGALI E MINORENNI
I Testimoni sono pronti a firmare il modulo dell’Ordine dei Medici Americani che esonera i medici e gli ospedali da ogni responsabilità,e quasi tutti i Testimoni portano con sé un “Avviso per il medico”, datato e firmato da testimoni, preparato con la collaborazione di medici e legali. Questi documenti impegnano il paziente personalmente (ed economicamente) e offrono una protezione al medico, poiché il giudice Warren Burger sosteneva che una causa per scorrettezza professionale “apparirebbe priva di fondamento” nei casi in cui fosse stato firmato un tale documento. E commentando questo fatto in un’analisi sul “trattamento medico obbligatorio e libertà religiosa”, Paris ha scritto: “Qualcuno che ha esaminato le pubblicazioni ha detto: ‘Non sono riuscito a trovare nessun sostegno per la dichiarazione secondo cui il medico incorrerebbe in sanzioni … penali … se non imponesse la trasfusione di sangue a un paziente che non la vuole’. Il rischio sembra più il prodotto di una mente fertile in campo legale che una possibilità reale”.
La cura dei minori costituisce il problema maggiore, ed è spesso intentata un’azione giudiziaria contro i genitori in base alle norme sulla tutela dei figli. Ma tali provvedimenti sono contestati da molti medici e avvocati che conoscono bene i casi dei Testimoni e che sono convinti che i genitori Testimoni si interessano di assicurare ai loro figli una buona assistenza medica. Non volendo sottrarsi alla loro responsabilità di genitori o scaricarla su un giudice o su terzi, i Testimoni raccomandano di tener conto dei princìpi religiosi della famiglia. Il dott. A. D. Kelly, ex segretario dell’Ordine dei Medici Canadesi, ha scritto che “i genitori di minorenni e il parente prossimo di pazienti privi di sensi hanno il diritto di interpretare la volontà del paziente… . Non ammiro il comportamento dei giudici di un dubbio tribunale che si riuniscono alle due del mattino per sottrarre un fanciullo alla custodia dei suoi genitori”.
È assiomatico che i genitori abbiano voce in capitolo quando si tratta della cura dei loro figli, come ad esempio quando si tratta dei potenziali rischi o benefìci di interventi chirurgici, radiazioni o chemioterapia. Per ragioni morali che esulano dal problema del rischio delle trasfusioni, i genitori Testimoni chiedono di usare terapie che non siano vietate sotto il profilo religioso. Questo è in armonia con il principio medico di curare “la persona integrale”, non trascurando il possibile danno psicosociale permanente derivante da una tecnica che va contro le credenze fondamentali di una famiglia. In molti casi grossi centri del paese che hanno avuto a che fare con i Testimoni accettano ora il trasferimento di pazienti da istituti non disposti a curare i Testimoni, anche casi di bambini.
È UNA SFIDA PER IL MEDICO
È comprensibile che il medico, dedito a salvaguardare la vita e la salute dei pazienti con l’impiego di tutte le tecniche a sua disposizione, dovendo curare i testimoni di Geova si trovi davanti a un dilemma. Nella prefazione a una serie di articoli sui grossi interventi chirurgici su Testimoni, Harvey ammette: “Sono irritato da quelle credenze che ostacolano il mio lavoro”. Ma poi aggiunge: “Forse dimentichiamo troppo facilmente che la chirurgia è un’arte che dipende dalla tecnica personale dei singoli individui. La tecnica è suscettibile di miglioramento”.
Il professor Bolooki menziona un’inquietante notizia secondo cui uno dei centri traumatologici più attivi della contea di Dade, in Florida, “rifiutava regolarmente di curare” i Testimoni. Egli fa notare che “quasi tutte le tecniche chirurgiche per questo gruppo di pazienti comportano meno rischio del solito”. E aggiunge: “Sebbene i chirurghi pensino di venir privati di uno strumento della medicina moderna … sono convinto che c’è moltissimo da imparare operando questi pazienti”.
Anziché considerare il paziente Testimone un problema, un crescente numero di medici accetta la situazione come una sfida. Accogliendo la sfida hanno adottato uno standard di assistenza medica per questo gruppo di pazienti che è accettato in numerosi centri medici del paese. Questi medici forniscono allo stesso tempo la cura migliore per il benessere generale del paziente. Gardner e altri osservano infatti: “A che servirebbe guarire il corpo del paziente se, a suo giudizio, fosse pregiudicata la sua vita spirituale agli occhi di Dio, cosa che condurrebbe a una vita priva di significato e forse peggiore della morte stessa?”
I Testimoni riconoscono che, dal punto di vista medico, la loro convinzione, a cui si attengono tenacemente, aumenta apparentemente il rischio e può costituire una complicazione. Perciò in genere mostrano insolita riconoscenza per le cure che ricevono. Oltre ad avere gli elementi essenziali di una profonda fede e di una forte volontà di vivere, essi cooperano lietamente coi medici e col personale sanitario. Così paziente e medico affrontano insieme questa sfida che non ha uguale.
BIBLIOGRAFIA
1. Jehovah’s Witnesses and the Question of Blood. Brooklyn, NY, Watchtower Bible and Tract Society, 1977, pp. 1-64.
2. The Watchtower 1978;99 (June 15):29-31.
3. Hypotensive anesthesia facilitates hip surgery, MEDICAL NEWS. JAMA 1978;239:181.
4. Hetastarch (Hespan)— a new plasma expander. Med Lett Drugs Ther 1981;23:16.
5. Hamstra RD, Block MH, Schocket AL:Intravenous iron dextran in clinical medicine. JAMA 1980;243:1726-1731.
6. Lapin R: Major surgery in Jehovah’s Witnesses. Contemp Orthop 1980;2:647-654.
7. Fuerst ML: ‘Sonic scalpel’ spares vessels. Med Trib 1981;22:1,30.
8. Gonzáles ER: The saga of ‘artificial blood’: Fluosol a special boon to Jehovah’s Witnesses. JAMA 1980;243:719-724.
9. Ott DA, Cooley DA: Cardiovascular surgery in Jehovah’s Witnesses. JAMA 1977;238:1256-1258. 10. Roen PR, Velcek F: Extensive urologic surgery without blood transfusion. NY State J Med 1972;72:2524-2527.
11. Nelson CL, Martin K, Lawson N, et al: Total hip replacement without transfusion. Contemp Orthop 1980;2:655-658.
12. Herbsman H: Treating the Jehovah’s Witness. Emerg Med 1980;12:73-76.
13. Medicolegal Forms With Legal Analysis. Chicago, American Medical Association, 1976, p. 83.
14. Paris JJ: Compulsory medical treatment and religious freedom: Whose law shall prevail? Univ San Francisco Law Rev 1975;10:1-35.
15. Kelly AD: Aequanimitas Can Med Assoc J 1967;96:432.
16. Kolins J: Fatalities from blood transfusion. JAMA 1981;245:1120.
17. Harvey JP: A question of craftsmanship. Contemp Orthop 1980;2:629.
18. Bolooki H: Treatment of Jehovah’s Witnesses: Example of good care. Miami Med 1981;51:25-26.
19. Gardner B, Bivona J, Alfonso A, et al: Major surgery in Jehovah’s Witnesses. NY State J Med 1976;76:765-766.
Il personale sanitario non deve preoccuparsi di eventuali responsabilità, poiché i Testimoni prenderanno le adeguate misure legali per esonerarlo da ogni responsabilità conseguente al loro consapevole rifiuto del sangue. Essi accettano liquidi sostitutivi non contenenti sangue. L’uso di queste e di altre accurate tecniche ha permesso ai medici di eseguire grossi interventi chirurgici su ogni tipo di pazienti Testimoni, adulti e minorenni. È stato quindi adottato per tali pazienti uno standard di assistenza medica che si concilia con il principio di curare la “persona integrale”. (JAMA 1981;246:2471-2472).
Un grosso problema sanitario mette a dura prova i medici. Negli Stati Uniti ci sono oltre mezzo milione di testimoni di Geova che non accettano trasfusioni di sangue. Il numero dei Testimoni e di quelli che si uniscono a loro è in aumento. Anche se in passato molti medici e funzionari ospedalieri consideravano il problema della trasfusione un problema legale e chiedevano l’autorizzazione del tribunale per procedere come ritenevano opportuno dal punto di vista medico, recente letteratura medica rivela che sta avendo luogo un notevole cambiamento di opinione. Forse questo è il risultato dell’accresciuta esperienza dei chirurghi con pazienti aventi bassissimi livelli di emoglobina e può anche essere un indice del fatto che viene sempre più riconosciuto il principio giuridico del consenso consapevole.
Ora un gran numero di casi di traumi e di chirurgia elettiva inerenti a Testimoni sia adulti che minorenni vengono risolti senza trasfusioni di sangue. Ultimamente, rappresentanti dei testimoni di Geova si sono incontrati con chirurghi e dirigenti amministrativi in alcuni dei più grossi centri medici del paese. Questi incontri hanno migliorato la comprensione e contribuito a risolvere problemi relativi a ricupero del sangue, trapianti e a come evitare scontri medico-legali.
LA POSIZIONE DEL TESTIMONE RIGUARDO ALLA TERAPIA
I testimoni di Geova accettano il trattamento medico e chirurgico. Anzi, fra loro ci sono decine di medici, e anche di chirurghi. Ma i Testimoni sono persone profondamente religiose e convinte del fatto che le trasfusioni di sangue sono loro vietate da passi biblici come: “Solo non dovete mangiare la carne con la sua anima, col suo sangue” (Genesi 9:3-4); ‘Ne devi versare il sangue e lo devi coprire di polvere’ (Levitico 17:13-14); e: ‘Astenetevi dalla fornicazione e da ciò che è stato strangolato e dal sangue’ (Atti 15:19-21).
Pur non essendo questi versetti espressi in termini medici, per i Testimoni essi escludono la trasfusione di sangue intero, di eritrociti concentrati e di plasma, nonché la somministrazione di globuli bianchi e di piastrine. L’intendimento religioso dei Testimoni, però, non vieta categoricamente l’uso di parti come albumina, immunoglobuline e preparati per l’emofilia; ciascun Testimone deciderà personalmente se accettarli.
I Testimoni credono che il sangue prelevato dal corpo dev’essere eliminato, per cui non accettano l’autotrasfusione di sangue predepositato. Sono contrari a quelle tecniche di raccolta o emodiluizione nel corso dell’intervento operatorio che comportano la conservazione di sangue. Molti Testimoni però consentono l’uso di apparecchiature per la dialisi o della macchina cuore-polmone (non avviata con sangue) nonché il ricupero del sangue nel corso dell’intervento operatorio purché la circolazione extracorporea sia ininterrotta; il medico vorrà chiedere a ogni singolo paziente ciò che la sua coscienza gli comanda.
I Testimoni non pensano che la Bibbia contenga commenti diretti sui trapianti di organi; per cui spetta al singolo Testimone decidere in merito a trapianti di cornea, di rene o di altri tessuti.
POSSIBILI I GROSSI INTERVENTI CHIRURGICI
Ci sono stati spesso chirurghi che hanno rifiutato di prendere in cura i Testimoni perché il loro atteggiamento circa l’uso di parti del sangue apparentemente ‘legava le mani al medico’, ma ora molti medici preferiscono considerare la situazione solo come un’ulteriore complicazione che mette alla prova la loro abilità. Dato che i Testimoni non sono contrari ai liquidi sostitutivi colloidali o cristalloidi, né all’elettrocauterizzazione, all’anestesia ipotensiva o all’ipotermia, vi si è fatto ricorso con buoni risultati. Le attuali e future applicazioni di hetastarch, la somministrazione per via endovenosa di forti dosi di dextran contenente ferro, e il bisturi a ultrasuoni promettono bene e non danno luogo a obiezioni dal punto di vista religioso. E se un sostituto del sangue a base di fluoro di recente produzione (Fluosol-DA) si dimostrerà innocuo ed efficace, il suo uso non sarà in contrasto con le credenze dei Testimoni.
Nel 1977 Ott e Cooley riferirono in merito a 542 operazioni cardiovascolari eseguite su Testimoni senza trasfondere sangue e conclusero che questa procedura può essere seguita “con un rischio ragionevolmente basso”. Rispondendo alla nostra richiesta, Cooley ha recentemente preparato una statistica su 1.026 operazioni, il 22% delle quali su minori, concludendo che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”. In modo analogo, il dott. Michael E. DeBakey comunica “che nella grande maggioranza delle situazioni [riguardanti i Testimoni] il rischio delle operazioni senza l’uso di trasfusioni di sangue non è maggiore che per quei pazienti con cui possiamo usare le trasfusioni di sangue” (comunicazione personale, marzo 1981). Nella letteratura medica si parla anche di complessi interventi all’apparato urinario e di chirurgia ortopedica eseguiti con successo. Il dott. G. Dean MacEwen e il dott. J. Richard Bowen scrivono che la fusione spinale posteriore “è stata realizzata con successo su 20 [Testimoni] minorenni” (dati inediti, agosto 1981). Essi aggiungono: “Il chirurgo deve imparare a rispettare il diritto del paziente di rifiutare una trasfusione di sangue pur seguendo sempre tecniche chirurgiche tali da risultare innocue per il paziente”.
Herbsman riferisce di avere avuto buoni risultati in casi, tra cui alcuni di minorenni, “in cui c’era stata forte perdita di sangue a seguito di traumi”. Egli ammette che “i Testimoni sono alquanto in svantaggio quando si tratta del sangue. Nondimeno è chiaro che ci sono alternative in sostituzione del sangue”. Notando che molti chirurghi hanno ritenuto di non poter accettare come pazienti i Testimoni “per timore di conseguenze legali”, egli mostra che questa non è una preoccupazione valida.
ASPETTI LEGALI E MINORENNI
I Testimoni sono pronti a firmare il modulo dell’Ordine dei Medici Americani che esonera i medici e gli ospedali da ogni responsabilità,e quasi tutti i Testimoni portano con sé un “Avviso per il medico”, datato e firmato da testimoni, preparato con la collaborazione di medici e legali. Questi documenti impegnano il paziente personalmente (ed economicamente) e offrono una protezione al medico, poiché il giudice Warren Burger sosteneva che una causa per scorrettezza professionale “apparirebbe priva di fondamento” nei casi in cui fosse stato firmato un tale documento. E commentando questo fatto in un’analisi sul “trattamento medico obbligatorio e libertà religiosa”, Paris ha scritto: “Qualcuno che ha esaminato le pubblicazioni ha detto: ‘Non sono riuscito a trovare nessun sostegno per la dichiarazione secondo cui il medico incorrerebbe in sanzioni … penali … se non imponesse la trasfusione di sangue a un paziente che non la vuole’. Il rischio sembra più il prodotto di una mente fertile in campo legale che una possibilità reale”.
La cura dei minori costituisce il problema maggiore, ed è spesso intentata un’azione giudiziaria contro i genitori in base alle norme sulla tutela dei figli. Ma tali provvedimenti sono contestati da molti medici e avvocati che conoscono bene i casi dei Testimoni e che sono convinti che i genitori Testimoni si interessano di assicurare ai loro figli una buona assistenza medica. Non volendo sottrarsi alla loro responsabilità di genitori o scaricarla su un giudice o su terzi, i Testimoni raccomandano di tener conto dei princìpi religiosi della famiglia. Il dott. A. D. Kelly, ex segretario dell’Ordine dei Medici Canadesi, ha scritto che “i genitori di minorenni e il parente prossimo di pazienti privi di sensi hanno il diritto di interpretare la volontà del paziente… . Non ammiro il comportamento dei giudici di un dubbio tribunale che si riuniscono alle due del mattino per sottrarre un fanciullo alla custodia dei suoi genitori”.
È assiomatico che i genitori abbiano voce in capitolo quando si tratta della cura dei loro figli, come ad esempio quando si tratta dei potenziali rischi o benefìci di interventi chirurgici, radiazioni o chemioterapia. Per ragioni morali che esulano dal problema del rischio delle trasfusioni, i genitori Testimoni chiedono di usare terapie che non siano vietate sotto il profilo religioso. Questo è in armonia con il principio medico di curare “la persona integrale”, non trascurando il possibile danno psicosociale permanente derivante da una tecnica che va contro le credenze fondamentali di una famiglia. In molti casi grossi centri del paese che hanno avuto a che fare con i Testimoni accettano ora il trasferimento di pazienti da istituti non disposti a curare i Testimoni, anche casi di bambini.
È UNA SFIDA PER IL MEDICO
È comprensibile che il medico, dedito a salvaguardare la vita e la salute dei pazienti con l’impiego di tutte le tecniche a sua disposizione, dovendo curare i testimoni di Geova si trovi davanti a un dilemma. Nella prefazione a una serie di articoli sui grossi interventi chirurgici su Testimoni, Harvey ammette: “Sono irritato da quelle credenze che ostacolano il mio lavoro”. Ma poi aggiunge: “Forse dimentichiamo troppo facilmente che la chirurgia è un’arte che dipende dalla tecnica personale dei singoli individui. La tecnica è suscettibile di miglioramento”.
Il professor Bolooki menziona un’inquietante notizia secondo cui uno dei centri traumatologici più attivi della contea di Dade, in Florida, “rifiutava regolarmente di curare” i Testimoni. Egli fa notare che “quasi tutte le tecniche chirurgiche per questo gruppo di pazienti comportano meno rischio del solito”. E aggiunge: “Sebbene i chirurghi pensino di venir privati di uno strumento della medicina moderna … sono convinto che c’è moltissimo da imparare operando questi pazienti”.
Anziché considerare il paziente Testimone un problema, un crescente numero di medici accetta la situazione come una sfida. Accogliendo la sfida hanno adottato uno standard di assistenza medica per questo gruppo di pazienti che è accettato in numerosi centri medici del paese. Questi medici forniscono allo stesso tempo la cura migliore per il benessere generale del paziente. Gardner e altri osservano infatti: “A che servirebbe guarire il corpo del paziente se, a suo giudizio, fosse pregiudicata la sua vita spirituale agli occhi di Dio, cosa che condurrebbe a una vita priva di significato e forse peggiore della morte stessa?”
I Testimoni riconoscono che, dal punto di vista medico, la loro convinzione, a cui si attengono tenacemente, aumenta apparentemente il rischio e può costituire una complicazione. Perciò in genere mostrano insolita riconoscenza per le cure che ricevono. Oltre ad avere gli elementi essenziali di una profonda fede e di una forte volontà di vivere, essi cooperano lietamente coi medici e col personale sanitario. Così paziente e medico affrontano insieme questa sfida che non ha uguale.
BIBLIOGRAFIA
1. Jehovah’s Witnesses and the Question of Blood. Brooklyn, NY, Watchtower Bible and Tract Society, 1977, pp. 1-64.
2. The Watchtower 1978;99 (June 15):29-31.
3. Hypotensive anesthesia facilitates hip surgery, MEDICAL NEWS. JAMA 1978;239:181.
4. Hetastarch (Hespan)— a new plasma expander. Med Lett Drugs Ther 1981;23:16.
5. Hamstra RD, Block MH, Schocket AL:Intravenous iron dextran in clinical medicine. JAMA 1980;243:1726-1731.
6. Lapin R: Major surgery in Jehovah’s Witnesses. Contemp Orthop 1980;2:647-654.
7. Fuerst ML: ‘Sonic scalpel’ spares vessels. Med Trib 1981;22:1,30.
8. Gonzáles ER: The saga of ‘artificial blood’: Fluosol a special boon to Jehovah’s Witnesses. JAMA 1980;243:719-724.
9. Ott DA, Cooley DA: Cardiovascular surgery in Jehovah’s Witnesses. JAMA 1977;238:1256-1258. 10. Roen PR, Velcek F: Extensive urologic surgery without blood transfusion. NY State J Med 1972;72:2524-2527.
11. Nelson CL, Martin K, Lawson N, et al: Total hip replacement without transfusion. Contemp Orthop 1980;2:655-658.
12. Herbsman H: Treating the Jehovah’s Witness. Emerg Med 1980;12:73-76.
13. Medicolegal Forms With Legal Analysis. Chicago, American Medical Association, 1976, p. 83.
14. Paris JJ: Compulsory medical treatment and religious freedom: Whose law shall prevail? Univ San Francisco Law Rev 1975;10:1-35.
15. Kelly AD: Aequanimitas Can Med Assoc J 1967;96:432.
16. Kolins J: Fatalities from blood transfusion. JAMA 1981;245:1120.
17. Harvey JP: A question of craftsmanship. Contemp Orthop 1980;2:629.
18. Bolooki H: Treatment of Jehovah’s Witnesses: Example of good care. Miami Med 1981;51:25-26.
19. Gardner B, Bivona J, Alfonso A, et al: Major surgery in Jehovah’s Witnesses. NY State J Med 1976;76:765-766.