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RESPONSABILITÀ MEDICA E SANITARIA

CONSENSO E DISSENSO ALLE TRASFUSIONI

Il rifiuto religioso delle trasfusioni di sangue da parte dei testimoni di Geova continua a stimolare un acceso dibattito non solo giuridico ma anche medico, sociale, religioso, politico. Insomma un dibattito bioetico in continua evoluzione. La giurisprudenza (e cioè le decisioni dei giudici) degli ultimi venti anni ha registrato contraddizioni che a volte hanno valorizzato, altre volte compresso o condizionato, il diritto del paziente a rifiutare le trasfusioni di sangue per motivi religiosi. Più recentemente, al testimone di Geova è stato riconosciuto concretamente il diritto costituzionale di esercitare il proprio dissenso medico-religioso attraverso una dichiarazione contestuale all’informazione medica dei rischi conseguenti alla salute o della stessa vita. Alla violazione di tale diritto consegue un danno non patrimoniale dai profili ancora incerti laddove alla lesione non corrisponda un pregiudizio alla salute psico-fisica. Insomma se un medico compie un errore che produce un danno alla salute, attraverso dei bareme medico legali e con le cd. tabelle di danno biologico non è difficile per un giudice accertare, quantificare e liquidare una risarcimento. Quindi anche se la salute non ha un prezzo di mercato (un conto è infatti danneggiare un telefonino che ha un prezzo che sarà esattamente risarcito), la medicina-legale e il diritto hanno inventato un complesso sistema che compensa in qualche modo l'amputazione di un dito; la perdita dell'udito e della vista e il decesso. Ma se è complesso risarcire il danno alla salute (o biologico) come si risarcisce un danno Da lesione al diritto all'autodeterminazione del paziente in campo sanitario? Da lesione al diritto al consenso informato? Da lesione al diritto al dissenso ad una pratica diagnostica o terapeutica? Cosa è più grave (e quindi merita un risarcimento più grande): la lesione del consenso informato e la lesione del dissenso informato? Ed ancora (dato per ovvio che è evidentemente più grave non rispettare il dissenso del paziente ad un trattamento sanitario rispetto al non informarlo di tutte le complicanze possibili di una terapia): che differenza c'è fra il rifiuto ad un trattamento sanitario a seconda del motivo del rifiuto. In altri termini, il rifiuto di un trattamento sanitario può essere giudicato valido a seconda dei motivi? Ad esempio fa differenza (per il medico, per il diritto e per la società) se rifiuto il trattamento ad esempio per motivi estetici: non assumo quel farmaco necessario perché diventerò grasso? È giusto o sbagliato che una donna incinta rifiuti la chemioterapia per non mettere a repentaglio la salute del feto? Può una persona cosciente rifiutare l'alimentazione artificiale e lasciarsi morire perché ha una malattia degenerativa dall'esito infausto? Si può decidere di “Staccare la spina” a un familiare in stato vegetativo? E' possibile che una persona rifiuti ogni cura a prescindere dai motivi? Si può rifiutare un trattamento sanitario per motivi religiosi? Si può rifiutare una trasfusione di sangue perché è una terapia (riconosciuta) non esente da rischi? E se si, si può mettere a repentaglio la propria vita? Allo stesso modo si può rifiutare una trasfusione di sangue per motivi religiosi? Parte delle suindicate domande trovano risposta nel pensiero illuminista di Voltarie secondo cui “...Nonostante io non condivida nulla di quello che tu pensi e dici, io sono disposto a morire affinché tu abbia il diritto di dirlo e di continuarlo a dire”. In particolare, sulla motivazione religiosa del rifiuto delle trasfusioni di sangue un articolo apparso sull'autorevole rivista Ipsoa “Danno e responsabilità” nel maggio 2011 afferma: . Qundi: a prescindere dalle motivazioni religiose esiste il diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue. Anzi è proprio la motivazione religiosa che trova un'ulteriore protezione tutela costituzionale. Infatti, mentre, il dissenso ad un trattamento sanitario (per i più diversi motivi) trova specifica tutela nel 2° comma dell'art. 32 Cost. secondo cui “...nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge...”, il dissenso al trattamento sanitario con trasfusioni trova specifica tutela (oltre che nel citato art. 32) anche dall'art. 19 Cost. secondo cui “...tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto...”. Comprendiamo allora che l'esercizio del proprio culto comporta anche la possibilità di esercitare le proprie convinzioni applicando concretamente nella propria vita i precetti della Bibbia. Peraltro se facciamo una breve incursione nelle ragioni bioetiche del rifiuto religioso del sangue (e quindi nella fusione fra religione, etica, legge attuale ed arcaica) possiamo vedere come la legge dell'antico Israele faceva espresso divieto dell'uso del sangue. Il libro di Genesi (o libro della Creazione) narra che il primo divieto del sangue venne data a Noé quando (immediatamente dopo il diluvio, con la distruzione della vegetazione) divenne necessario per l'uomo mangiare la carne degli animali. Ecco nel testo biblico si legge che Dio disse a Noé e alla sua famiglia che potevano mangiare la carne ma che non potevano mangiarne il sangue poiché il sangue rappresentava la vita (Gen. 9:3, 4). Successivamente, dopo la costituzione della nazione di Israele il comando (questa volta contenuto nella Legge) venne più volto ripetuto e prima di mangiare la carne gli israeliti doveva scannare l'animale e dissanguarlo. Pensate che la cosa era così seria e grave che in caso di trasgressione (e cioè se un israelita mangiava del sangue) era prevista la pena di morte (Lev. 17:4). Ci si chiede allora cosa è rimasto oggi dell'antica Legge cd. Mosaica che aveva una vera e propria Costituzione (contenuta nei 10 Comandamenti) e circa 600 Leggi che disciplinavano ogni aspetto della vita degli israeliti compreso il divieto di mangiare il sangue. Chiediamo questo la Legge Mosaica disciplinava contestualmente sia gli aspetti legali-amministrativi sia gli aspetti religiosi (e quindi spirituali). Tutto questo naturalmente riguarda l'intero mondo religioso perché tutte le odierne 3 principali e cioè: 1) il cristianesimo; 2) l'islamismo e 3) il giudaismo affondano le loro radici nella Legge Mosaica o Torà (espressa nel cd. Pentateuco: primi 5 libri, Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Quindi la domanda: se è ancora in vigore (nella cultura religiosa) il divieto di mangiare il sangue animale è attuale. Per dare una risposta, dobbiamo andare nel 1° Secolo d.C. quando dopo la morte per uccisione del Cristo (che aveva adempiuto interamente la Legge Mosaica e l'aveva quindi abrogata) i suoi discepoli si pongono un problema giuridico e religioso la cui soluzione ci spiega se l'antico divieto dell'uso del sangue (dato prima a al patriarca Noé e poi agli israeliti) continua a vivere e sopravvivere oggi per gli appartenenti alle religioni cristiane. Il problema era che alcuni cristiani di nazionalità israelita pensavano che i cristiani gentili (e quindi non israeliti) dovevano circoncidersi perché era un segno di appartenenza al popolo di Dio imposto dalla Legge Mosaica. Diversamente, invece, altri pensavano che poiché la Legge Mosaica era stata abrogata dal Cristo (almeno sul piano religioso) non era necessario che nessuno più che nessuno si circoincidesse. La questione venne allora portata davanti agli anziani (che prendevano la direttiva nella neonata chiesa cristiana a Gerusalemme) che dopo aver esaminato le antiche scritture; la Legge Mosaica e gli insegnamenti ricevuti dal Cristo confermarono che la Legge Mosaica era stata abrogata (compreso l'obbligo della circoncisione) ma che restavano in vigore solo: 1) il divieto dell'idolatria; 2) il divieto dell'immoralità sessuale (e questo è il punto) 3) il divieto di mangiare il sangue (Atti 15: 20, 28, 29). A proposito di questa sopravvivenza ed ultrattività (almeno religiosa) del divieto di mangiare il sangue (nel periodo ricompreso fra questa affermazione della prima chiesa cristiana del 1° Secolo d.c. e i nostri giorni) è stato ribadito più di cent’anni dopo, nel 177 E.V., a Lione: ai nemici religiosi che accusavano i cristiani di mangiare bambini, una donna di nome Biblide disse: “...Come potrebbero mangiare bambini costoro, cui è proibito persino di cibarsi del sangue di animali senza ragione?...” (Eusebio, Storia ecclesiastica, V, I, 26) Tertulliano (ca. 160-230 E.V.) fece notare nell’Apologetico (IX, 13, 14): “...Siete in errore verso i cristiani; e dovreste arrossirne. Noi non abbiamo tra i nostri alimenti neppure il sangue degli animali e per questo ci asteniamo anche dalla carne d’animali soffocati o morti da sé, per non essere in nessun modo contaminati dal sangue anche sepolto dentro le viscere. Tanto è vero che per torturare i cristiani porgete loro anche dei sanguinacci, perché siete ben certi che sono un cibo a loro proibito e per suo mezzo voi volete traviarli...”. Minucio Felice, avvocato romano vissuto fin verso il 250 E.V., rimarcò lo stesso fatto scrivendo: “...A noi non è lecito né di assistere né di venir a conoscenza di un omicidio, e tale è il nostro orrore del sangue umano, che neppure vorremmo assaggiare il sangue nei cibi degli animali commestibili...”. — Ottavio, XXX, 6. Più recentemente uno studioso biblico (tale Joseph Benson, vissuto 1749-1821) ha scritto che “...Bisogna osservare che questa proibizione di mangiare sangue, data a Noè e a tutti i suoi posteri, e ripetuta agli israeliti nella maniera più solenne, sotto la legge di Mosè, non è mai stata revocata, ma, al contrario, è stata confermata sotto il Nuovo Testamento...” (Notes, 1839, vol. 1). Ecco dopo questa rassegna (fra storia e legenda; religione e ragione; legge antica; legge cristiana e legge contemporanea sul divieto biblico-religioso di mangiare il sangue) alcune domanda sono spontanea: che relazione c'è fra il divieto di mangiare il sangue e il rifiuto delle trasfusioni dei Testimoni di Geova? Che relazione c'è fra questo rifiuto delle trasfusioni e il moderno diritto? Nel corso di alcune cause giudiziarie sono state utilizzate con successo alcune metafore secondo cui, se un medico invita un paziente ad astenersi assolutamente dal bere alcol, pensate che questo paziente aggirerà l'ostacolo se se si inietta l'alcol in via endovenosa? Se il medico (o la legge) imponesse il divieto di sniffare o deglutire cocaina o eroina, pensate che l'ostacolo sarà aggirato se la persona se la inietterà in vena con una siringa? Allo stesso modo, se la Bibbia impone il divieto assoluto di mangiare sangue, può una persona aggirare l'ostacolo facendosi somministrare il sangue in vena con una trasfusione?
Premessa Cesare Massimo Bianca, afferma correttamente che «...l’enunciazione dei diritti inviolabili non si esaurisce quindi nel richiamo di una serie di diritti indicati e tipizzati dalle altre norme costituzionali, ma ad una formula che impone comunque la tutela della dignità umana secondo le esigenze avvertite dalla società del tempo. La storia dei diritti inviolabili è appunto una storia, non ancora conclusa e non sempre lineare, che vede il progressivo ampliarsi della sfera della dignità umana meritevole di protezione giuridica...» (La norma giuridica. I soggetti, Milano, 1984) Il problema Quanto sia credibile l'interpretazione data dai testimoni di Geova al testo biblico sull'astensione dal sangue, da intendersi anche come divieto delle emotrasfusioni, non può e non deve interessare il giurista chiamato alla verifica delle leggi e non delle coscienze né deve interessare il medico che può accedere alle cure del paziente previo consenso di quest'ultimo. In ambiente giuridico è oramai noto che «...il paziente deve avere il diritto di operare scelte che sia-no in armonia con i suoi convincimenti e valori, a prescindere da quanto ad altri essi possano parere irrazionali, poco saggi o imprudenti...(e)...non è richiesto che i pazienti forniscano le ragioni del loro rifiuto...» (CEDU, 10 giugno 2010, ricorso n. 302/2002 proposto dalla comunità dei testimoni di Geova di Mosca e quattro cittadini russi contro la Federazione Russa). Davanti a chi rifiuta la trasfusione di sangue, l'agire del medico nel rispetto della propria coscienza (Secondo l'art. 22, Codice di Deontologia Medica, 16 dicembre 2006, il medico può rifiutare le richieste che contrastano con la sua coscienza. Cfr. anche l'art. 4 (Libertà ed indipendenza della professione) e di quella del testimone di Geova, dipenderà da come egli intende il paziente: se come una persona o un corpo da guarire. In quest'ultimo caso nasce l'inevitabile conflitto fra il medico che ha l'obbiettivo di salvare il corpo del paziente e il testimone di Geova che vuole salvare il suo spirito. A tale tensione etico-morale corrisponde quella giuridica fra il diritto del paziente di rifiutare la terapia indesiderata e il “diritto-dovere” del medico ad eseguirla. Questa antinomia di culture è sovente risolta dalla unilaterale scelta del medico che in buona fede interviene con la trasfusione coatta nel convincimento di agire per il meglio e nell'interesse della salute del paziente. L'ipotesi, poco peregrina nella pratica sanitaria, richiede una ricognizione giuridica, non solo e non tanto, sulla mancanza di un consenso informato alla prestazione sanitaria quanto sul dissenso informato alla trasfusione di sangue per motivi religiosi. La libertà religiosa come libertà giuridica I termini del problema devono essere esaminati alla luce della remota quanto attuale sentenza della Corte Costituzionale secondo cui «...i principi fondamentali di libertà...religiosa... (devono)...essere immediatamente immessi nell'ordinamento giuridico con efficacia erga omnes e dei quali, perciò, i pubblici poteri devono tener conto anche nell'interpretazione ed applicazione del diritto vigente...» (Corte Cost. 9 giugno 1965, n. 45). Quindi, il diritto alla libertà religiosa può, anzi deve, accedere nel diritto vivente attraverso quello specifico ed autonomo riconoscimento costituzionale previsto dall'art. 19 Cost. e che si realizza con il libero esercizio della fede sia in forma individuale che associata («...In virtù del rinvio al diritto canonico, operato dal Concordato, il rapporto esistente fra i membri di una congregazione religiosa e la congregazione stessa è assimilabile a un vincolo familiare...» Trib. Torino 14 marzo 1970) ed ulteriormente tutelato dal più ampio contenitore dei diritti inviolabili previsto dall'art. 2 Cost. La libertà religiosa non consiste quindi nel riconoscimento di una mera “libertà morale” ma di una vera e propria “libertà giuridica” espressamente codificata e riconosciuta al massimo livello normativo e a cui accede «...il diritto di professione religiosa e la relativa libertà di culto (che) si manifesta anche vivendo ed operando nell'osservanza dei precetti religiosi...alla luce della moderna concezione secondo la quale la legittimità del trattamento del medico dipende dal consenso informato del paziente piuttosto che dall'autolegittimante fine di tutelare il bene della salute...» (Trib. Roma 21 dicembre 2005). Lesione della libertà religiosa La «...libertà di religione, da ricomprendersi tra i diritti inviolabili dell'uomo, tutela il sentimento religioso e pertanto si giustificano le sanzioni penali per le offese ad esso recate...» (Corte Cost. 27 febbraio 1973, n. 14). A tale giustificazione di sanzioni penali non può non corrispondere la speculare sanzione o riparazione risarcitoria sul piano civile, quando la lesione della libertà religiosa determina un danno non patrimoniale secondo la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972). L'esperienza medico-religiosa passata, presente e c'è da crederlo futura, dei testimoni di Geova è ricca di esercizi giuridici e giudiziari in continua evoluzione. In particolare è la disciplina della responsabilità civile del medico, che somministra la trasfusione di sangue indesiderata, che «...non può prescindere dal contesto storico dei corsi e ricorsi vichiani per comprendere il decisivo tornante storico che stiamo vivendo...» (V. Carbone, prefazione a “Il consenso informato al tratta-mento medico-chirurgico” di F . Agnino, Milano, 2006). La portata del fenomeno religioso dei testimoni di Geova - che «...oltre ad avere un numero di aderenti tale da farne la seconda religione presente nel nostro paese dopo quella cattolica, almeno considerando i soli cittadini italiani, (e che) costituisce una minoranza religiosa riconosciuta dalla Stato...» (R. Bordon - P . Cendon, Il risarcimento del danno non patrimoniale, II, parte speciale, tomo II, Torino, 2009) - obbliga il giurista a tenerne conto laddove, nell'esercizio concreto dei diritti inviolabili («...Posto che il diritto alla salute costituisce un diritto fonda-mentale della persona...»: così Corte Cost. 17 luglio 2001, n. 252) alla salute ed alla fede religiosa, i testimoni di Geova diventano pazienti bisognosi di trasfusioni di sangue, che notoriamente rifiutano. Il rifiuto del sangue è quindi «...Posto che il diritto alla salute costituisce un diritto fondamentale della persona...» (Corte Cost. 17 luglio 2001, n. 252) prassi di un gruppo religioso numeroso ed espressione della libertà religiosa a cui strumentalmente il testimone di Geova accede attraverso l'esercizio del diritto di scelta terapeutica e rifiuto delle cure indesiderate in virtù del combinato disposto degli artt. 13 e 32, comma 2, Cost. L’evoluzione del diritto al dissenso religioso alle emotrasfusioni: dal “diritto” del medico al diritto del paziente testimone di Geova Dopo anni di contraddizioni «...il percorso accidentato nella rapida evoluzione del diritto all’autodeterminazione della persona (che) traghetta i sempre più numerosi casi di rifiuto delle trasfusioni, dall’isola delle mere enunciazioni di principi costituzionali alla terraferma di una realtà di soprusi sanitari...» (Mattarelli, Mezzini, 2010, II ed.) è stato gradualmente illuminato dalla progressiva valorizzazione ed implementazione dei principi costituzionali nel diritto vivente. Dalla giurisprudenza degli ultimi venti anni emerge che A) nel 1990, Pret. Modica 13 agosto 1990: il riconoscimento di un vero e proprio “...diritto del sanitario all’esercizio della propria attività professionale...” anche attraverso la richiesta e conseguente autorizzazione del magistrato alla «...esecuzione dei trattamenti sanitari ritenuti indispensabili e indifferibili, comprese le trasfusioni di sangue, laddove si abbia ragione di ritenere che il rifiuto opposto dal paziente, testimone di Geova, non sia stato il frutto di libera e autonoma determinazione...» B) nel 2010, CEDU, 10 giugno 2010, ricorso n. 302/2002: le conclusioni sono diametralmente opposte e passano dalle mani delle corti locali a quelle delle corti supreme. Al paziente testimone di Geova, e solo a lui, è ora attribuita la «...libertà di accettare o rifiutare particolari cure mediche, o di scegliere cure alternative, (che) è essenziale per i principi di autodeterminazione e autonomia dell’individuo. Un adulto capace è in grado di decidere, ad esempio, se sottoporsi a un determinato intervento chirurgico, a una cura medica o, analogamente, se accettare una trasfusione di sangue. Tuttavia, perché questa libertà abbia significato, il paziente deve avere il diritto di operare scelte che sia- no in armonia con i suoi convincimenti e valori...» La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha «...sottolineato che la libera scelta e l’autodeterminazione sono in se stessi costituenti fondamentali della vita e che lo Stato deve astenersi dall’interferire con la libertà di scelta dell’individuo in campo sanitario, dato che tale ingerenza può solo diminuire, e non aumentare, il valore della vita...». Nei venti anni ricompresi fra la sentenza del Pretore di Modica del 1990 (che attribuisce al medico il diritto di scegliere se somministrare le trasfusioni, e quella della Corte Europea del 2010, che restituisce tale diritto al paziente testimone di Geova) la giurisprudenza è pervenuta a conclusioni contraddittorie che a volte valorizzano, altre volte comprimono o condizionano, il diritto del paziente a rifiutare le trasfusioni di sangue. Nel 1997, Pret. pen. Roma 3 aprile 1997: dopo aver indicato che quella del testimone di Geova è «...una volontà non superabile, in quanto le trasfusioni di sangue non sono ricomprese fra i trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge a norma dell’art. 32 comma 2 Cost. ...» il Pretore di Roma assolveva i medici che non praticavano le trasfusioni di sangue necessarie per conservare in vita il paziente, al fine di rispettare la sua volontà contraria a tale terapia per motivi di fede religiosa Nel 2003, App. Trieste 25 ottobre 2003: dopo aver sottolineato che «...l’art. 32 Cost. garantisce al paziente il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari non voluti, comprese le terapie trasfusionali...» escludeva la responsabilità dei sanitari che avevano proceduto a trasfusioni su un paziente privo di conoscenza e in grave ed imminente pericolo di vita, in quanto il dissenso alle trasfusioni doveva essere manifestato in maniera attuale, chiara ed informata, non essendo allo scopo sufficiente il “cartellino” recante la scritta “niente sangue” portato addosso dal testimone di Geova. Nel 2005, Trib. Roma 21 dicembre 2005: il tribunale capitolino valorizzava il dissenso all’emotrasfusione in precedenza manifestato da un paziente testimone di Geova, che si trovava in stato di incapacità, ma che aveva in precedenza designato un amministratore di sostegno attribuendogli l’incarico di manifestare ai sanitari la sua volontà di rifiuto del sangue. Tuttavia, per la corte romana, restava «...salva ed impregiudicata ogni decisione dei medici che lo (avevano) in cura in merito alla prevalenza o meno della volontà del paziente sullo stato di necessità...». Nel 2007, Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211: il dissenso all’emotrasfusione inizialmente espresso dal paziente testimone di Geova, era da ritenersi non più operante in ragione dello stato di incoscienza e del sopravvenuto pericolo di vita nel quale il paziente versava al momento della somministrazione della trasfusione. L’assunto portava alla esenzione da responsabilità dei «...sanitari che, nonostante il preventivo rifiuto delle...trasfusioni di sangue, espresso dal paziente Testimone di Geova, proced(evano) comunque ad effettuare tali cure, resesi necessarie in seguito al- l’imprevisto peggioramento del quadro clinico...». Nel 2008, Cass. 15 settembre 2008, n. 23676: precisava che - se al medico grava il compito di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del- la persona e che il dissenso deve essere espresso attraverso una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata (Non essendo all’uopo idoneo il cartellino “Niente Sangue” preventivamente compilato e sottoscritto dal testimone di Geova), mediante un’articolata, puntuale, dichiarazione dalla quale emerga l’inequivocabile volontà di impedire la trasfusione - «...il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte...» Sulla scorta di tale principio, due mesi dopo il Trib. Firenze, 2 dicembre 2008 e il Trib. Milano 16 dicembre 2008, risarcivano il danno non patrimoniale a favore del testimone di Geova a cui venivano praticate trasfusioni di sangue indesiderate, in un caso a salvare la vita del paziente e nell’altro effettuate con modalità (uso di mezzi di contenzione e della forza pubblica offensivi dei sentimenti e della dignità del paziente) tali da anticipare il decesso. Nel 2009, App. Cagliari 21 gennaio 2009 chiariva che il diritto di rifiutare le trasfusioni trova «...riconoscimento in fonti normative nazionali e sovranazionali, e non può essere limitato per motivi religiosi...» e che «...può costituire oggetto di una direttiva anticipata, nella quale il dichiarante può chiedere la nomina di un amministratore di sostegno che abbia potere di garantire il rispetto della volontà di rifiutare la trasfusione...». Nel 2010, Trib. Roma, 31 marzo 2010 e Trib Roma, 15 settembre 2010: chiamato a pronunciarsi incidentalmente, ha osservato che la mancata somministrazione di trasfusioni di sangue - da parte dei medici che si erano fermati davanti al rifiuto preventivamente espresso da un testimone di Geova che versava in stato di incoscienza a seguito di un grave incidente - assunta da una delle parti in causa come concausa della morte del paziente, non è un fatto anomalo ed imprevedibile e costituisce «...il mero esercizio, garantito all’infortunato dalla Costituzione e oramai riconosciuto da costante giurisprudenza, inidoneo ad interrompere la continuità fattuale e logico-giuridica fra l’evento-sinistro e l’evento-morte..». Il dissenso terapeutico alla luce delle SS.UU. di gennaio e novembre 2008 L’evoluzione della responsabilità da emotrasfusioni indesiderate e del conseguente danno risarcibile va inquadrata nel generale ambito della responsabilità medico-sanitaria e del danno alla persona come visto e riveduto dalla Suprema Corte. All’interno della materia in oggetto si è assistito ad un passaggio dai tribunali penali, ove la responsabilità medico-sanitaria è di difficile acclarazione in virtù del consolidato principio de “l’oltre ogni ragionevole dubbio” (Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328), a quelli civili in cui la prova della responsabilità è agevolata dal principio del “più che probabile che non” (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, nn. 581, 576 e 584) e dove il danno da lesione alla libertà di autodeterminazione religiosa-sanitaria si rivela coerente con la ricostruzione delineata dalle Sezioni Unite di “San Martino” per «...avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione...» (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972). Dette agevolazioni, note a chi opera nell’area della responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria nonché del danno non patrimoniale, muovono dalle due “scosse di assestamento” offerte dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2008, i cui effetti si iniziano a percepire attraverso le pronunce delle corti di merito. Sono infatti note le sentenze “gemelle” (Cass., sez. un., nn. 576/2008-584/2008.) dell’11 gennaio 2008 che hanno ridisegnato la mappa della responsabilità sanitaria e il relativo onere probatorio «...per cui mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”...» (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581. Cfr. anche Cass., sez. un., nn. 576/2008 e 584/2008). Ancora più note sono le sentenze dell’11 novembre 2008 con cui le Sezioni Unite, riaffermando precedenti principi rimasti parzialmente disattesi (Tracciati dalla Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828 ma in parte disattesi dalla stessa Cassazione e da qui la necessità del- la rimessione alle Sezioni Unite), hanno riordinato nella binarietà codicistica il danno patrimoniale previsto dall’art. 2043 c.c. da una parte e dall’altra il danno non patrimoniale, omnicomprensivo quest’ultimo di tutti i pregiudizi non economici prima conosciuti e frazionati in singoli danni (biologico, esistenziale, morale) e ora degradati a mere poste descrittive dell’unico e solo danno previsto dall’art. 2059 c.c. Dunque, il 2008 si chiude con un riassetto della responsabilità civile medico-sanitaria, più favorevole al paziente danneggiato in punto di onere probatorio nonché nel riordino del danno non patrimoniale e sarà pertanto «...compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato (nella fattispecie: l’incidenza negativa da lesione della libertà di autodeterminazione religiosa e sanitaria), a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione...» (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972). Responsabilità da trasfusione coatta Fra le Sezioni Unite del gennaio e del novembre 2008, la Cassazione si è pronunciata riaffermando il principio generale di indubbia rilevanza costituzionale che riconosce al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi anche se tale condotta lo esponga al rischio della vita e distinguendo la specialità della fattispecie dei testimoni di Geova rispetto altri casi di generico dissenso. La Suprema Corte pone al centro della questione il conflitto tra i due beni, entrambi costituzionalmente tutelati, della salute e della libertà di coscienza, osservando come il contrasto «...non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali...» e conclude che «...in base al principio personalistico, ogni individuo ha il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima esclude(ndo) che qualsiasi autorità statuale – legislativa, amministrativa, giudiziaria - possa imporre tale trattamento: (pertanto) il medico deve fermarsi...» (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676) e se non lo fa, è responsabile degli eventuali danni conseguenti. Tuttavia, la perlustrazione della giurisprudenza del 2008 non sembra portare a solide basi su cui costruire un assioma giuridico; rivela anzi una percepibile prudenza laddove, dopo aver affermato che «...la manifestazione del “non consenso” al trattamento trasfusionale, ancorché salvifico, dovrà ritenersi vincolante per i medici...», condiziona la validità del dissenso ad «...una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata, mediante un’articolata, puntuale, dichiarazione dalla quale emerga in equivocamente la volontà di impedire la trasfusione, anche nell’ipotesi di pericolo di vita...» (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676). Appare davvero difficile che il preventivo e documentato dissenso possa essere superato dalla «...applicazione del principio del consenso presunto...» (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676) del testimone di Geova alla trasfusione (Cfr. A. Valllini, Il valore del rifiuto di cure “non confermabile” dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti uma-ni e la biomedicina, in Diritto Pubblico, 2003; 1:185-217). Altrettanto difficile è credere ad una imparziale valutazione (Da svolgersi in un contesto viziato dall’urgenza terapeutica e da eventuali resistenze ed interferenze emotive ed ideologiche del medico) del «...medico curante (su cui) grava il compito di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà della persona e di presumere induttivamente la reale “resistenza” delle sue convinzioni religiose a fronte dell’insorgere di un reale pericolo di vita...». La percettibile prudenza mostrata dalla Cassazione è evidentemente segnata dal precedente e più noto caso “Englaro” (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748) che sulla autenticità ed attualità del dissenso alle terapie salvavita (Alimentazione artificiale tramite sondino naso gastrico) di una donna in stato vegetativo, ha stimolato un acceso dibattito sconfinato dalle aule giudiziarie a quelle parlamentari. La contraddizione salomonica della Suprema Corte deve tuttavia fare i conti con la più recente e non meno autorevole sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani del giugno 2010 che proprio sul tesserino “Niente Sangue” portato dai testimoni di Geova, e stigmatizzato dalla Cassazione come inidoneo a rappresentare l’attualità del dissenso, fonda invece la prova evidente di un valido quanto robusto dissenso alle emotrasfusioni. La Corte Europea «...è concorde sul fatto che, nelle situazioni in cui l’incolumità e la vita stessa del paziente sono in pericolo, è legittimo preoccuparsi dell’autenticità del suo rifiuto di un trattamento sanitario...» ma considera, quella dei testimoni di Geova, una «...scelta consapevole di rifiutare emotrasfusioni in anticipo (poiché) non pressati da un’emergenza, ciò che è dimostrato dal fatto che si (preparano) alle emergenze compilando il documento “Niente Sangue” e portandolo con sé nel borsellino. Nulla fa pensare che abbiano vacillato nella loro determinazione di non accettare trasfusioni di sangue dopo il loro ricovero in ospedale...» (CEDU, 10 giugno 2010, ricorso n. 302/2002). Il danno risarcibile alla luce delle SS.UU. di “San Martino” L’evoluzione del diritto al rifiuto religioso delle emotrasfusioni e quella della responsabilità sanitaria, a cui è seguita la liturgia del danno non patrimoniale delle Sezioni Unite di “San Martino”, ha completato il quadro risarcitorio all’interno del paradigma della causalità materiale, tra condotta ed evento, e della causalità giuridica, fra evento e danno conseguenza. Tuttavia, nonostante la responsabilità da trasfusione coatta (oltre alle norme costituzionali interne ed europee, vedi le norme sul consenso informato: art. 33, commi 1, 2, l. 833/1978 e art. 1, comma 1, l. 180/1978; DD.MM. Sanità, 15 gennaio 1991, 1 settembre 1995 e 3 marzo 2005. Inoltre, Cod. Deont. Med. 16 dicembre 2006 e Convenzione di Oviedo, ratificata con l. 145/2001) stimoli colte esplorazioni teoriche della Carta Costituzionale, resta il problema del danno risarcibile (La cui natura e consistenza può condizionare la scelta del danneggiato se iniziare utilmente l’azione civile), in particolare laddove alla trasfusione coatta non consegua per il paziente testimone di Geova un pregiudizio alla salute psico-fisica (Es. infezioni, rigetto, incompatibilità sanguigna). In questo contesto, ancora poco delineato - ma alla luce di una «...lettura dinamica della Costituzione che ci mostri i diritti in divenire, al passo con i tempi e che richiedono una tutela risarcitoria integrale tale da mettere anche in discussione l’idea di una assoluta tipicità del danno non patrimoniale...» (G. Cassano, Danno non patrimoniale: biologico, morale ed esistenziale dopo le S.U., Rimini, 2008) - i profili dell’integrale risarcimento del danno da trasfusione coatta devono essere tracciati con un’attenta ricognizione delle norme “risarcitorie” coniugabili con l’art. 2059 c.c. (Secondo i principi fissati dalle S.U. n. 26972/2008, per cui la risarcibilità, oltre ai casi espressamente previsti dalla legge, è data «...sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione...») e tenendo «...conto della massima incertezza giuridica in ordine a fattispecie consimili fino al 16 ottobre 2007, data di pronuncia della sentenza Cass., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 (Caso “Englaro”)....e del convincimento dei sanitari di agi- re per il meglio nell’interesse della salute della paziente e conformemente al codice deontologico medico...» (Trib. Firenze 2 dicembre 2008). Tale indagine arruola la lesione al diritto alla libertà personale prevista dall’art. 13 Cost. che, come norma generale a tutela del diritto di autodeterminazione, si arricchisce di specificità quando va a coniugarsi con altre norme della Costituzione (A cui fanno da corollario le norme a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo previste dalla Costituzione Europea: artt. II-61; II-63 n. 1, n. 2, lett. a) Rispetto della dignità umana, dell’integrità della persona e del consenso informato; artt. II-66, Diritto alla libertà e sicurezza; art. II-70, Libertà di religione; art. II-82, Diritto all’uguaglianza ed alla diversità religiosa). Con questa lettura, il danno non patrimoniale è risarcibile al testimone di Geova per violazione di diversi diritti: a) di autodeterminazione in campo sanitario, per la combinazione dell’art. 2059 c.c. con gli artt. 13 e 32, comma 2, Cost.; b) di autodeterminazione religiosa che coniuga il danno non patrimoniale con gli artt. 13 e 19 Cost. e c) all’identità (Cfr. ipotesi similare: lesione stampa, «...l’identità personale, in quanto diritto fondamentale della persona, come tale costituzionalmente protetto, giustifica il risarcimento del danno anche non patrimoniale derivante dalla sua lesione...», Cass. 24 aprile 2008, n. 10690) personale e religiosa data dall’implementazione dell’art. 2059 c.c. (Deve essere precisato che, se nessun problema di comprensione pone la voce che descrive il pregiudizio da lesione al diritto di autodeterminazione in campo medico-sanitario, un distinguo va invece fatto fra quello all’autodeterminazione religiosa con quello all’identità personale-religiosa. Invero il bene-interesse tutelato dall’art. 2 Cost. è diverso da quello protetto dagli artt. 13 e 19 Cost.: da una parte la lesione è all’“essere” del testimone di Geova, dall’altra, la lesione è alla sua “libertà di divenire”. «...Identità significa, per un testimone di Geova, non essere considerato un pentecostale (come nell’Italia fasci- sta), un ebreo o un comunista (come nella Germania nazista) ma soffrire ed eventualmente morire per quello che è. La li- bertà religiosa significa invece che nessuno debba soffrire e morire per quello che è o per quello che crede...»: così G. Long, Minoranze, coscienza e dovere della memoria, Napoli, 2001) con gli artt. 2 e 19, Cost.
INTRODUZIONE Possiamo dire che iniziò male da subito! La prima trasfusione di sangue documentata (praticata nel 1492 e Papa Innocenzo VIII) finì nel sangue! Morirono tutti: il Papa e i tre piccoli donatori di sangue le cui famiglie vennero ricompensate con un ducato ciascuno. A proposito di Papi, più recentemente, sempre nelle stanze Vaticane, nel 1981 (a seguito dell'attentato di Alì Agca) a Papa Giovanni Paolo II venne somministrato sangue infetto da Citomegalovirus. Insomma il sangue (nella sua accezione negativa) è così democratico che non guarda in faccia nessuno, neppure i “Vicari di Cristo”. Infatti, il sangue somministrato per uso terapeutico può salvare molte vite; ma può anche trasformarsi in uno pericoloso killer capace di veicolare virus patogeni e letali come quello dell'epatite B e C nonché dell'HIV responsabile dell'Aids. E' per questo che nel trentennio (ricompreso tra metà degli anni '60 e '90), nel mondo sono state contagiate sono morte centinaia di migliaia di persone. Così negli anni '90 anche in Italia si diffonde il cd. “Scandalo del sangue infetto” DOPING. IL SANGUE COME CARBURANTE. L'UOMO MACCHINA Ma è sempre negli anni '90 che sale alla ribalta un altro scandalo legato all'uso (anzi all'abuso del sangue): quello del Doping Ematico. In questi anni il sangue umano non viene usato solo per scopi terapeutici ma diventa un eccezionale carburante che da super poteri all'atleta che lo riceve. Insomma, la trasfusione di sangue (non entra solo negli ospedali contagiando i pazienti con virus letali) ma entra anche nelle gare sportive e contamina lo sport con il Virus della Slealtà Competitiva. L'atleta (non è più tale) ma si trasforma in una macchina che si alimenta con un carburante prodotto dal suo stesso corpo ma che rischia di incepparsi perché non si può mandare una panda a 300 allora! Così nello sport la trasfusione di sangue perde il suo valore terapeutico e diventa performance: perché l'importante non è vincere ma è vincere ad ogni costo! E di questo se ne rendono subito conto le società sportive, gli sponsor e tutti quelli che possono lucrare sul successo della competizione. I PROBLEMI. L. 236/00. AREA PENALE. LATITANZA DIRITTO CIVILE Due allora sono i principali problemi che solleva il Doping Ematico e più in generale il Doping: l’alterazione della competizione e la tutela della salute dell’atleta Entrambe le questioni sono esaminate dalla legge n. 376/2000: "Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping" di area penalistica Quello che sorprende non poco è la latitanza del diritto civile. Eppure il diritto e la responsabilità civile potrebbe (anzi sicuramente possono) diventare un forte deterrente per il Doping. PRIMO PROBLEMA: LEALE COMPETIZIONE Infatti in relazione al primo interesse protetto dall'antidoping e cioè: “La corretta della competizione” si può certo affermare che con il sistema della responsabilità civile (a prescindere dalla sua funzione che non è punitiva ma compensativa) e quindi con il sistema del risarcimento del danno si potrebbero sanzionare quei fatti illeciti che producono danni: A) Danni patrimoniali (conseguenti all'alterazione del successo o dell'insuccesso delle competizioni; oppure conseguenti alla perdita di sponsor; del mercato delle scommesse; ecc.) nonché B) Non patrimoniali (come il danno alla salute dell'atleta) che con il raccordo fra art. 2059 del Codice Civile e l'art. 185 del Codice Penale ben possono risarcire le lesioni personali e l'omicidio colposo. E infatti poiché sono i soldi che muovono i grandi interessi sottesi al Doping, potrebbero essere proprio i soldi (e cioè quelli che i responsabili civili dovrebbero versare a titolo di risarcimento) a frenare il fenomeno del Doping. Forse (mi sia concesso dagli amici penalisti) più della sanzione penale, poiché “Quando canta il denaro tutto tace” mentre in galera non ci va più nessuno! SECONDO PROBLEMA: SALUTE DELL'ATLETA E ART. 5 CC. N. 3 In relazione al 2° interesse protetto dall'antidoping e cioè: “La tutela della salute dell'atleta”, possiamo affermare che al fenomeno del Doping si applichi (nel perimetro dell'area civilistica) l'art. 5 cc per cui . Ora, nel segmento del Doping Ematico è indubbio che la trasfusione, l'autotrasfusione e l'assunzione di eritropoietina (sintetica) siano atti dispositivi del proprio corpo che possono cagionare una diminuzione permanente dell'integrità fisica. I rischi per la salute sono molti 1) L'atleta a cui viene trasfuso sangue eterologo (e cioè il sangue di una altra persona) rischia reazioni avverse fra cui il rigetto e la contaminazione virale. 2) L'atleta che si auto-trasfonde il proprio sangue (precedentemente depositato) o che assume l'Eritropoietina (stimolatrice della produzione di globuli rossi) rischia sopratutto l'addensamento del sangue dato dall'aumento della massa eritrocitaria con il rischio letali di occlusioni e trombi. E poiché abbiamo parlato di addensamento del sangue dobbiamo precisare che quando ci riferiamo al Doping Ematico ci riferiamo, non al sangue intero, ma solo ai globuli rossi (conosciuti anche come o eritrociti o come emazie). I globuli rossi sono infatti quella parte di sangue (corpuscolare) che contengono quell'ossigeno capace di ossigenare i tessuti muscolari dell'atleta sotto sforzo. E poiché la matematica non è un'opinione: più globuli rossi vengono immessi in circolo → più ossigeno arriva ai muscoli, → più sarà la resistenza dell'atleta → più saranno le possibilità di vincere la gara! D'altra parte maggiori sarà la massa eritrocitaria, maggiori sono le possibilità che il sangue diventi denso e blocchi la circolazione ART. 5 CC. LE QUATTRO IPOTESI DIVIETO Ma tornando alla lettura dell'art. 5 cc, ricordiamo che 4 sono le ipotesi in cui un'azione sul proprio corpo è vietata: 1) quando l'atto è contrario al buon costume; 2) all'ordine pubblico; 3) alla legge; 4) quando l'atto costituisce una lesione fisica permanente. In tale lettura il doping è vietato poiché è contrario alla legge n. 376/2000 ("Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping"). Quello che ci chiediamo invece (posto che la somministrazione di sangue non è mai esente da rischi) è se l'infusione di sangue o di eritropoietina produca (sempre e comunque) una diminuzione permanente dell'integrità fisica? E, in caso di risposta affermativa (e cioè: l'atto ematico costituisce probabilmente una lesione permanente della validità fisica) ci chiediamo se comunque tale atto è da considerarsi atto illecito allorquando alla (consapevole) diminuzione dell'integrità fisica ne derivasse (per l'atleta) uno speculare aumento del suo benessere psichico? Ebbene la risposta (quella più facile) sarebbe si!...Ma poiché noi siamo giuristi ed avvocati possiamo (anzi dobbiamo) permetterci quella creatività che il mio compianto Professore Stefano Rodotà (in quel straordinario libro che è “Il diritto di avere diritti”) definiva come “...diritti senza terra (che) vagano nel mondo globale in cerca di un costituzionalismo...che offra loro ancoraggio e garanzia...”. A proposito di diritti che vagano in cerca di Costituzionalismo desidero ricordare il Codice Civile è stato scritto del 1942 e pertanto deve essere aggiornato alla luce della Carta Costituzionale del 1948 e della evoluzione scientifica, sociale, giuridica e giurisprudenziale della salute Mi riferisco in particolare al concetto di salute voluto e scritto nell'art. 32 Cost. che contiene (come il più contiene il meno) anche quel concetto di integrità fisica di cui parla l'art. 5 cc. In tal senso si può affermare che (a differenza della Salute) l'Integrità Fisica non è un valore a se ma costituisce un mezzo per la tutela della salute. Non a caso, è stato autorevolmente affermato che l'integrità fisica «....non è giuridicamente protetta in modo unitario e indifferenziato...» (Busnelli) Vorrei infatti ricordare che la lettura costituzionalmente orientata del concetto di salute non intende solo integrità (e cioè la conservazione di quello che già si ha) ma intende il miglioramento della propria condizione fisica verso il massimo del benessere, L'integrità fisica è un concetto statico (quello che ho mi basta: l'importante è che nessuno me lo tolga!) → la salute è invece un concetto dinamico (quello che ho è il minimo che la natura mi da e su cui voglio edificare il mio benessere!). L'integrità intesa dal legislatore del 1942 è il punto di arrivo del benessere → la salute è invece il punto di partenza del benessere. Non vi sarà inoltre sfuggito che l'integrità (a cui si riferisce l'art. 5 cc) è espressamente ed esclusivamente quella fisica → la salute è invece (anche) integrità psichica. Insomma ci sarebbe tantissimo da dire ma quello che è certo è che l'integrità fisica intesa nell'art. 5 del codice civile è rimasta lì nel 1942 come norma figlia di un epoca che limitava i diritti all' e non all'. Pertanto l'art. 5 deve essere aggiornato, oltre che all'art. 32 Cost. (posto a tutela della salute) anche con altre norme costituzionali come l'art. 13 Cost. + comma 2, art. 32 Cost. (Libertà – Autodeterminazione). Soprattutto, l'operatività dell'art. 5 cc. deve coniugarsi con l'art. 2 Cost. (diritti Fondamentali ed Inviolabili) che impone (non solo il riconoscimento) ma la promozione dell'uomo come ad esempio: il diritto dell'atleta a realizzare la sua personalità nello sport. Se così non fosse (una lettura non costituzionalmente orientata dell'art. 5) dovrebbero considerarsi illeciti tutti quegli sport che mettono a rischio l'integrità fisica e la stessa vita: si pensi ad esempio alla F1; ai paracadutismo; all'alpinismo; ecc. Fuori dal perimetro dello sport, sarebbero illeciti quegli atti dispositivi che, ad esempio, mettono a repentaglio integrità fisica dei soldati nelle zone di guerra (art. 52 Cost.) o degli appartenenti delle forze dell'ordine. E' stato infatti correttamente affermato che . A proposito di equilibrio fra salute fisica e psichica, 1) è lecito modificare chirurgicamente il proprio sesso per adeguare il corpo (fisico) alla persona (psichica) che si è davvero? 2) è lecito praticare l'aborto terapeutico per evitare una gravidanza potenzialmente invalidante la psiche della donna? 3) è lecito modificare permanentemente il proprio corpo per fini estetici? Ebbene, la risposta è ovviamente si!...Ma questa è la risposta che diamo oggi e che non avremmo potuto dare quando nel 1942 venne disposto l'art. 5 del Codice Civile. Detto questo torniamo alla domanda lasciata senza risposta: è da considerarsi atto illecito l'assunzione di sostanze ematiche allorquando alla (consapevole) diminuzione dell'integrità fisica ne derivasse (per l'atleta) uno speculare aumento del suo benessere psichico?...benessere leso (ad es.) da depressione poiché l'atleta è fermo da tempo per un infortunio? Ebbene e francamente alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 5 cc l'assunzione di sostanze ematiche invalidanti potrebbe trovare una certa liceità. E questo anche perché la “Salute non è un dovere” ma un “Diritto” Allo stesso modo e in relazione alla Legge Antidoping (e con la precisazione che si tratta di una provocazione) poiché per la Costituzione → la Salute non è solo fisica ma anche psichica → la Salute è libertà → la Salute è “un Diritto” e non “un Dovere” è del tutto peregrina una eventuale Questione di Legittimità Costituzionale della legge n. 376/2000 nella parte in cui (non promuove) ma impone come dovere e non come libertà? IL CONFINE FRA LECITO ED ILLECITO Sempre in tema Doping Ematico, dobbiamo ricordare che a seguito dello sforzo da allenamento (degli sport di resistenza, come il ciclismo, la maratona e lo sci nordico) l'atleta può diventare → anemico con un abbassamento dell'emoglobina contenuta nei globuli rossi così che la massa eritrocitaria è debole → in questo caso la somministrazione di sostanze ematiche (come l'Eritropoietina) costituisce sicuramente una utile terapia capace di compensare la perdita di emoglobina contenuta nei globuli rossi. Come allora è possibile tutto questo?... Come è possibile che il sangue eritrocitario (o l'eritropoietina sintetica) siano dichiarate illecite (con tanto di sanzione penale) se poi sono (o appaiono) necessarie al riequilibrio ematico dell'atleta? Qualcuno risponderà che non c'è nessuna contraddizione e che infatti la legge dell'antidoping non sanziona affatto l'assunzione, per uso terapeutico, di quei prodotti che altrimenti sarebbero considerati dopanti ed illeciti. In altri termini: se l'atleta si deve curare non è doping! CONFINE FRA NORMALE-SUPERNORMALE Questa risposta non convince, perché (assumere che i prodotti ematici possano essere considerati leciti o illeciti a seconda dell'uso che se ne deve fare) rivela la fragilità del sistema, laddove è facilmente superabile il confine fra “Normalizzazione” e “Supernormalizzazione” ematica. E cioè, il confine fra A) la lecita (e normale terapia di) reintegrazione eritrocitaria dell'atleta diventato anemico dopo l'allenamento; B) la illecita (e anormale) super integrazione eitrocitaria dell'atleta che con la scusa di un'anemia (che può volontariamente provocarsi con un allenamento pesante) assume prodotti ematici oltre il suo fabbisogno (oltrepassando così la sottile linea del confine fra “Terapia Lecita” e “Doping Illecito”. Non a caso, con Sentenza del 3.10.12 il Tribunale di Torino, ha affermato che l'utilizzo di sostanze costituisce reato (previsto dall’art. 9 comma 1, della legge 376/2000) se non è giustificato da esigenze mediche e pertanto è illecito penale: . Credo che sia chiaro: ciò che fa la differenza fra lecito ed illecito penale è l'intenzione dell'atleta. Lo dice la Sentenza: non è doping se l'atleta assume sostanze solo per “recuperare” il suo stato di salute; è doping se l'atleta assume quelle stesse sostanze per “migliorare” la propria prestazione. Ecco allora il punto dove volevo arrivare: con la scusa di un'anemia (che l'atleta può peraltro procurarsi con un allenamento pesante) egli può assumere lecitamente sostanze ematiche che possono (oltre che curare l'anemia) anche migliorare le sue prestazioni in gara. L'atleta potrà quindi superare quel sottile confine fra lecito ed illecito confidando che chi lo dovrà giudicare non potrà leggere nel suo pensiero per la verifica delle sue intenzioni. Renato Mattarelli
Di Antonio Vallini Università degli Studi di Pisa DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO (Articolo con lievi modifiche pubblicato su Diritto Pubblico 2003; 1:185-217 e su www.med.unipi.it)
SOMMARIO:
1. Definizione del problema e precisazioni metodologiche.
2. L’art. 32 Cost. ed il diritto di rifiutare le cure anche “a costo” della vita.
3. Rifiuto di cure e paziente incosciente: esame critico delle opinioni più diffuse.
4. Una possibile soluzione: le “apparenti” ambiguità dell’art. 9 della Convenzione di Oviedo.
5. Puntualizzazioni ed aspetti problematici.
1. Tra le situazioni più difficili che possono presentarsi nell’esercizio dell’attività medica, si pone indubbiamente quella del rifiuto da parte del paziente di una determinata terapia, quando tale scelta realizzi un pericolo per la salute o per la stessa vita.
Casi come questi prospettano una drammatica alternativa[1]. Il rispetto della volontà del paziente sarà per lo più avvertito dal sanitario come una sorta di “agevolazione” di un comportamento autodistruttivo, intrinsecamente contraddittoria rispetto al significato originario della propria professione, tanto più difficile da accettare quanto più sussistano concrete possibilità di restituire il malato ad una vita normale, e quanto più le ragioni del rifiuto di cure appaiano difficilmente comprensibili o irrazionali. D’altra parte, l’imposizione coattiva del trattamento sanitario, comunque essa possa essere concepita e realizzata, assumerà evidentemente i tratti di una violenza, particolarmente umiliante non solo perché rivolta al “corpo” del paziente, ma soprattutto perché destinata a svilire le convinzioni personali più radicate e profonde dell’interessato: la sua concezione della vita e della morte; i suoi “punti di vista” sotto il profilo etico, filosofico, religioso; il diritto di ergersi ad unico “vero” arbitro dei propri più intimi interessi.
La responsabilità per la gestione di vicende così problematiche viene a ricadere, nei fatti, interamente sul medico. Per lo più, il diritto interviene, in questo campo, a posteriori, per valutare “col senno di poi” (e con esiti pressoché imprevedibili) il significato penale della vicenda. Nel momento, tuttavia, in cui si impone una decisione operativa, vanamente il professionista potrebbe cercare un qualche supporto nella scienza e nella prassi giuridica, capaci sinora di offrire soltanto una gamma gravemente contraddittoria di soluzioni: il sistema normativo, ed i soggetti che di questo sistema dovrebbero costituire i portavoce, sembrano abdicare pilatescamente al proprio ruolo di orientamento “preventivo” dell’agire umano .
Indicazioni a dir poco ambigue si evincono, in primo luogo, dalla giurisprudenza, oscillante tra gli estremi dell’individuazione di misure coercitive “atipiche”, utili al medico per adempiere comunque al proprio compito di tutela della salute anche contra voluntatem[2], ed invece il riconoscimento di un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure[3], addirittura anche quando non confermabile, stante lo stato di incoscienza del paziente[4]. Altrettale variabilità di vedute si riscontra in dottrina[5]. Contrapposte ad un’impostazione, sostanzialmente dominante, che deduce dalla chiara lettera del secondo comma dell’art.32 della Costituzione l’impossibilità di una qualsiasi imposizione coattiva di trattamenti sanitari, si riscontrano, difatti, numerose posizioni rigoristiche, ancorate al dogma dell’assoluta indisponibilità della vita. L’esistenza di un “dovere di vivere” quale limite implicito al diritto, costituzionalmente tutelato, di rifiutare le cure, viene affermata motivando vuoi sulla base delle norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio, vuoi alla luce dell’art.5 del codice civile; con riferimento, poi, alla Costituzione, si richiamano ora l’obbligo costituzionale di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale, di cui agli artt.2 e 4 Cost. (obbligo rispetto al quale atti di disposizione “negativa” della propria salute o, addirittura, della propria vita costituirebbero un’inaccettabile “scappatoia”), ora il valore costituzionale della (dignità della) “persona umana”, gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti alla libertà e all’autodeterminazione, e da intendersi «non come volontà di realizzarsi liberamente, ma come valore da preservare e realizzare nel rispetto di se stessi»[6]. Il nugolo di opinioni diviene poi ulteriormente fumoso allorquando, dal piano delle valutazioni di carattere squisitamente giuridico-penalistico, la visuale si estenda ad impostazioni in varia misura riguardanti il piano della bioetica[7], della filosofia[8], della deontologia medica[9].
Indubbiamente una tale difformità di vedute risulta, in buona misura, fisiologica, con riferimento ad una questione tanto complessa e coinvolgente. Quel che si può tuttavia rimproverare alla scienza giuridica, è il frequente indulgere a considerazioni magari di notevole significato culturale, ma che rischiano di risultare fuorvianti nel contesto di un’argomentazione che aspiri ad essere squisitamente giuridica. Se, in particolare, l’intento è quello di dedurre dal sistema vigente le “regole” spendibili in casi come questi, il giurista dovrebbe, con un vero e proprio “atto di umiltà”, indossare i panni dell’esegeta “puro” e “neutrale” del dato positivo, tralasciando improvvisazioni filosofiche o da politico del diritto, e tentando, nei limiti dell’umanamente possibile, di “astrarsi” dai propri convincimenti, affinché essi non alterino surrettiziamente il percorso argomentativo. Un impegno tutt’altro che inesigibile: basta, in poche parole, da un lato estromettere programmaticamente dall’argomentazione qualsiasi notazione di valore che non trovi un immediato ed evidente riscontro di carattere normativo; dall’altro, non tentare a tutti i costi di capovolgere, con sofismi più o meno raffinati, le soluzioni che appaiano maggiormente coerenti col dato normativo, solo perché ritenute inconciliabili con aprioristiche opzioni ideologiche.
Questa scelta metodologica non impone necessariamente, di per sé, una sterile riproposizione della lettera della legge. Com’è noto, una scelta interpretativa può dirsi fondata nella misura in cui rappresenti, piuttosto, l’esito più congruo, sul piano logico-argomentativo, della dialettica sempre intercorrente tra “regole” e “principi”: non soltanto “legittima”, ma addirittura doverosa è una lettura teleologicamente orientata della normativa vigente, perché una deferenza acritica al tenore lessicale della singola disposizione, atomisticamente considerata, rischia in realtà di tradire il “sistema” giuridico, introducendovi fattori di incoerenza «non solo logica ma soprattutto valutativa»[10]. Purtuttavia, qualsiasi interpretazione “orientata ai valori” deve dedurre questi ultimi da norme di diritto positivo che li valorizzino esplicitamente, per non piegare le soluzioni adottate ad opzioni non già proprie dell’ordinamento giuridico, ma munite di un generico fondamento “culturale”, o addirittura semplicemente proprie del singolo interprete.
2. Entrando in medias res, è nostro intendimento – ispirato da evidenti ragioni di economia espositiva – dedicare attenzione soltanto ad alcuni “aspetti”, tra i tanti ipotizzabili, della problematica in esame. Un primo profilo meritevole di considerazione è quello inerente all’esistenza stessa di un diritto di rifiutare le cure, anche laddove quest’ultimo implichi, nei fatti, una rinunzia alla vita. Un secondo profilo – che assume rilievo, ovviamente, soltanto risolvendo affermativamente il primo – concerne la persistente validità del dissenso rispetto alle cure, qualora il malato, in quanto incosciente, non sia in grado di darne conferma. Per quanto, nella motivazione di alcune sentenze, a queste due questioni venga dedicata una considerazione unitaria ed indifferenziata, esse sembrano in realtà connotarsi in modo del tutto eterogeneo. Con riferimento alla prima ipotesi, difatti, sembra potersi affermare una sostanziale univocità di principi e valori in gioco, tanto da poter dedurre la “regola” operativa immediatamente da quei principi; nel secondo caso sembra per contro palesarsi un contrasto irrisolto di principi, con una inevitabile complicazione del ragionamento ermeneutico. Ma procediamo con ordine.
L’art. 32, secondo comma, della Costituzione afferma a chiare lettere che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario»; a meno che un intervento coattivo non sia espressamente e specificamente autorizzato dalla legge, e a patto che i contenuti di quest’ultima siano rispettosi del valore della “persona umana”. Quel che viene a sancirsi è, insomma, un vero e proprio diritto generale di rifiutare le cure[11] (che nella più recente giurisprudenza costituzionale è stato, tra l’altro, giustamente interpretato come forma speciale di manifestazione del diritto alla libertà personale di cui all’art.13 Cost.[12]). Altre eccezioni a tale diritto, oltre a quella dei trattamenti sanitari obbligatori, non sono previste: in nessun dove appare esplicitato un “dovere di vivere”[13], né in altro modo sembra potersi individuare nel “rischio di morte” (o di malattia) un limite negativo al criterio della volontarietà dei trattamenti sanitari. Nessuna legge, v’è da aggiungere, prevede un trattamento sanitario obbligatorio nel caso in cui il rifiuto di cure implichi una rinunzia alla vita. Non meritevoli di considerazione – perché frutto di un evidente sovvertimento della gerarchia delle fonti – sono quelle impostazioni[14] che negano la configurabilità di un dovere (costituzionalmente affermato) di rispettare la volontà del paziente, richiamando all’uopo norme codicistiche (dunque di legge ordinaria, come gli artt. 579 e 580 del c.p., l’art. 5 c.c., gli artt. 593[15] o 54 c.p. [16]). A poco vale l’escamotage di dedurre da tali disposizioni un supposto “principio generale” di indisponibilità del bene vita[17], perché pur sempre di un principio collocato sul piano della legge ordinaria si tratterebbe, come tale incapace di fissare limiti alla regola sancita in modo generale ed inequivoco dall’art.32, 2° comma, Cost.. Né può condividersi l’opinione di chi afferma che la Costituzione, se avesse voluto sovvertire il principio di indisponibilità della salute, avrebbe dovuto farlo expressis verbis[18]: quasi che i valori costituzionali non fossero quelli esplicitati nel testo della Carta fondamentale, ma quelli desumibili da altre fonti, magari previgenti (e quindi implementate in un ordinamento al cui globale superamento era diretto lo sforzo dell’Assemblea Costituente), solo perché da quel testo non apertamente contraddette.
Alla luce, poi, delle premesse metodologiche cui si faceva cenno poc’anzi, non ci paiono neppure condivisibili i tentativi di sostenere la tesi di un limite “implicito” al diritto di rifiutare le cure, da alcuni affermato argomentando dal valore della “dignità della persona umana”[19]. Si sta perseguendo un’interpretazione il più possibile fondata su dati normativi certi: il criterio della “dignità” è certo di valenza costituzionale, ma appare tutt’altro che univoco contenutisticamente. Più in particolare, sintetizzando al massimo la miriade di definizioni in materia, può dirsi che trattasi di un valore la cui tutela viene da taluni concepita come essenzialmente “eterodiretta” rispetto all’individuo (nel senso che tale bene si connoterebbe di contenuti “oggettivamente” riconosciuti come del tutto indisponibili), mentre altri preferiscono attribuire a quel concetto un significato prettamente “autodeterminato”, visto che soltanto al singolo spetterebbe definire la dimensione della propria dignità, venendo quest’ultima ipso facto compromessa nel momento in cui l’ordinamento pretendesse di imporre all’individuo – con riferimento a scelte concernenti unicamente la sua persona – priorità ed opzioni ideologiche da lui non condivise. Orbene: chi si appella a questo referente ambiguo della “dignità”, per negare valore ad un rifiuto di cure implicante un grave danno alla salute, dà per dimostrato ciò che dovrebbe dimostrare, ovvero che, nelle situazioni problematiche di cui si discute, tale concetto assuma una valenza “eterodeterminata”, fungendo da limite rispetto all’autodeterminazione. Ben si potrebbe ritenere rilevante, difatti – d’accordo con la maggior parte dei commentatori[20] – un diverso concetto di “dignità” il quale, lungi dal porsi in contrapposizione con il criterio di autodeterminazione, ne costituirebbe la stessa ratio ispiratrice. D’altra parte, il tenore letterale dell’art.32 2° comma è chiaro nell’attribuire al valore intrinseco della “persona umana” un ruolo sì di limite, ma non già rispetto al principio consensualistico, quanto – con logica esattamente opposta – nei confronti degli spazi legittimamente attribuibili al settore dei trattamenti sanitari contra o praeter voluntatem. Neppure ci pare da seguire chi – facendo riferimento, ad es., agli artt.2 e 4 Cost. – individua nella dimensione “sociale” dell’individuo l’elemento che giustificherebbe l’impedibilità di qualsiasi atto lato sensu autodistruttivo. Si afferma, nello specifico, che nessuna persona potrebbe disporre in termini negativi della propria vita e della propria salute, perché tale scelta implicherebbe una sottrazione agli obblighi sussistenti nei confronti degli altri consociati, di carattere lato sensu solidaristico[21]. Tale ragionamento finisce, nella sostanza, col trasformare surrettiziamente il “diritto alla salute”[22] in un “dovere alla salute”: il benessere psico-fisico viene ad essere inteso non più come prerogativa del singolo, atta a fondare una pretesa solidaristica nei confronti dello Stato e della società, ma come prerogativa dello Stato e della società, implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene “in forma” per meglio poter “servire” alla collettività. Ci sembra difficilmente comprensibile come tale ricostruzione – che involontariamente ripropone le istanze “utilitaristiche” di talune sciagurate ideologie totalitarie – possa conciliarsi con una norma costituzionale che a chiare lettere afferma la non obbligatorietà dei trattamenti sanitari. Certo, la “salute” è considerata, dal primo comma di quella disposizione, anche un interesse “della collettività”, oltre che “dell’individuo”; ma è poi proprio il secondo comma a sancire espressamente criteri e limiti entro i quali (eccezionalmente) la tutela di quel bene possa essere sottratta, per fini sociali, alla disponibilità del singolo, alludendo ai trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge. Non appare convincente il tentativo di convertire apoditticamente l’eccezione nella regola, ampliandone i presupposti applicativi oltre quelli espressamente sanciti.
In conclusione: unico “principio” costituzionale sicuramente riconoscibile come tale è quello della necessaria volontarietà, sempre e comunque, dei trattamenti sanitari[23] (fatta salva la pratica impossibilità di ottenere un “consenso” espresso: v.infra). Anche norme subordinate all’art.32 Cost. sembrano, d’altra parte, informarsi a questo criterio. Tra le più significative possono ricordarsi l’art.33 della l. 833/78 («i trattamenti sanitari sono di norma volontari»: l’eccezione a cui si allude è, ancora una volta, quella dei trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge); l’art.4 del decreto ministeriale 1° settembre 1995, che definisce le trasfusioni come pratiche terapeutiche per le quali è necessario il consenso informato del ricevente[24]; nonché, di recente, alcune disposizioni particolarmente significative della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina” (c.d. “Convenzione di Oviedo”) del 1997, ratificata in Italia con legge 28 marzo 2001, n.145[25]. In particolare devono ricordarsi l’art.2 della Convenzione, che, smentendo qualsiasi tipo di concezione “utilitaristica” dell’individuo e del suo benessere psico-fisico, afferma a chiare lettere la prevalenza «dell’interesse e del valore dell’essere umano» sul «solo interesse della società o della scienza»[26], e l’art.5, ove si afferma, al primo comma, che i trattamenti medici possono essere attuati soltanto «dopo che la persona interessata vi abbia consentito liberamente ed espressamente».
La collocazione gerarchica dei valori in gioco è talmente univoca da contenere in nuce, senza la necessità di ulteriori specificazioni, la stessa “regola” valida per il caso di specie: il medico non può mai imporre alcuna terapia, alcun accertamento diagnostico, alcuna attività medico-sanitaria in genere, laddove a ciò osti il dissenso del paziente, anche quando tale dissenso significhi, nei fatti, l’accettazione della morte.
3. Di molto si complica la questione, tuttavia, non appena la situazione fattuale di riferimento si arricchisca di un ulteriore profilo: lo stato di incoscienza del paziente, che abbia precedentemente dissentito rispetto alle cure che si prospettano necessarie.
È bene chiarire sin da subito, a scanso d’equivoci, come la mancanza attuale della capacità di esprimere un consenso non dia adito a particolari problemi applicativi almeno in tre casi, diversi da quello di nostro immediato interesse: 1) quando il paziente abbia coscientemente accettato l’intervento sanitario, prima di perdere conoscenza; 2) quando, pur mancando la condizione sub 1 (o addirittura sussistendo un previo “rifiuto”), le cure non appaiano tuttavia “necessarie” ed “urgenti”; 3) quando l’interessato non abbia precedentemente espresso alcun “dissenso” rispetto al tipo di trattamento che, nella contingenza, appaia indifferibile (o abbia di recente revocato, anche per facta concludentia, un dissenso precedentemente manifestato). Dalla prima ipotesi deriva, ovviamente, un dovere di intervento, posta l’armonica convergenza dell’istanza “volontaristica” e di quella “solidaristica”. Nel secondo caso, nella misura in cui sia “tecnicamente” possibile procrastinare l’intervento, il principio “consensualistico” mantiene intatto il proprio significato, non implicando il rispetto di tale principio la “lesione” del valore – dialetticamente contrapposto – della “salute”. Il medico sarà allora obbligato ad attendere che il paziente “ritorni in sé”, per svolgere con lui il necessario “dialogo” informativo, senza sentirsi autorizzato ad agire sol perché a lui appaia “del tutto improbabile” (o, peggio, “ingiustificabile”) un eventuale dissenso.
Nell’ultima ipotesi, infine, non si vede che cosa dovrebbe impedire l’attuabilità degli interventi necessari ed indilazionabili, non emergendo in alcun modo un interesse personale contrario e prevalente rispetto a quello valorizzato in via principale dall’ordinamento, ovvero l’interesse “alla salute”. Tale assunto trova oggi ulteriore conforto nell’art.8 della citata Convenzione di Oviedo, alla luce del quale, in caso di urgenza che renda impossibile ottenere un «appropriato consenso», «si potrà procedere immediatamente a tutti gli interventi indispensabili da un punto di vista medico per garantire la salute della persona interessata»: la contrapposizione tra questa norma ed il successivo art.9, di cui si è detto e di cui si dirà, evidenzia come ci si riferisca ad una situazione di “urgenza” relativa ad un paziente che non abbia espresso “direttive anticipate” di carattere negativo. V’è di più: con particolare riferimento, se non altro, al medico ospedaliero, l’intervento si prospetterà in questi casi non solo come lecito, ma come doveroso. Nessuna regola vigente, infatti, legittimerebbe un’astensione dalle cure; per contro, è pacifico che la “posizione di garanzia” del professionista sussista per intero anche nei confronti del paziente “accettato” nel nosocomio in stato di incoscienza. Invero, «nel caso di paziente consenziente, la doverosità dell’attività medica discende dalla subordinazione della natura intrinsecamente solidaristica dell’attività medica e della tutela della salute (art.32 comma 1, Cost.) alla componente personalistica della volontà del paziente (art.32, comma 2, Cost.). Diversamente, nel caso di paziente incosciente o incapace, la doverosità del trattamento ha un fondamento esclusivamente solidaristico, non soggetto a essere integrato dalla volontà del paziente, ma eterolimitato dal disposto dello stesso art.32, comma 1, Cost., là dove, imponendo la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, impone che l’attività del medico sia svolta nell’interesse esclusivo del paziente»[27].
Ben più problematico appare invece il caso di cui si diceva in apertura di paragrafo, relativo all’ipotesi di uno “stato di incoscienza” che renda non confermabile un precedente rifiuto relativo a terapie che si rivelino, nella contingenza, assolutamente improcrastinabili ed insostituibili.
In questa situazione, come si adombrava poc’anzi, appare difficoltosa la stessa individuazione di “principi” utili a guidare l’interprete. Se si dovesse ritenere quel dissenso in varia guisa “meno pregnante” del normale, sarebbe ancora lecito affermare la preminenza comunque della “autodeterminazione” rispetto al dovere generale di tutela della salute gravante sulle strutture pubbliche? Il criterio di mediazione dialettica tra le istanze del solidarismo (o, come altri dicono, della “beneficialità”)[28] e del consensualismo, in materia di trattamenti sanitari (art.32, 1° e 2° comma, Cost.), è usualmente dato dalla manifestazione di volontà del paziente; tale criterio, in questo caso, fornisce tuttavia indicazioni ambigue, risultando incapace di determinare univocamente la prevalenza dell’uno o dell’altro principio in gioco.
Tale incertezza appare confermata, più che risolta, dalla Convenzione di Oviedo. L’art.9 recita difatti: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà, saranno presi in considerazione» [29]. Si prescinde volutamente dall’indicare quando, come ed a quali condizioni il medico debba attribuire rilievo a tali disposizioni anticipate, e che cosa significhi, in concreto, “prendere in considerazione”: a quali fini? Con quali effetti?
La direttiva espressa dalla Convenzione aveva già avuto modo di evidenziare la propria ambiguità una volta trasposta nell’art. 34 del Codice di Deontologia Medica del 1998 («il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso»)[30]. La “ratifica” della convenzione finisce con l’elevare questa ambiguità a livello di “legge ordinaria”, enfatizzandone la contraddittorietà ed estendendone il rilievo all’intero ordinamento[31]. V’è, a dire il vero, chi tenta di risolvere tale complessità affermando, nella sostanza, che in questi casi solo uno dei due “principi” – quello “solidaristico”, per la precisione – avrebbe ragione di essere invocato (di talché l’intervento terapeutico risulterebbe comunque doveroso). Come continuare a fare appello, difatti, ad un criterio di “autodeterminazione”, a fronte di un paziente privo di coscienza e, dunque, del tutto incapace di “autodeterminarsi”? Che senso avrebbe invocare la tutela di un valore del tutto inespresso dal caso concreto[32]? Attraverso questo abile escamotage nominalistico, peraltro, si oscura la dimensione sostanziale del problema, confondendo il valore tutelato con i criteri di individuazione di quel valore. La “manifestazione di volontà”, resa impossibile dallo stato di incapacità, è soltanto un mezzo di cognizione attraverso il quale il paziente rende noto, se del caso, il proprio interesse a non essere curato. Evidentemente, quello che l’art.32, 2° comma, tutela non è un interesse, di incerto significato, a “poter materialmente manifestare il proprio dissenso” (interesse che potrebbe effettivamente riconoscersi soltanto a chi abbia attualmente le capacità psico-fisiche necessarie per poterlo concretizzare), ma un interesse a non essere curato – quale contraltare dell’interesse ad essere curato cui si riferisce il primo comma dell’art.32 Cost. – di cui ben può essere titolare (alla stregua di qualsiasi altro interesse) anche il paziente incosciente. Quest’ultimo non è più in grado, nella contingenza, di estrinsecare la propria volontà; ma ciò, di per sé, non può significare che quel valore non inerisca più alla sfera delle sue prerogative giuridiche[33].
Neppure condivisibili appaiono quelle impostazioni che affermano la necessità di ricorrere, in questi casi, a criteri di ricostruzione del “vero” interesse del paziente dotati di una non meglio dimostrata fondatezza “empirica” o “equitativa” che dir si voglia, e che condurrebbero a sovvertire sempre e comunque il valore del dissenso già espresso. Si dà credito, in particolare, ad un criterio di “consenso presunto”, ovvero ad un consenso verso le cure che sarebbe costantemente da presumersi ogni qual volta si prospetti altrimenti, per il paziente incosciente, un rischio di morte: e ciò perché, si afferma, l’istinto di autoconservazione sarebbe insopprimibile in ogni essere vivente[34]. Un primo aspetto problematico di siffatte concezioni è la mancanza di un qualsivoglia referente normativo, atto a supportarle. D’altra parte, anche dal punto di vista sostanziale, meriterebbe qualche riscontro in più l’asserzione di un impulso umanamente ineluttabile (per definizione) a “sopravvivere”, suscettibile di prevalere su qualsiasi volontà contraria precedentemente espressa, magari radicata in profonde convinzioni di carattere religioso o etico. Già la sola casistica giurisprudenziale in materia sembra, al contrario, smentire in modo eclatante queste considerazioni, ed altrettale sconfessione deriva dalla stessa esistenza di drammatiche questioni sociali come quella dei limiti di liceità dell’eutanasia consensuale, che non avrebbero motivo di esistere se nessuno volesse mai, in nessun caso, veramente morire.
D’altra parte, gli stessi autori che invocano il canone del “consenso presunto” riconoscono invece l’assoluta validità di un dissenso rispetto alle cure (con correlativa accettazione dell’eventualità della morte) laddove manifestato da chi sia capace di intendere e di volere: ammettendo con ciò, evidentemente, l’”umana possibilità” di un siffatto dissenso. Su questi presupposti, il criterio in discussione si palesa per quello che è, ovvero non già una presunzione, munita di un’adeguata giustificazione empirica, ma una vera e propria fictio argomentativa, che imporrebbe di considerare a priori consenziente rispetto alle cure il paziente in stato di incoscienza solo perché tale, anche quando egli abbia in precedenza, per contro, espresso il proprio dissenso.
In realtà, se si vuole offrire una soluzione il più possibile convincente, bisogna accettare il fatto che l’ambiguità delle indicazioni “di principio”, in casi come questo, rende intrinsecamente opinabile qualsiasi approccio teleologicamente orientato, qualsiasi interpretazione evolutiva ed orientata “ai valori”, perché processi ermeneutici di questo tenore verrebbero inevitabilmente ad essere condotti senza la guida di un referente finalistico normativamente fondato, e dunque non potrebbero non connotarsi di un coefficiente più o meno evidente di “arbitrarietà”. Né conforto può essere ricercato sul piano di presunte “regole di esperienza”, che incontrino nel dato empirico o antropologico la propria validità, giacché tali regole (oltre a non poter costituire, di per sé, “diritto”) forniscono indicazioni del tutto equivoche.
Adottando questo punto di vista, deve riconoscersi che le uniche disposizioni rinvenibili nel sistema, in materia di limiti di liceità dei trattamenti sanitari (quelle disposizioni, in particolare, cui si è accennato poc’anzi), subordinano la liceità dell’intervento medico ad un requisito di volontarietà. Certo, già lo si è detto: quello che assume rilievo non è tanto la sussistenza di una “capacità” attuale di manifestare il proprio consenso o dissenso, ma la presenza di un interesse ad essere ovvero a non essere curato. Peraltro, fonte di cognizione privilegiata, per “certificare” tale requisito è, per il nostro ordinamento, una manifestazione di volontà del paziente. Altri criteri di ricostruzione dell’interesse del paziente non sono presi in considerazione dalla legge. Nella situazione che stiamo affrontando, una manifestazione di volontà, innegabilmente, è riscontrabile, e testimonia un interesse a non ricevere certe cure: non si può dunque a priori negare l’applicabilità di quelle disposizioni al caso di specie. O meglio: non è consentito condurre il ragionamento ermeneutico muovendo dal presupposto che, qualora il soggetto versi in stato di incoscienza, si debba far necessariamente ricorso ad una regola che affida l’individuazione del best interest a parametri che prescindono dai contenuti della sua precedente manifestazione di dissenso, senza aver prima accuratamente evidenziato le ragioni per cui quel dissenso non avrebbe (più) l’efficacia che l’ordinamento normalmente gli riconosce[35].
Certo: può darsi che l’individuo in stato di incoscienza non sia più lo “stesso” individuo, o che comunque i suoi “interessi” possano ritenersi mutati rispetto al momento in cui egli manifestò la propria avversione rispetto a certi trattamenti sanitari[36]; ma può anche darsi che non sia così. Solo in virtù di un salto logico si può dedurre, da una tale situazione di incertezza, una certezza nel senso di una prevalenza del bisogno di cure. D’altra parte, la stessa esperienza esistenziale individuale sembra piuttosto testimoniare la validità della opposta soluzione: chi di noi riterrebbe di dover essere considerato un “altro”, dal punto di vista dei valori cui ispira le proprie scelte personali, nel momento in cui, ad es., si addormenti, perdendo la propria “coscienza di sé”?
Inoltre, un aspetto da non sottovalutare è che il problema in discussione non esaurisce le proprie implicazioni con riferimento alla questione (sin troppo “manipolabile” in funzione di preferenze interpretative preconcette) del best interest del paziente incapace: è necessario prendere in considerazione anche eventuali ripercussioni della prestazione sanitaria sull’esistenza futura, da individuo “cosciente”, del medesimo. Orbene, da questo punto di vista non vi è un motivo plausibile per ritenere che tale soggetto, una volta riacquistato il dominio di sé, non debba continuare a condividere quelle opzioni ideologiche, etiche e religiose che avevano, in passato, ispirato la sua avversità rispetto a certi trattamenti sanitari. Sembra dunque tutt’altro che azzardato affermare che definizioni aprioristiche e semplificate dell’”interesse” del paziente incosciente possano far sì che questi, al “risveglio”, avverta comunque il trattamento subito come una violenza nei confronti della propria libertà di autodeterminarsi. Un esito del genere è particolarmente probabile, ad es., con riferimento al caso “classico” del testimone di Geova sottoposto ad una trasfusione coattiva, il quale, ripresa conoscenza, venga a scoprire che, suo malgrado, nel suo corpo scorre il sangue di un altro soggetto, con quel che ne conseguirà sul piano delle sue chances ultraterrene, a mente dei dogmi religiosi di cui è osservante[37]. Poco importerà, a questo soggetto, che si dimostri in vario modo che suo interesse prevalente, al momento dell’urgenza terapeutica, era a sua insaputa divenuto quello a ricevere tale trattamento, giacché è soprattutto sulla sua vita futura e cosciente (e addirittura sulla sua proiezione ultraterrena) che l’intervento emotrasfusionale verrà ad esercitare, ai suoi occhi, un’influenza “nefasta”.
Ancora: può darsi che, al cospetto dell’imminenza effettiva ed attuale della morte, il soggetto sarebbe disposto (se solo fosse cosciente) a rivedere una sua precedente “accettazione”, compiuta “a freddo”, ma può anche darsi che non sia così. Non è lecito affermare che, in astratto, tutti gli individui sarebbero vincolati ad un insopprimibile istinto di autoconservazione, per le ragioni più sopra evidenziate. La dimostrazione di un’irrilevanza, sempre e comunque, del precedente dissenso non può raggiungersi neppure su questa strada.
In questo quadro, assume piuttosto plausibilità un’altra impostazione, che non pretende di “vaticinare” il “vero” interesse del paziente incapace, ma muove intelligentemente dalla constatazione di un’incertezza cognitiva sul punto. Se non è possibile affermare con sicurezza l’invalidità del dissenso precedente, è pur sempre vero che la sua mancata confermabilità lo rende quanto meno di dubbia attualità. Tale perplessità andrebbe in qualche modo risolta, non essendo consentito, al giurista, di pervenire ad un non liquet. Orbene, unico criterio valido all’uopo sarebbe quello riassumibile nell’evocativo brocardo in dubio pro vita[38]. La logica di questa conclusione sembra essere la seguente: nel dubbio circa la prevalenza, nel caso di specie, di un valore soltanto “individualistico” – come quello a rifiutare il trattamento sanitario – ovvero di un valore che, se fosse proprio dell’individuo, corrisponderebbe al contempo anche ad un istanza obiettiva dell’ordinamento (il diritto alla salute), parrebbe opportuno comportarsi come se quest’ultimo fosse quello effettivamente poziore, se non altro perché, scegliendo l’opposta soluzione, il tipo di disvalore che si verrebbe a determinare, in caso di erroneità della scelta, sarebbe notevolmente superiore[39].
Tale impostazione, pur suggestiva e logicamente rigorosa, appare tuttavia discutibile nel momento in cui pone sullo stesso piano due possibilità già a prima vista tutt’altro che equivalenti: se, difatti, l’ipotesi dell’esistenza di un interesse a non essere curato risulta in qualche modo “documentata”, quella opposta si fonda su poco più che un’illazione. V’è dunque se non altro da dubitare che, scegliendo di praticare comunque la cura, si concretizzi un “minor rischio” di ledere il “vero” interesse del paziente, che non nell’ipotesi opposta[40].
Inoltre, il criterio dell’ in dubio pro vita non sembra coerente con norme oggi positivamente riscontrabili nel sistema. Per suo tramite, difatti, si arriva ad affermare, in pratica, una regola atteggiata nei termini di un dovere costantemente valido di applicare il trattamento oggetto di un documentato rifiuto. Ma se tale è la “regola”, come può essa conciliarsi con quella disposizione – questa sì espressamente definita dal nostro sistema – per cui il medico «dovrà prendere in considerazione» le direttive anticipate del paziente (art.9 della Convenzione di Oviedo)? Tale prescrizione – già lo si è detto – è oggi trasmigrata dal mero ambito “deontologico”, dov’era “confinata” dall’art.34 del Codice di deontologia medica, a livello di legge ordinaria. Orbene: come già evidenziato, una disposizione del genere non è in grado, in positivo, di offrire un criterio certo di comportamento, non essendo chiaro cosa significhi, in concreto, “tener conto” delle direttive anticipate; ma sicuramente, in negativo, questa norma non può voler dire che il precedente dissenso verso le cure del paziente incosciente non debba mai assumere rilevanza.
Si potrebbe obiettare che la Convenzione di Oviedo, per quanto ratificata, non assuma un significato immediato (non sia, come si dice, self-executing), fintantoché non ne saranno attuate le direttive da parte del legislatore nazionale. Questo è sicuramente vero per buona parte delle disposizioni di quell’atto internazionale, troppo “compromissorie” per poter risultare dotate di efficacia applicativa diretta[41]; non si vede tuttavia per quale ragione regole atte a rivestire un diretto supporto ermeneutico – come quella “negativa” di cui si è appena detto – non dovrebbero costituire un referente attuale per l’interprete, o addirittura dovrebbero risultare recessive rispetto ad altre (supposte) regole prive di un altrettale riconoscimento sul piano del diritto positivo. Insomma: a fronte dell’incertezza – innegabile – circa la prevalenza, nel caso di specie, di un interesse a curarsi o a non curarsi, l’unico dato normativamente sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere; il che vuol dire che il criterio dell’in dubio pro vita non si attaglia al caso di specie, o per lo meno non è in grado di definire una “regola” orientata nei termini della prevalenza sempre e comunque del bene salute.
A ciò si aggiunga che, generalizzando la logica dell’”in dubio pro vita”, l’atto terapeutico, in quanto tale, troverebbe la propria giustificazione soltanto nell’istanza solidaristica ogni qual volta il malato sia incapace, e non solo quando questi avesse precedentemente dissentito, ma anche quando egli avesse autorizzato l’intervento. Anche in questo caso, difatti, si dovrebbe coerentemente “dubitare” dell’attualità del suo consenso (perché non confermabile), di talché l’attività medica si giustificherebbe soltanto in virtù dell’esigenza di tutelare l’interesse – tra quelli ipoteticamente in gioco – di “maggiore” pregnanza (la salute): un fondamento di legittimità all’evidenza ispirato unicamente al criterio della “beneficialità”, e del tutto sganciato da qualsiasi parametro “consensualistico”. Con la conclusione, all’evidenza inaccettabile, che tutti gli interventi chirurgici implicanti un’anestesia totale, ad es., ben potrebbero, in pratica, prescindere da qualsiasi consenso, ché tanto quest’ultimo risulterebbe automaticamente invalido con la perdita di conoscenza del paziente[42]. Negandosi qualsiasi valore al principio dell’autodeterminazione, poi, verrebbero ad essere vanificate eventuali opzioni del malato per un tipo di intervento piuttosto che per un altro: ogni sua scelta sarebbe di “dubbia” validità per il fatto stesso della sua inattualità, e l’atto medico dovrebbe allora ispirarsi esclusivamente ad un best interest del tutto eterodeterminato.
4. Dunque, riassumendo: il rifiuto di cure vincola il medico a non intervenire, anche se ciò dovesse comportare una compromissione seria dello stato di salute, o addirittura la morte. Non è rinvenibile nel sistema una regola che sancisca l’invalidità sempre e comunque di una manifestazione di dissenso verso le cure, qualora il manifestante cada successivamente in uno stato di incoscienza: esiste, invece, una regola diversa, alla stregua della quale tale volontà deve avere ancora un (qualche) significato. Resta da specificare ulteriormente questa direttiva, per capire in che cosa questo “significato” possa concretizzarsi.
Un primo punto che merita sin da subito di essere chiarito, è che il discrimine tra la validità persistente o meno del rifiuto di cure non può certo correlarsi ad un indagine di merito, utile a valutare quali “motivazioni” a non essere curate risultino più o meno “apprezzabili”[43]. Al di là dell’inaccettabilità intrinseca, in un sistema pluralistico, di una regola che attribuisca a chicchessia un sindacato circa la bontà delle opzioni ideologiche, etiche, religiose o comunque “personali” di un altro soggetto, v’è da dire (ponendo l’attenzione esclusivamente e “neutralmente” al dato positivo) che l’art.32, 2° comma, della Cost., e le norme subordinate che a tale disposizione si ispirano, affermano la validità del rifiuto di cure in quanto tale, senza pretendere oneri di argomentazione, e senza discernere tra moventi più o meno “degni” del rifiuto. Non v’è ragione plausibile per cui questa “indifferenza delle motivazioni” dovrebbe d’improvviso essere rivista, nel caso di incoscienza del paziente, se non quella di ipotizzare uno Stato che “approfitta” della situazione di “minorata difesa” del singolo per arrogarsi un diritto di sindacato – cui in generale ha opportunamente abdicato – circa il merito di scelte dalle implicazioni interamente individuali[44].
Neppure sembra lecito ipotizzare un criterio in base al quale il dissenso sarebbe in qualche modo “meno” efficace del normale, se non confermabile. L’effetto che l’ordinamento, in generale, attribuisce a quell’atto di disposizione è l’illiceità tout court dei trattamenti sanitari contestati: un esito, all’evidenza, insuscettibile di graduazioni quantitative. Il dissenso o è valido, oppure no: se è valido, il medico ha il dovere di non intervenire; se non lo è, il medico ha il dovere di intervenire. Tertium non datur.
Più in generale, a dire il vero, sembra difficile individuare una regola, nella normativa vigente, in grado di specificare quando, ed a quali condizioni, il previo dissenso risulti vincolante, o non vincolante. Nessuna disposizione sembra poterci aiutare sul punto. Tutto quello che la legge ci dice, è che il medico dovrà “tener conto” del previo dissenso: si lascia intravedere la presenza di un discrimine tra rifiuti di cure vincolanti e non vincolanti per il medico, ma non si precisa su quali direttrici tale discrimine venga a collocarsi. A fronte di un siffatto dato normativo, le deduzioni che l’interprete legittimamente può trarre sono, essenzialmente, due.
Potrebbe affermarsi, in primo luogo, la sussistenza di una lacuna normativa stricto sensu, da colmarsi attraverso l’analogia. Seguendo questa opzione, bisognerebbe chiedersi quali norme, tra quelle vigenti, possano considerarsi volte a disciplinare una materia “simile” a quella di cui si discute. In quest’ottica, verrebbe quasi istintivamente da far appello alla (nuova) disciplina in materia di trapianti di organo, in gran parte diretta proprio a definire i presupposti di efficacia di una manifestazione di volontà destinata ad esplicare i propri effetti addirittura post mortem[45]. Più in generale, si potrebbe pensare alle disposizioni civilistiche in materia di testamento[46]. Minimo comune denominatore di queste regolamentazioni, infatti, è quello di attribuire efficacia a manifestazioni di volontà non confermabili, purché documentate per iscritto, e rese nel rispetto di formalità dirette vuoi a garantire esigenze di “certezza”, vuoi ad assicurare la piena consapevolezza del dichiarante circa i contenuti della propria dichiarazione.
Un’estensione analogica di tali normative, al di là di ogni suggestione, non appare tuttavia utilmente praticabile. In primo luogo, sembra discutibile individuare una corrispondenza tra la materia degli atti di disposizione della propria salute e della propria vita – ovvero di beni dotati di un “significato” costituzionale espresso e primario – e la materia degli atti di disposizione mortis causa di altre entità (il proprio cadavere, interessi patrimoniali e familiari, ecc.). Anche ammessa, peraltro, una qualche simiglianza tra tali “materie”, è vero tuttavia che le normative testé evocate risultano troppo intimamente connesse alle caratteristiche delle fattispecie specificamente regolata per potersene concepire un’utile trasposizione in diversi campi d’interesse. Così, con riferimento alla l. n. 91 del 1999, il “significato” dell’atto di disposizione del proprio cadavere si implementa esclusivamente nel contesto di una più complessa procedura amministrativa, appositamente pensata per la tematica dei trapianti[47]; non avrebbe dunque senso – e probabilmente non sarebbe neppure logicamente possibile – estendere i requisiti di validità di tale atto di disposizione ad ambiti del tutto svincolati da una sia pur analoga “procedimentalizzazione”. I diversi oneri “formali” previsti dalla legge per il testamento, poi, si comprendono in una logica tutta civilistica di “validità” o “invalidità” dei rapporti giuridici privatistici discendenti da un atto negoziale a contenuto patrimoniale; logica difficilmente esportabile nel contesto di un atto, come quello di rifiuto di cure, che sembrerebbe più opportunamente qualificarsi, analogamente al consenso scriminante[48], nei termini di un mero “atto giuridico”, o comunque di un “negozio” a contenuto non patrimoniale.
Più in generale, d’altronde, deve ricordarsi come “principio” normalmente riconosciuto in materia di atti di manifestazione della propria volontà sia quello della libertà di forma, con conseguente natura “eccezionale” (ed inestensibilità analogica) delle singole prescrizioni normative di oneri formali[49].
La constatazione della mancanza di referenti atti a supportare una qualsivoglia analogia, accresce la plausibilità di una seconda ipotesi. In particolare, non sembra azzardato affermare come, in realtà, quella individuabile nell’art.9 della Convenzione di Oviedo sia soltanto una lacuna apparente. L’art.9, difatti, ben potrebbe essere interpretato nei termini non già di una disposizione alludente ad una differenza – inevitabilmente bisognosa di specificazioni ed integrazioni ulteriori – tra categorie di rifiuti di cure sempre efficaci, ed altri sempre inefficaci; ma, ben diversamente, nei termini di una norma la quale, dando per scontata la validità assoluta della manifestazione di volontà contraria alla terapia (già evincibile dall’art.5 della Convenzione medesima, non a caso rubricato “regola generale”), individui a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di “onere cautelare”, consistente nel sincerarsi circa l’effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. Il medico “dovrà tener conto” della precedente dichiarazione del malato, in qualunque modo essa sia stata espressa e formalizzata, per valutare se in essa sia riconoscibile un dissenso effettivamente riferito al caso concreto, a quella specifica situazione di urgenza terapeutica[50].
Detto in altri termini: se nel sistema non è individuabile, neppure in via analogica, una “regola” destinata a discernere in via generale ed astratta, in materia medico-sanitaria, tra atti di autodeterminazione “inattuali” ma validi, ovvero non validi, è forse proprio perché tale differenziazione, in via generale ed astratta, non esiste; l’atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, in linea di massima, anche in casi così particolari, solo che l’impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente “si attagli” alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l’accettazione di quegli specifici esiti[51]. La sopravvenuta incoscienza non già, dunque, come evenienza suscettibile di determinare l’applicazione di una regola specifica e diversa da quella, ordinaria, che vieta l’attuazione di trattamenti sanitari contra voluntatem (regola che sarebbe priva di un qualsivoglia fondamento normativo), ma come dato fattuale suscettibile in concreto di rendere più difficoltoso, in un’ottica lato sensu “probatoria”, l’accertamento dell’esistenza di un effettivo dissenso rispetto alle cure[52].
Vari sono i parametri che possono ritenersi utili allo svolgimento di questa verifica. Senza pretese di esaustività, può ricordarsi, in primo luogo, il canone della corrispondenza “contenutistica”, per così dire, tra le modalità di manifestazione dell’atto di volontà, e gli aspetti salienti del caso di specie[53]. Vi dovrà essere, insomma, una precisa simmetria tra il tipo di trattamento sanitario di cui si prospetta la necessità, ed il tipo di trattamento sanitario oggetto del rifiuto: in caso di incertezza su questo punto, saranno le eventuali “motivazioni” del dissenso ad offrire un criterio risolutivo (ad es., un rifiuto di cure derivante dalla convinzione religiosa dell’esistenza di un divieto divino di “assunzione”, in varia guisa, del sangue altrui, sarà evidentemente da ritenersi riferito a tutti i trattamenti implicanti una qualche forma di “contaminazione” ematica, con riferimento esclusivo, tuttavia, alle sole pratiche terapeutiche implicanti l’utilizzazione di sangue umano o animale, non già di prodotti sintetici). Ma dovrà anche essere chiaro, dalle modalità di manifestazione del dissenso, che il paziente è disposto ad accettare l’eventualità di pericoli significativi per la salute, o addirittura per la vita: se il rifiuto di cure risulti a tal proposito del tutto ambiguo, ben si potrà dubitare di una sua pertinenza a situazioni concrete connotate in modo specifico da rischi di questo genere. Ancora una volta, per meglio comprendere quanto l’eventualità della morte sia stata effettivamente presa in considerazione dal singolo, sarà utile, tra l’altro, soppesare le “ragioni” specifiche del suo dissenso, non già per sottoporle ad un giudizio di meritevolezza, ma per dedurre da esse i limiti “contenutistici” del rifiuto di cure.
Non poco significato, ci pare, assumeranno d’altra parte anche i tempi ed i modi di manifestazione del previo rifiuto di cure, e questa volta non tanto per comprenderne l’estensione, ma per essere certi, ancor prima, della sua effettiva esistenza. Sono ipotizzabili una moltitudine di situazioni “intermedie” tra quella, estrema, di un rigetto di determinati trattamenti terapeutici, ampiamente motivato sulla scorta di considerazioni di carattere religioso o ideologico, espresso per iscritto su di un documento che il soggetto portava sempre con sé fino al momento di perdere conoscenza (con ciò evidenziando la propria perdurante adesione a quella manifestazione di volontà[54]); e quella, anch’essa estrema (per motivi uguali e contrari), di un rifiuto di cure generico, manifestato in modo del tutto informale ed episodico a qualche conoscente, in tempi risalenti, e mai più confermato, ed oltretutto connesso a suggestioni irrazionali derivanti da situazioni del tutto contingenti. Sarà necessario, di volta in volta, prendere in considerazione (nei limiti del possibile) contesto, ragioni e motivi della manifestazione di volontà, per comprendere quanto essa effettivamente corrispondesse ad un intimo ed immutato convincimento del malato. Per un indagine di questo tipo, saranno d’aiuto anche colloqui con i più intimi conoscenti del paziente, al fine di ricostruire le convinzioni reali e più radicate del soggetto[55]: non già tuttavia, si badi, per operare una sostituzione delle valutazioni di questi soggetti a quelle del paziente medesimo[56].
È in questo contesto che, ci pare, merita di essere affrontata e risolta la spinosa questione della base di legittimità di un intervento medico diretto a curare un soggetto in pericolo di vita, ed in stato di incoscienza, a causa di un precedente tentativo di darsi la morte (ad es. attraverso l’assunzione di dosi massicce di barbiturici). L’atto del suicidio, difatti, normalmente non assume un significato così univoco, di per sé, da potersi dire implicitamente comprensivo di un netto rifiuto verso qualsivoglia terapia “salvavita”[57]. Spesso, difatti, l’impulso autodistruttivo discende da spinte irrazionali, momentanee, comunque conflittuali, come tali per lo più insuscettibili di assorgere al ruolo di un consapevole e razionale “dissenso” (e si ricordi, tra l’altro, che l’art.32 tutela un diritto di rifiutare le cure, non un diritto di uccidersi tout court[58]). Il medico dovrà dunque normalmente ritenere inesistente, in questi casi, un atto di autodeterminazione rilevante ai sensi del secondo comma dell’art.32 Cost.: a meno che, com’è ovvio, il rifiuto di cure dell’aspirante suicida non sia deducibile da altre manifestazioni di volontà, da ritenersi valide per il caso di specie in base ai criteri già definiti.
5. Giunti a questi risultati, sembra opportuno, a scanso di equivoci, compiere qualche ulteriore, sommaria precisazione.
In primo luogo, l’art.32 della Cost. non contempla un’alternativa tra curarsi e lasciarsi morire, tra curarsi e lasciarsi ammalare, ma si riferisce esclusivamente al diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari[59]. Il che significa che, contrariamente a quanto alcuni autori polemicamente affermano[60], il medico destinatario di un dissenso non già generalizzato, ma riferito soltanto a specifiche cure, non sarà per ciò solo liberato da qualsiasi dovere nei confronti del paziente, ma dovrà comunque ricorrere a tutte le terapie alternative rispetto a quella divenuta impraticabile[61], purché esse abbiano legittimazione scientifica (giacché il dovere del curante si informa per l’appunto alla miglior scienza ed esperienza medica[62]). Qualora il dissenso sia di così ampia portata da rendere in sostanza impraticabile qualsiasi tipo di intervento (venendo con ciò a coincidere con una vera e propria richiesta di eutanasia consensuale passiva[63]), a carico del medico residuerà comunque un dovere di dialogare col paziente circa le implicazioni di una tale scelta[64], essendo un’adeguata informazione, e se opportuno una corretta e sapiente attività di persuasione, gli ultimi mezzi disponibili per ottemperare al proprio compito di garante[65].
Per quanto riguarda poi la particolare “soluzione” che in questa sede si prospetta a proposito del caso di un malato dissenziente in stato attuale di incoscienza, è ovvio che non si ipotizza l’attribuzione al medico di un autonomo potere-dovere “inquirente”[66] analogo a quello proprio di un pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Invero, ciò che conta è che il sanitario compia quelle verifiche, circa la “reale” volontà del paziente, esigibili in situazioni di così pressante emergenza, nei limiti delle concrete possibilità offerte ad un soggetto privo di qualsiasi autorità “istituzionale” in tal senso. Se dovesse poi a posteriori risultare che, in realtà, quel dissenso non era significativo, l’omissione di terapie, con esito mortale, potrà comunque considerarsi non dolosa – se il medico era assolutamente convinto della presenza di un rifiuto di cure – e neppure colposa, se tale convinzione discendeva da una considerazione sufficientemente attenta dei dati a sua conoscenza. Ciò a prescindere dal problema della qualificazione dogmatica del rifiuto di cure – problema che in questa sede volutamente trascuriamo – nei termini di una “scriminante” del reato eventualmente realizzato con l’omissione di terapie[67], ovvero nei termini di un fatto che impedisce il sorgere dello stesso “obbligo di garanzia” nei confronti del malato dissenziente (e con ciò la stessa configurabilità di un fatto tipico omissivo)[68]. Resta a tutt’oggi aperto il problema della qualificazione penalistica da dare ad un intervento terapeutico contra voluntatem (vuoi accompagnato dalla convinzione erronea della “non validità” di un eventuale dissenso – che potrebbe comunque assumere i tratti, a seconda dei casi, ed ammessa la rilevanza penale di tale intervento, di un errore escludente il dolo, ovvero di un errore sul precetto, del quale valutare la scusabilità – vuoi invece volontariamente diretto contraddire la libera scelta del paziente). Effettivamente, soprattutto quando esso sia stato attuato nei confronti di un soggetto in stato di incoscienza, solo a prezzo di qualche forzatura possono dirsi applicabili le fattispecie comuni a tutela dell’autodeterminazione[69]. Sembra dunque doversi onestamente concludere che, per lo meno de iure condito, quel comportamento, pur disdicevole, e sicuramente offensivo di un diritto di valenza addirittura costituzionale, non assume rilievo penale. Sicuramente, peraltro, ne assume uno di carattere deontologico; ben si potrebbe ipotizzare, peraltro, anche una responsabilità di carattere civilistico, implicando quel fatto la lesione di un “diritto soggettivo”, qual è quello di rifiutare le cure.
Non si deve peraltro trascurare una possibile rilevanza “indiretta”, sul piano penalistico, di una mancata copertura consensualistica dell’atto medico, d’altra parte già “intuita”, per così dire, da un significativo filone giurisprudenziale. Invero, non sembra azzardato ritenere che la presenza di un dissenso del paziente faccia sì che l’atto di cura comunque prestato non possa più considerarsi afferente all’ambito di quelle “attività medico-terapeutiche” che l’ordinamento disciplina e valorizza, giacché requisito essenziale di tali attività è proprio quello della non obbligatorietà (nei termini di cui al secondo comma dell’art.32 Cost.). La cura arbitrariamente praticata degrada, per così dire, a comportamento “comune” incidente sull’integrità fisica e sulla libertà morale di una persona. In tal modo, assumono rilevanza non più quelle regole cautelari, tipicamente rivolte ad attività “pericolose” ma “autorizzate”, dirette a definire modalità comportamentali utili a ridurre i rischi insiti in condotte che in generale risultano “socialmente adeguate”, bensì quella sola prescrizione che impone di non praticare tout court attività non positivamente valutate dall’ordinamento, in vario modo suscettive di sfociare in esiti penalmente rilevanti. Ciò significa che, in caso di esito infausto dell’attività sanitaria arbitrariamente svolta, una responsabilità se non altro colposa dovrà dirsi sussistente anche qualora fossero stati rispettati tutti i canoni della migliore scienza medica, essendo stata comunque violata la regola cautelare che imponeva di non accingersi neppure a quel tipo di comportamento rischioso. Qualora poi si dovesse ritenere, con buona parte della dottrina, l’attività medica di per sé normalmente tipica, una responsabilità penale addirittura dolosa potrà per lo più affermarsi anche in caso di risultati positivi per la salute del paziente[70].
[1] Riconducibile – almeno ictu oculi – al paradigma del “conflitto di doveri”, espressione di un sottostante conflitto di beni (cfr. sul punto A.BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di doveri, Milano, 1963, spec. pp. 64 ss.): il dovere di tutela della salute come valore “obiettivo”, da un lato, ed il dovere di rispettare l’autodeterminazione del paziente, dall’altro lato. [2] Per un’applicazione in tal senso dell’art.700 c.p.c., cfr. ad es. Pret. Pescara, decr. 8/11/74, in Nu.dir., 1975, p. 253, nota A.PIANIGIANI; Pret. Modica, ord. 13/8/90, in Foro it., 1991, I, col. 271 ss.. Sul punto v. anche F.RAMACCI – R.RIZ – M.BARNI, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv.it.med.leg., 1983, p. 863. [3] V. ad es. Ass. Firenze, 18/10/1990, Massimo, in Foro it., 1991, II, col. 242; TAR
Convegno: Coscienza, medicina e alternative al sangue. Attualità in tema di rifiuto emotrasfusionale. ASL, Presidio Zona Aretina, 5 febbraio 2000 – Prof. Mauro Barni Docente di Medicina Legale Università di Siena. Articolo interamente tratto da: www.usl8.toscana.it
“IL DIRITTO DI UN ADULTO CHE RIFIUTA L’EMOTRASFUSIONE ANCHE SALVAVITA. LA POSIZIONE ETICA E DEONTOLOGICA, NEI SUOI RIFLESSI GIURIDICI DELL’ÉQUIPE MEDICA CHE, IN UN INTERVENTO PROGRAMMATO DI ELEZIONE, SENZA INFORMARE DELIBERATAMENTE IL PAZIENTE, CONFIDASSE NELL’EVENTUALE INTERVENTO AUTORIZZATORIO DEL TRIBUNALE AD ESEGUIRE IN STATO DI NECESSITÀ LA TRASFUSIONE RIFIUTATA DURANTE LA NARCOSI OPERATORIA”
Per violenza terapeutica: sopraffazione e morte di un uomo. Il tema della trasfusione ematica, quale estrema ed insostituibile terapia dello schock ipovolemico od anossico in soggetti criticamente depauperati di sangue o di emopigmento per fatti emorragici, accidentali o chirurgici, ovvero per patologie congenite od acquisite, sembrava ormai avviato verso una temperie di più serena rivalutazione, una volta liberato dalle maggiori asprezze inerenti le pur legittime divergenze deontologiche. Vi contribuiva l’affermarsi del principio di autonomia della persona che affrancava il medico dalle eccessive e vincolanti preoccupazioni cliniche sulle esigenze della terapia trasfusionale, resa meno esclusiva e cogente dai nuovi indirizzi relativi al trattamento degli anemizzati ed alla disponibilità selettiva di emoderivati e di razionali strategie chirurgiche. Il dilemma operativo e bioetico si limitava ormai al problema del minore in presenza di rifiuto dei genitori ed a quello del soggetto ormai privo di coscienza che avesse peraltro espresso una direttiva anticipata di rifiuto, ove l’uno o l’altro versassero in effettivo e non altrimenti superabile pericolo di vita. La ridefinizione di queste paradigmatiche eventualità quale è emersa dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 (artt. 6 e 9) e dal Codice italiano di deontologia medica del 1998 (art. 34) che valorizzano tanto il consenso informato del “minore” ormai maturo e in sufficiente misura consapevole delle proprie scelte quanto le direttive anticipate, da sussumere almeno alla stregua di non trascurabili elementi nella formazione del giudizio medico e dell’indirizzo terapeutico, avevano indotto ragionevoli orientamenti. Inoltre, l’ammissione normativa secondo cui la trasfusione “costituisce una pratica non esente da rischi”, che “necessita pertanto del consenso informato del ricevente (art.19 DM 15 gennaio 1991), la fortissima penetrazione di linee-guida nordamericane e anglosassoni in genere sul buon uso dei sangue, l’affiorare di decisioni giurisprudenziali sullo sfondo di una sempre più chiara e partecipata modulazione dottrinaria e deontologica, avevano fortemente attenuato dubbi, angosce, contrasti.
Anche il ricorso preliminare assolutamente deprecabile e professionalmente indegno dei medici raggelati dal dubbio, ai Procuratori della Repubblica competenti per territorio, onde trarne conforto o addirittura autorizzazione per trasfusioni di soggetti ormai non competenti (a parte il caso di “minori”), espressivo di un penoso “trend” di medicina difensiva, sembrava rarefarsi anche per l’avvento di sempre più chiare direttive specialistiche. Sin qui ho usato il tempo imperfetto, perché il processo è stato bruscamente, drammaticamente frenato.
Quanto è occorso a Milano supera infatti e di gran lunga ogni immaginazione e recupera arroganti atteggiamenti interventistici che mai si erano spinti peraltro alla legittimazione della trasfusione coattiva in soggetti adulti, eticamente motivati ed ancora in grado di esprimere con dignità e decisione la propria volontà negativa, pur nella consapevolezza di un pericolo (nella specie attuale ma non incombente) per la vita, in vista di un intervento (neppure urgentissimo). Il rapporto di causalità materiale tra la emotrasfusione coatta e la morte di un paziente in lotta contro una sopraffazione sinanco materiale, quale sembra decisamente emergere dalla ricostruzione medico-legale del caso, esaspera la gravità della vicenda, in cui si embricano paure, arroganze, drammi umani, culminati in una tragica nemesi, fino ad evocare aspetti penalistici fin qui inopinatamente esclusi.
Forse la lezione “fiorentina” che assimilava il trattamento chirurgico non consentito e seguito da morte all’omicidio preterintenzionale è stata dimenticata, e il codice di deontologia medica è stato ignorato in un incredibile e devastante soprassalto difensivistico non della vita del paziente ma della impunità del medico che ha indotto sciagurate decisioni (uso simultaneo della forza fisica e della forza pubblica) insensibili alle voci ammonitrici della scienza, della coscienza, della verità, della compassione e persino della fede. Si trattava di un testimone di Geova: ma questo è un elemento non essenziale. Si trattava soprattutto di una persona che gridava il più sacrosanto dei suoi diritti, la più inviolabile delle sue libertà….
Mi premuro segnalare, con profonda indignazione, la vicenda sanitaria che si concluse con la morte del testimone di Geova…….di anni 51, deceduto il 23 maggio 1996 presso l’Ospedale………al seguito di emotrasfusione coattiva. Il soggetto era ricoverato dal 21 maggio con diagnosi di “neoplasia gastrica – emorragia gastro-intestinale – infarto miocardico”; da qualche giorno aveva avuto episodi di ematemesi; la pressione, all’ingresso era 110/70, la cute pallida; la psiche e il sensorio integri; bassi i valori di emoglobina. Fu prospettato l’intervento; ma il p. espresse netto rifiuto alla emotrasfusione “prima dell’intervento”.
Il 22 maggio non vi era “sanguinamento” ma si insistette per la emotrasfusione interpellando un medico legale e un magistrato che avrebbe autorizzato la emotrasfusione stessa “dove sussiste la necessità” (ma tale assenso del magistrato non è documentato!). Il paziente continua a esprimere fermo e ripetuto rifiuto, anche una volta edotto dal rischio; ha un malore (episodio di sincope) da variazione di decubito (h 15,15); il cardiologo evidenzia (ECG) marcato danno sottocardiaco anterolaterale; alle 17,25 il p. denuncia angor retrosternale o oppressione (lieve miglioramento).
Alle 17.30 (si riporta testualmente quanto risulta in cartella clinica) “si contatta il magistrato… che conferma l’autorizzazione a procedere con le terapie mediche ritenute necessarie secondo scienza e coscienza” (non v’è accenno alla trasfusione e tanto meno per scritto). “Constatato il deterioramento progressivo delle ultime ore delle condizioni generali, della comparsa ECG di danno miocardico, del calo dell’ematocrito, dell’inutilità a procedere nelle terapie effettuate fino ad ora se non si praticano emotrasfusioni, si decide di valutare le condizioni psicofisiche attuali del p. per operare la terapia unica che si ritiene ormai non più procrastinabile (emotrasfusione)”.
Lo psichiatra chiamato per consulenza, conferma il più netto rifiuto del paziente e si limita a riferire del colloquio senza esprimere parere alcuno: “h 18,10: Dopo colloquio con il p. e con la moglie che confermano quanto detto alla psichiatra si attiva la procedura di TSO (sic!) e si richiede l’appoggio della Polizia di Stato (sic!) per poter effettuare terapia trasfusionale. h 12.40: “il p. debolmente risponde con estrema fatica alle domande rivoltegli pur essendo ancora cosciente; fornisce risposte esaurienti e corrette e ribadisce la sua non volontà a subire emotrasfusioni; le condizioni cliniche appaiono in progressivo e rapido decadimento; il p. riferisce dolore retrosternale e dispnea. Si giudica il p. in gravissimo ed immediato pericolo di vita e alla presenza dell’autorità di PS e del Direttore sanitario, si decide di iniziare immediatamente la terapia trasfusionale. Il p. rifiuta con la violenza e con urla la emotrasfusione. La forza pubblica allontana i familiari della stanza, che si oppongono a gran voce. Si decide di contenere il p. per poter eseguire emotrasfusione.
h. 19,45: è in corso la terza sacca. Mucose più rosee. P.A. 130/80. Il p. è agitatissimo e incontrollabile in preda ad uno stato di agitazione psico-motoria grave. ECG … conferma lo stato ischemico miocardico; si decide di proseguire con il programma emotrasfusionale con altre due sacche…il cardiologo contattato telefonicamente concorda.
H. 19.55: ‘l’infermiera al letto del paziente avvisa di crisi lipotimica con arresto del respiro … si inizia rianimazione… h. 20,30: exitus”
Si ritiene di non riportare per ora le dichiarazioni dei congiunti e dei testimoni oculari che peraltro sono in mio possesso e ostensibili in ogni momento.
Il 27 maggio, per incarico della Procura della Repubblica della Pretura………., veniva eseguita l’autopsia del cadavere da parte del Dott…………….dell’istituto di Medicina legale della Università………..il quale tra l’altro segnalava: 1) “buone condizioni di nutrizione … segni di agopuntura (regione mammaria sn. e mano ds.) … 2) al terzo inferiore del braccio di destra, sulla sua superficie flessoria, segni di recente puntura di ago con circostante colorazione ecchimotica rosso-violacea: 3) al terzo medio del braccio di sinistra, nella superficie flessoria, due aree ecchimotiche di forma irregolare… (da manifesta compressione, n.d.s.) Torace: integro lo sterno; fratture costali dalla nona alla undicesima di destra sulla linea emiclaveare con discreta infiltrazione emorragica dei tessuti molli circostanti (compatibili con applicazione di manovre rianimatorie). Cavi pleurici contenenti circa 1000 cc di liquido siero-ematico limpido a sinistra e circa 600 cc a destra, liberi da aderenze. Polmoni: forma e volume nella norma; al taglio parenchima lievemente congesto in sede declive e pallido nei restanti settori, alla spremitura del parenchima fuoriesce modesta quantità di liquido schiumoso dagli apici, specie da quello di destra. Liquido schiumoso nel lume della trachea e dei grossi bronchi. Sacco pericardico: a livello del terzo superiore, sulla faccia anteriore, segno di recente puntura di ago con infiltrazione emorragica; cavo pericardico contenente pochi cc di liquido siero-ematico.
Cuore: di volume aumentato, del peso di 615 gr. Nulla all’epicardio. Endocardio valvolare: numerose vegetazioni calcifiche sui lembi valvolari aortici e sulla mitrale (semilunare aortica: lembi calcifici con aree nodulari fra loro confluenti; fusione dei lembi mediale e posteriore e ispessimento del lembo anteriore. Corde tendinee ispessite specie sul papillare anteriore).
Coronarie con pareti ispessite e calcifiche: il ramo discendente anteriore, a livello del terzo prossimale e del terzo medio, presenta due placche ateromasiche concentriche condizionante stenosi del lume intorno 30-40%; il ramo principale di destra presenta una placca ateromasica al terzo prossimale condizionante una stenosi del lume intorno al 70% e nei restanti settori stenosi irregolarmente distribuite intorno al 50%. Aorta interessata da ateromasia di grado medio-elevato soprattutto al’arco.
Stomaco: contenente scarsa quantità di liquame marroncino, indifferente. A livello della piccola curva, a circa 8 cm dal piloro, area ulcerativa profondamente escavata delle dimensioni di 1,7×1,5 cm con margini irregolari rossastri e fondo necrotico con area rosso-violacea (come per sangue coaugulato), nel contesto di area di cm 7×7 con margini mammellonati, di colorito bianco-grigiastro, di consistenza aumentata con scomparsa della normale plicatura al suo interno; si rilevano altresì numerose aree emorragiche puntiformi che interessano la mucosa della grande curva e del bulbo duodenale. Assenza di sangue nel lume intestinale”.
Nella relazione di consulenza tecnica m.l. per il P.M. che merita se del caso, un dettagliato riesame, sono contenute alcune fondarnentali conclusioni: “La causa della morte…………….è da identificarsi in una acuta insufficienza cardio-circolatoria in soggetto affetto da coronarosclerosi strenosante di grado medio-elevato, cardiomegalia, miocardiosclerosi in corso in grave anemizzazione da neoplasia gastrica”.
“…Nel caso di specie non ricorrevano le circostanze previste dalla legge per effettuare la trasfusione” (in TSO). “Le condizioni erano così precarie da soddisfare appieno i requisiti dello stato di necessità” (cioè soggetto in preda ad angor con imminente pericolo di vita n.d.g.).
“Terapia (trasfusionale)… in quel momento era l’unica che potesse offrire possibilità di successo” (ma il CT molto saggiamente sembra addebitare questa valutazione all’erroneo ragionamento della équipe dei medici curanti perché sa benissimo che in tali condizioni di grave sofferenza miocardica per infarto in atto, la emotrasfusione era assolutamente controindicata perché capace di determinare sovraccarico di un cuore molto sofferente e di produrre uno stress psico-fisico anche mortale: il che puntualmente avvenne in corso di trasfusione n.d.s.). “Lo stress emozionale, indotto dalla trasfusione attuata oltretutto mediante mezzi di coartazione e quindi la sua adeguatezza qualiquantitativa sono elementi per ritenere che anche quest’ultimo (e cioè lo stress… n.d.s.), proprio in considerazione del breve lasso cronologico con l’episodio di arresto cardiaco, abbia svolto un ruolo concausale, nel determinismo del decesso”. “Emerge pertanto che i medici dell’Ospedale ………….. abbiano privilegiato l’autonomia della loro decisione…sulla autonomia del paziente”.
Il GIP della Pretura circondariale di………….. in data 17.6.1998 convalida la richiesta di archiviazione avanzata dal PM rilevando che “per quanto riguarda la condotta dei sanitari indagati, anche se – come ha evidenziato il CT del PM – lo stress psicofisico indotto dalla forzata emotrasfusione ha svolto un ruolo concausale nel determinismo del decesso, in correlazione delle circostanze concrete e del conflitto degli interessi etico-giuridici in gioco, non par che essa sia censurabile sotto il profilo penale”.
E a questo punto non credo necessari ulteriori commenti o riferimenti (CT prodotta dalla vedova ………….. ecc.), riservandoli ad una ulteriore occasione, che, mi auguro, non può non intervenire.
Tre sole brevissime note finali: 1) l’ammalato, era si anenimizzato per sanguinamento di neoplasia gastrica, ma il 23 maggio 1996 versava in crisi di angor per accertata insufficienza coronarica (rilievo ECG di lesione infartuale) 2) la emotrasfusione non era pertanto indicata, trattandosi di p. da sottoporre subito a terapia intensiva cardiologica 3) la morte fu (con) causata dalla emotrasfusione coattiva e dallo stress psico-fisico che vi si accompagnò. Esistono pertanto chiari elementi di colpa per imperizia e imprudenza. Ma la vicenda travalica di per se stessa ogni legittimità deontologica e giuridica per il dato di fatto di una terapia violentemente praticata contro la volontà chiaramente, espressa dal paziente, mediante soppraffazione fisica e dispregio della libertà e della dignità di una persona cosciente moralmente motivata e pienamente capace di intendere e di volere.
A parte la ricorrenza degli estremi di cui all’art. 610 c.p. (violenza privata) e dell’art. 584 c.p. (o 586 c.p.) che non può non essere riconsiderata, è nella specie del tutto evidente la violazione: dell’art. 34, ultimo capv.. del c.d.m. per di più perpetrata con violenza e sopraffazione su paziente in condizioni di piena coscienza. Avendone ricevuto dalla vedova ………….. preghiera di interessamento, mi rivolgo pertanto alla massima autorità ordinistica, come è mio pieno dovere deontologico, per ogni provvedimento informativo e/o disciplinare che vorrà attuare, restando a disposizione per fornire tutta la documentazione – anche nominativa – del caso.
Dr. Lelio Mario Sarteschi. Dipartimento di Medicina della Procreazione e dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Pisa. Articolo interamente tratto da: www.med.unipi.it
Introduzione
In tempi recenti si è assistito allo sviluppo di una ricerca multidisciplinare mirante a ridurre al massimo l’utilizzazione del sangue nella terapia medico-chirurgica. Le ragioni di tale ricerca sono molteplici. In primo luogo vi è la crescente consapevolezza dei pericoli legati alle trasfusioni di sangue. E’ indubitabile infatti che, nonostante i progressi compiuti, non si è ancora in grado di eliminare del tutto le complicanze post-trasfusionali (1). Alle mai sopite apprensioni derivanti dal virus noti -epatite ed AIDS (2) in particolare – si è aggiunto recentemente il timore della contaminazione da agenti infettivi poco conosciuti (si veda per esempio il crescente allarme per il prione del morbo di Creutzfeld-Jacob (3). In molti studi clinici le trasfusioni sono state associate ad incremento di recidiva e ridotta sopravvivenza dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico per neoplasia (4) e inoltre sono state implicate nella genesi delle complicanze infettive post-operatorie, sia in pazienti sottoposti a chirurgia addominale (5) che ortopedica (6). Più recente è la pubblicazione dei dati secondo cui le trasfusioni peri-operatorie costituiscono un indipendente fattore di rischio nella c.d. “multiple organ failure”(MOF) post-traumatica (7).
In secondo luogo c’è la continua pressione dei centri trasfusionali perché sia perseguita con rigore la politica dei cosiddetto “buon uso del sangue”. Come è noto, questa risorsa è frutto di donazioni volontarie e pertanto ogni spreco, come l’impiego del sangue intero e le trasfusioni inutili nei malati terminali, dovrebbe essere evitato. Si deve tener conto inoltre, che mentre in alcune aree geografiche vi è un’alta disponibilità di sangue, in altre vi è carenza, e in situazioni catastrofiche anche le zone ad alta disponibilità potrebbero rapidamente impoverirsi. Ancora più interessanti in proposito sono i recenti studi pubblicati, secondo cui sembra che il mondo abbia bisogno ogni anno di 7,5 milioni di litri di sangue in più. Gli esperti prevedono che entro il 2030 mancheranno ogni anno, nei soli Stati Uniti, 4 milioni di unità di sangue (8).
Un terzo settore che stimola la ricerca, specialmente nel campo dei sostituti dei globuli rossi, è quello delle situazioni di emergenza. Sostanze capaci di ripristinare il volume ematico e velcolare l’ossigeno, di pronta utilizzazione anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero, sarebbero estremamente utili nelle circostanze di gravi disastri naturali. incidenti stradali o conflitti militari. La spinta maggiore alla ricerca nella medicina senza sangue viene però dal costante incremento, a livello mondiale, di coloro che per motivazioni religiose, rifiutano assolutamente le trasfusioni di sangue, i “testimoni di Geova”. La crescente presenza di questa comunità religiosa (in Italia ci sono oltre 220.000 Testimoni – 1 ogni 255 persone – ma la cifra raggiunge i 400.000 se si aggiungono i simpatizzanti), ha fornito un eccellente stimolo alla ricerca di strategie e strumenti terapeutici, che pian piano vengono utilizzati con profitto anche su coloro che non fanno obiezione di tipo religioso.
In questa relazione partiremo dunque proprio dal problema del trattamento di chi dissente alle trasfusioni di sangue, vedremo quali sono le risorse attuali nella tera-pia e quali i futuri sviluppi della medicina senza sangue. Linee guida nel trattamento dei pazienti che dissentono all’uso delle trasfusioni di sangue.
Il paziente che rifiuta trasfusioni di sangue, anche a rischio della propria vita, pone al medico una serie di difficoltà, etiche, legali e tecniche, che potrebbero generare inutili conflitti e pericolose perdite di tempo. Per risolvere questa difficoltà, in una recente consensus conference sono state presentate alcune linee guida da utilizzare nel trattamento dei pazienti testimoni di Geova (9). Riteniamo che tali indicazioni, se applicate, potrebbero esitare, sia in un miglior trattamento di questi pazienti, che in un avanzamento nell’esperienza della medicina senza sangue, sicuramente utile per tutti.
Queste sono le linee guida proposte:
l . Accettare la limitazione che il sangue allogenico non può essere usato.
2. Usare le alternative al sangue allogenico ove possibile e appropriato.
3. Discutere le conseguenze con il paziente. inclusa la possibilità di un’emorragia che può mettere in pericolo la vita o addirittura provocare la morte se non viene trasfuso.
4. Se non si può o non si vuole trattare un paziente testimone dì Geova, stabilire di trasferire il paziente in una struttura disponibile come ad esempio i Centri di Chirurgia Senza Sangue.
5. Contattare il locale Comitato di Assistenza Sanitaria dei Testimoni di Geova per informazioni e aiuto (la congregazione dei testimoni dì Geova ha istituito locali comitati sanitari che sono costituiti da membri della congregazione ben informati e preparati per fungere da tramite fra il medico e il paziente).
6. Cercare assistenza legale quando si ha a che fare con un adulto in stato di incoscienza o incompetente, andare alla ricerca di una precedente sentenza.
Queste direttive si basano su una avanzata concezione del rapporto medico-paziente, che tiene conto dell’individuo nella sua integrità psico-fisica ed è perfettamente in sintonia con le norme sul “consenso dell’avente diritto” esistenti nel nostro Paese (10, 11).
Revisione critica del bisogno trasfusionale.
L’accettazione del paziente, con i limiti imposti dalle sue credenze religiose, non deve però significare rassegnazione e senso di impotenza. E’ necessario tener presente che l’esperienza internazionale sui testimoni di Geova ha dimostrato come si possa fare a meno delle trasfusioni di sangue anche nelle circostanze più disperate, purché si applichino adeguate strategie terapeutiche (12). L’analisi dei dati pubblicati su testimoni di Geova sottoposti ad alta chirurgia senza trasfusioni di sangue ha infatti permesso di scoprire che il rifiuto trasfusionale aggiunge un rischio di mortalità da anemia valutabile approssimativamente tra lo 0,5% e l’1,5%. Poiché però ogni trasfusione ha un potenziale di reazioni avverse, tra lievi e gravi, valutabile intorno al 20% (13), Kitchens ritiene che la morbilità e la mortalità conseguenti alle trasfusioni probabilmente superano i rischi derivanti dal rifiuto trasfusionale (14).
E’ proprio dall’esperienza maturata nei centri dove si opera con i Testimoni nel pieno rispetto delle loro convinzioni che si è giunti negli ultimi anni ad una revisione critica dei livelli di concentrazione emoglobinica compatibili con la vita. Alla consensus conference tenuta nel 1988, sotto l’egida della FIDA e del N1H, si concluse che il valore trigger di 10 g/dL di Hb era senza basi scientifiche e si propose un nuovo valore standard di 7 g/dL (15). Oggi sappiamo che la sopravvivenza è possibile a concentrazioni emoglobiniche estremamente basse (1,4 g/dL), mentre la mortalità, con incidenza peraltro sconosciuta, si comincia ad incontrare al livelli di Hb inferiori a 5 dL. Per livelli superiori a 5 g/dl- non esistono prove fondate di un sostanziale incremento di mortalità (16). Ovviamente la non esistenza di un ‘trasfusion trigger” non significa che tutti i pazienti possano tollerare bassi livelli di emoglobina senza conseguenze; la presenza di coesistenti patologie può limitare notevolmente il grado di anemizzazione sopportabile. Ciò che si deve puntualizzare è il fatto che non possiamo attenerci a valori standard di concentrazione emoglobinica per affermare il bisogno trasfusionale; tale necessità deve essere valutata caso per caso. La sola base scientifica per l’intervento trasfusionale sta nella dimostrazione della caduta del rapporto fra trasporto e consumo di ossigeno al di sotto di un livello critico, che si riflette in un incremento dei livelli di lattato per attivazione del metabolismo anacrobio (17) . Attualmente i parametri per monitorare lo stato di questo rapporto critico (CO, CaO2, DO2, VO2, OER) sono misurabili solo con metodiche invasive (catetere di Swan-Ganz).
Strategie terapeutiche non trasfusionali.
Si deve innanzitutto considerare la grande differenza esistente fra interventi in elezione e trattamenti di urgenza. La diagnosi precoce, di grande importanza per ogni paziente, può essere fondamentale nel trattamento del paziente che rifiuta le emotrasfusioni. Si dovrebbe compiere ogni sforzo per condurre al letto operatorio il soggetto con il migliore assetto ematologico. A questo riguardo, dato che i Testimoni rifiutano il predeposito, diversi Autori hanno trovato utile massimizzare i livelli di emoglobina preoperatoria, facendo precedere gli interventi chirurgici da cicli di 3-4 settimane di terapia con eritropoietina e ferro. E’ stato dimostrato infatti in ogni campo della chirurgia, che la somministrazione di eritropoietina ricombinante nel periodo perioperatorio incrementa la concentrazione emoglobinica e aiuta a prevenire l’anemizzazione post-operatoria. La stimolazione dell’eritropoiesi è resa evidente dall’incremento della conta dei reticolociti nel terzo giorno di trattamento. L’equivalente di una unità di sangue è prodotta nell’arco di una settimana, mentre l’equivalente di cinque unità è prodotta in 28 giorni. Pertanto la terapia di quattro settimane con EPO produce un tasso di eritropoiesi pari a 2,5 volte il valore normale e consente di pianificare interventi in cui sia prevedibile una perdita di sangue pari a 5 unità (18). L’importanza di una adeguata preparazione è stata evidenziata recentemente dalla pubblicazione dei primi lavori sui trapianti di fegato compiuti senza l’impiego di sangue e emoderivati (19).
Durante l’intervento chirurgico si dovrà prestare particolare attenzione alle procedure che consentono di ridurre le perdite di sangue (corretta pianificazione preoperatoria, embolizzazione arteriosa selettiva, meticolosa emostasi, emodiluizione normovolemica, emodiluizione ípervolemica, recupero intraoperatorio del sangue, ipotensione controllata ed eventuale uso di agenti emostatici) e al mantenimento del volume circolante e dell’output cardiaco (plasmaexpanders e cardiocinetici). Altri presidi fondamentali, che possono essere impiegati anche al di fuori del contesto operatorio, nei reparti di terapia intensiva, sono quelli miranti a massimizzare la disponibilità di ossigeno (ventilazione assistita con alte concentrazioni di ossigeno; eventuali cicli in camera iperbarica; impiego dei sostituti dei globuli rossi non derivanti da sangue umano o animale, come i perfluorochimici e l’emoglobina ricombinante) e le procedure volte a ridurre il consumo di ossigeno (lieve ipotermia; sedazione; blocco neuromuscolare con ventilazione assistita) (20). La piastrino-aferesi, già usata nella chirurgia cardiaca è stata recentemente utilizzata anche nei trapianti di fegato, consentendo di reinfondere ai pazienti il proprio plasma ricco di piastrine alla fine dell’intervento. E’ stato calcolato che con tale tecnica si riduce la richiesta di trasfusioni di circa il 40% (21).
Più difficile ovviamente è la gestione delle situazioni di emergenza. In questi casi è più che mai importante l’attenta valutazione iniziale e la stretta sorveglianza. Si devono ridurre al minimo i prelievi di sangue per il monitoraggio dei parametri ematici. In uno studio compiuto in una unità di terapia intensiva è stato dimostrato come i pazienti ivi ricoverati erano soggetti ad una media di quattro prelievi al giorno, con una perdita ematica calcolata di circa 1 litro di sangue per tutto il periodo di degenza (22).
Non si deve ritardare alcuna procedura diagnostica (gastroscopia nell’ematemesi, per es.) e bisogna rendersi disponibili per intervenire anche se i livelli di emoglobina sono bassi. Una équipe chirurgica con vasta esperienza nel trattamento dei testimoni di Geova riferisce quanto segue: “Nella nostra serie di testimoni di Geova attivamente sanguinanti, l’iniziale trattamento conservativo con terapia chirurgica dilazionata ha portato ad un tasso di mortalità pari al 75%, rispetto al tasso del 20% ottenuto da quando si effettua l’operazione di emergenza entro le 24 ore dall’ingresso in ospedale … Quando la perdita di sangue (durante l’intervento) è stata inferiore a 500 ml, nessun paziente è morto, indipendentemente dal livello di emoglobina preoperatoria” (23). Sviluppi futuri della medicina senza sangue.
Gli sviluppi futuri della medicina senza sangue sono legati, certamente agli avanzamenti delle tecniche chirurgiche, ma soprattutto alla utilizzazione clinica dei sostituti artificiali del sangue e dei fattori di crescita emopoietici.
La ricerca nel campo dei sostituti artificiali del sangue ha progredito recentemente in varie direzioni.
Il plasma può essere sostituito, per la sua funzione volumetrica, da preparazioni colloidali, che esercitano una pressione osmotica analoga a quella delle proteine plasmatiche. Questi preparati sono da molto tempo a disposizione in diverse soluzioni (gelatina, destrano, amido idrossietílico), ma nuovi prodotti stanno per essere immessi sul mercato, con maggiori capacità di rimpiazzare il volume ematico durante gli interventi operatori (si veda il sito http://www.biotimeinc.com/ ). Molto più difficile è la sostituzione delle proteine plasmatiche. Attualmente sono disponibili alcuni fattori implicati nel meccanismo della coagulazione, prodotti per mezzo della ricombinazione genica, come il Fattore VIII (si veda il sito http://www.ahp.com/products/rhahf.htm ), il Fattore IX (si veda il sito http://www.genetics.com/genetics/genetics/products/benefix/index.htm ), il Fattore VIIa (si veda il sito http://www.novo.dk/health/cd/facts.asp ).
E’ in preparazione il Fattore X (si veda in Medline http://www.healthgate.com/cgi-bin/q-format.cgi?f=G&d=fmb97&m=197938&ui=97417727 ). Ma interessanti sviluppi a breve termine potrebbero venire dalla utilizzazione degli animali transgenici (si veda sito: http://www.genzyme.com/ir/gztc/welcome.htm ). Le proteine transgeniche sono prodotte inserendo DNA umano in cellule animali, così che dal latte delle femmine discendenti si possono ricavare le molecole desiderate. Tutte le proteine plasmatiche possono teoricamente essere prodotte con questo sistema; l’antitrombina III è attualmente in fase due di valutazione clinica (http://www.genzyme.com/ir/gztc/at3.htm ), mentre l’albumina è in fase di preparazione (http://www.genzyme.com/ir/gztc/humserm.htm ).
La ricerca di un sostituto dei globuli rossi è iniziata circa 40 anni addietro, ma ha ricevuto un notevole impulso solo recentemente, specialmente in seguito alla epidemia di AIDS. Le strade percorse fino ad oggi sono due, quella dell’emoglobina modificata e quella dei perfluorocomposti (PFC).
L’emoglobina modificata è oggi prodotta sia da globuli rossi, umani (sì veda il sito Hemosol Inc: http://www.hemosol.com/ ) o animali (si veda il sito Biopure Corporation http://www.biopure.com/html/hemopure.html ) che con la ricombinazione genica (si veda ìl sito Baxter: http://www.baxter.com/doctors/blood_therapies/hemo_therapeutics/index.html ). L’attuale emoglobina artificiale si è dimostrata capace, non solo di agire efficacemente quale trasportatrice di ossigeno, ma anche di stimolare il midollo osseo alla produzione di globuli rossi (si veda NoBlood.com – Recombinant Human Hemoglobin for Patients with Anemia: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1494 ). Attualmente ci sono almeno sei aziende produttrici di questo sostituto dei globuli rossi, due delle quali in fase tre di valutazione clinica; ma già una seconda generazione è in preparazione, con lo sviluppo di emoglobina microincapsulata (veri globuli rossi artificiali. all’interno dei quali potrà essere incluso un sistema multienzimatico).
I perfluorocomposti sono sostanze di sintesi organica, note per la loro elevata capacità di trasportare l’ossigeno. La prima generazione di questi prodotti, sviluppata per uso clinico nel 1976 (Fluosol DA), aveva notevoli limiti: Richiedeva che il paziente respirasse ad alte tensioni di ossi-eno per essere efficace, era rapidamente rimossa dal circolo e ritenuta nel sistema reticolo-endoteliale, provocandone soppressione, e in alcuni pazienti provocava attivazione del complemento. Per tali ragioni il Fluosol non ha ottenuto l’approvazione della FDA come sostituto dei globuli rossi. La ricerca è tuttavia proseguita. Attualmente una nuova generazione di perfluorocomposti è venuta all’esistenza, con almeno tre aziende dedicate alla sperimentazione (si veda Alliance Pharmaceutical Corp.: http://www.allp.com/ox.htm , Synthetic Blood International : http://www.sybd.com/Synthetic.html e la russa Perftoran (si veda Perftoran: http://www.perftoran.ru/ ) Il prodotto dell’Alliance Pharmaceutical, OxygentR è attualmente in fase 2 di sperimentazione clinica.
Un nuovo orizzonte sembra che si stia aprendo anche nella produzione di piastrine artificiali. La Keio University, in collaborazione con la Green Cross Corp, sta sviluppando un prodotto costituito da liposomi ricoperti da GP1b, una glicoproteina che si trova sulla superficie delle piastrine, il cui ruolo è quello di legarsi ad altri fattori della coagulazione per formare l’impalcatura del coagulo. La glicoproteina è prodotta con ingegneria genetica ed ha la stessa struttura di quella umana (si veda NoBlood.com – Checkpoints ori Road to Artificial Blood: http://www.noblood.com/dept/articles/info.asp?Id=1589 )
I fattori di crescita emopoietici costituiscono l’altro fronte, denso di prospettive soprattutto in campo medico. Tali sostanze sono implicate nella produzione delle diverse cellule ematiche; i geni per molte di esse sono stati clonati, così che è oggi possibile produrne una grande quantità mediante l’ingegneria genetica.
La proliferazione delle cellule staminali, dalle quali, come è noto originano le diverse linee cellulari del sangue è stimolata dallo Stem cell factor (SCF). Oggi esso è disponibile per la sperimentazione clinica ed ha già completato la fase 3 (si veda Amgen: http://wwwext.Amgen.com/product/Pipeline.html#stemgen )
La produzione di granulociti, monociti/macrofagi e linfociti-T è potenziata dai Myeloid growth factors (G-CFS e GM-CFS), fattori di crescita già in uso clinico come supporto nei pazienti sottoposti a chemioterapia e trapianto di midollo osseo (http://www.neupogen.com/pub/index9.htm ). Per circa 30 anni gli ematologi hanno cercato il regolatore umorale delle piastrine, la trombopoietina. Tale fattore è particolarmente desiderato in ambito oncologico, allo scopo di ridurre le trombocitopenie causate dalle chemioterapie mielosoppressive (cfr http://www.pslgroup.com/dg/3ecba.htm ). Attualmente sono almeno tre i prodotti dell’ingegneria genetica utilizzabili per tale scopo. Due di essi sono in fase 2 di sperimentazione: la trombopoietina (TPO – si veda: http://www.gene.com/Pipeline/pipeline.html#3 ) e il fattore di cresscita e sviluppo dei megacariociti (PEG- rHuMGDF, prodotto da Amgen), una è stata recentemente licenziata per l’utilizzazione clinica, l’interleuchina-11 (IL-11 si veda: http://www.neumega.com/default.asp ).
Dell’eritropoietina (EPO) , potente stimolatore dell’eritropoiesi, oggi impiegata non solo in corso di insufficienza renale, ma anche in altre forme di anemia (http://www.thebody.com/ortho/procrit/full.html, si è già detto a proposito della preparazione agli interventi chirurgici.
L’insieme delle prospettive ha permesso lo sviluppo, nel Nord America, ma sempre più anche nel resto del mondo, dei cosiddetti “programmi di medicina senza sangue” (si veda: http://www.trasfusionfree.com/ ).
A coadiuvare questa ricerca, che potrebbe diventare una vera e propria disciplina autonoma all’interno degli studi delle facoltà di Medicina, vi sono attualmente diversi siti internet. Nell’intento di promuovere questo tipo di studi, la Divisione di Chirurgia Generale dell’Università di Pisa (Dipartimento di Oncologia), sotto la direzione del prof. Franco Mosca, ha recentemente linkato una pagina apposita dedicata alla ricerca nel campo della medicina senza sangue. Il sito, il cui indirizzo è http://www.med.unipi.it/patchir/bloodl/bmr-it.htm è in continua evoluzione e permette un aggiornamento costante, grazie al monitoraggio mondiale continuativo compiuto dagli operatori.
Conclusioni Lo sviluppo tecniche e prodotti che riducono o addirittura annullano la necessità del ricorso alle trasfusioni allogeniche ha ricevuto un forte impulso in anni recenti. Inevitabili complicanze post-trasfusionali, continua sollecitazione al buon uso del sangue da parte dei centri trasfusionali, pericolo di gravi emergenze sanitarie e crescita del rifiuto emotrasfusionale per motivazioni religiose, costituiscono un insieme di fattori altamente stimolanti per la ricerca, che attualmente è giunta al rango di una vera e propria disciplina universitaria. La rete informatica mondiale (World Wide Web) è sicuramente lo strumento più valido per lo scambio di esperienze e il continuo aggiornamento in questa disciplina dal rapido progresso.
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Convegno: Coscienza, medicina e alternative al sangue. Attualità in tema di rifiuto emotrasfusionale. ASL, Presidio Zona Casentino Sabato 4 marzo 2000.
BREVI NOTE IN TEMA DI CONSENSO INFORMATO ED AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE. IL CASO PARTICOLARE DELL’EMOTRASFUSIONEArticolo interamente tratto da: www.usl8.toscana.it.
Il nostro ordinamento tutela i diritti fondamentali ed inviolabili della persona (art. 2 Cost.), fra i quali si annovera quello della libertà personale (art. 13 Cost.), che si esplica, fra l’altro, nel diritto di libertà religiosa (art. 19 Cost.) e nel diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Quest’ultimo, in particolare, prevede la riserva di legge per l’imposizione di trattamenti sanitari ed il limite tassativo del rispetto della persona umana anche nell’esecuzione di trattamenti imposti. Diretta derivazione di tale principio costituzionale è il disposto dell’art. 33 della L. n. 833/78 che, appunto, prevede la generale volontarietà dei trattamenti sanitari (cfr.: art. 32 Codice Deontologia Medica).
Volontarietà significa autodeterminazione nella scelta del trattamento, quantomeno nel senso della libertà di rifiuto di una determinata terapia.
Perché possa esprimersi reale consenso alla terapia, detto consenso deve essere “informato”, nel senso che il paziente deve essere posto in grado di conoscerne le caratteristiche, gli effetti (diretti e collaterali), nonché gli eventuali rischi, oltre – ovviamente – le eventuali alternative esistenti.
D’altra parte, il consenso del paziente, se non può dirsi la “scriminante” (ex art. 50 c.p.) che rende lecito l’atto medico (lecito, infatti, di per sé), ne costituisce certamente il limite naturale invalicabile.
Va, altresì, sottolineato che le motivazioni (di carattere religioso o non) e la rischiosità oggettiva della terapia non costituiscono elementi di rilievo per il rispetto del rifiuto nei confronti della terapia.
Da ciò consegue che, di fronte al rifiuto da parte di un paziente adulto e cosciente, il medico non possa (e non debba) far altro che desistere, procurando di assistere il paziente stesso con tutte le altre tecniche e terapie disponibili.
Si discute, da parte di alcuni, sul comportamento che il medico debba (o possa) tenere in caso di concreto ed attuale pericolo di vita del paziente per l’ipotesi in cui questi rifiuti una terapia “salvavita”.
Vi è chi sostiene, infatti, che il medico ometterebbe un atto dovuto rispettando il rifiuto e si renderebbe automaticamente responsabile della morte del paziente, così commettendo il reato di omicidio (colposo, se non doloso).
Si sostiene, conseguentemente, che il medico non debba tener conto del dissenso e che possa eseguire la terapia rifiutata, senza rispondere di violenza privata od altro reato, in quanto scriminato dallo “stato di necessità” (ex art. 54 c.p.) che esclude la punibilità della condotta finalizzata a salvare l’altrui vita.
La ricostruzione è fallace e risente, in realtà, di una concezione sostanzialmente paternalistica della professione medica secondo la quale è dovere (e fors’anche diritto) del medico curare il malato secondo propria scienza e propria coscienza, oltre che della (a volte mal celata) convinzione della “obiettiva irragionevolezza” del rifiuto di determinate terapie (emotrasfusione, particolarmente).
In realtà, se è indiscutibile che il medico abbia l’obbligo di prestare adeguata cura al paziente, è anche vero che l’obbligo sorge in quanto il paziente vi si sottopone ed accetta la terapia.
Diversamente opinando, il medico che operasse per salvare la vita al proprio paziente, nonostante il di lui dissenso rispetto alla terapia, dovrebbe dirsi scriminato non già dal citato art. 54 c.p. (di cui meglio si dirà), ma dall’art. 51 c.p. (adempimento di un dovere), esattamente come, per intendersi, non risponde di sequestro di persona il carabiniere che provvede ad un arresto a termini di legge.
Di fronte ad un cosciente ed “adulto” rifiuto, nessuna responsabilità può attribuirsi al medico che abbia rispettato il dissenso.
Nel caso in cui il soggetto sia, infatti, titolare di entrambi gli interessi (per altro, di pari dignità costituzionale) non può che essere lasciato al medesimo il diritto di decidere quale considerare prevalente. Sarà, quindi, solamente sulla base di un “consenso (anche presunto) dell’avente diritto” che si potrà ledere un interesse per tutelarne un altro.
In difetto, si arriverebbe all’illecita sottoposizione del paziente all’arbitrio del medico solamente a causa delle sue gravi condizioni di salute, in realtà finendo per contrapporre non il diritto alla vita ed il diritto all’autodeterminazione, bensì il diritto del medico di curare secondo la propria coscienza ed il diritto del paziente ad essere curato secondo la sua propria.
Ed il diritto di curare secondo coscienza mai potrebbe prevalere sul diritto ad essere curato secondo coscienza.
Ma l’inconferenza della scriminante dello stato di necessità si ricava anche “aliunde”.
Difatti, l’art. 2045 c.c. prevede l’indennizzabilità del danno patito dalla “vittima” della condotta scriminata ex art. 54 c.p. (del quale costituisce “pendant”).
Or dunque, è logicamente incompatibile prevedere un indennizzo (destinato a ristorare) quando il soggetto si sia visto ledere al solo scopo e con il risultato della tutela di un interesse prevalente.
Quale senso può avere l’indennizzo a favore di chi è stato, a conti fatti, avvantaggiato?
E’ ovvio, quindi, che il danneggiato deve essere soggetto diverso dal “beneficiario” della condotta scriminata dall’art. 54 c.p.
Il vero problema non è, quindi, quello del rifiuto cosciente ed “adulto”, bensì quello determinato dal paziente non in grado di esprimere consenso o dissenso a causa della propria minore età o del proprio stato di incoscienza.
Quanto a quest’ultimo, sia chiaro, lo stesso è rilevante soltanto ove abbia impedito l’espressione di un consenso o di un dissenso, giacché lo stato di incoscienza sopravvenuto è irrilevante, rimanendo valida la volontà espressa prima della perdita di coscienza.
Nel caso in cui, invece e per l’appunto, lo stato di incoscienza sia “originario”, la situazione appare assai delicata.
Legittimamente il consenso ad una congrua terapia deve presumersi in capo a chiunque non sia in grado di esprimere opinione contraria, ragion per cui non è possibile presumere la volontà di rinunciare ad una terapia salvavita (cfr. art. 35 Codice Deontologia Medica).
Si tratta, tuttavia, di presunzione relativa, la quale ammette prova contraria (anche se è chiaro che, stante la rilevanza dell’interesse in giuoco, detta prova contraria dovrà avere un grado di attendibilità notevolissimo).
E’ indiscutibile, per altro, che può ritenersi sufficiente, ad esempio, una dichiarazione predisposta e recata seco dal paziente, sempre che – ovviamente – non siamo noti elementi in senso contrario.
Altrettanto delicata è la questione relativa ai minori.
Questi ultimi non hanno capacità di autodeterminazione, ragion per cui, relativamente ai medesimi, non v’è dichiarazione che possa superare la “presunzione di consenso” di cui sopra si è detto. Il parere dei genitori, ove dissenziente rispetto alla terapia, non può ritenersi determinante: spetterà al Magistrato (Tribunale per i Minorenni) disporre nell’interesse del minore. E’ evidente che il serio dubbio sull’assenso ad una determinata terapia, ovvero il fermo dissenso espresso dai genitori del minore, in particolar modo quando, come per il caso dell’emotrasfusione (cfr. DM. 15.01.1991), la terapia stessa non sia esente da rischi, impone al medico ancora maggiore cautela nel procedere solamente ove la stessa sia assolutamente indispensabile e non vi siano valide alternative disponibili.
I medici si impegnano a usare la propria conoscenza, le proprie capacità e la propria esperienza per combattere le malattie e la morte. Tuttavia, che dire se un paziente rifiuta il trattamento raccomandato? C’è la probabilità che questo accada se il paziente è un testimone di Geova e il trattamento prevede l’uso di sangue intero, eritrociti concentrati, plasma o piastrine.
Un medico può pensare che la scelta del paziente di non accettare un trattamento che implica l’uso di sangue leghi le mani a un personale medico scrupoloso. Tuttavia non bisogna dimenticare che anche pazienti che non sono testimoni di Geova decidono spesso di non seguire le raccomandazioni del loro medico. Secondo Appelbaum Roth,1 e il 19% dei pazienti delle cliniche universitarie ha rifiutato almeno un trattamento o una tecnica, anche se il 15% di questi dinieghi “poteva mettere a repentaglio la vita”.
L’idea generale che “il medico sa cosa è meglio” induce la maggioranza dei pazienti a rimettersi alla sua abilità e alla sua conoscenza. Ma sarebbe molto pericoloso se un medico si comportasse come se tale idea fosse un fatto scientificamente provato e agisse con i pazienti di conseguenza. È vero che la nostra preparazione, l’abilitazione alla professione e l’esperienza ci danno notevoli privilegi in campo medico. I pazienti, però, hanno dei diritti. E, come probabilmente sappiamo, la legge (anche la Costituzione) dà più importanza ai diritti.
Sulle pareti di quasi tutti gli ospedali è esposta la “Carta dei diritti del paziente”. Uno di questi diritti è quello del consenso consapevole, che più precisamente si potrebbe chiamare scelta consapevole. Dopo che il paziente è stato informato dei possibili risultati di vari trattamenti (o del mancato trattamento), spetta a lui decidere il da farsi. Nell’Albert Einstein Hospital del Bronx (New York), una direttiva di massima nei confronti delle trasfusioni di sangue e dei testimoni di Geova diceva: “Qualsiasi paziente adulto che non sia privo della capacità di intendere e di volere ha diritto di rifiutare un trattamento indipendentemente da quanto tale rifiuto possa nuocere alla sua salute”.2
Anche se i medici possono esprimere preoccupazioni in relazione all’etica o alla responsabilità, i tribunali hanno ribadito il fatto che la scelta del paziente è più importante.3 La Corte d’Appello di New York ha detto che “il diritto del paziente di decidere l’andamento della sua cura [è] la cosa più importante … [Un] medico non può essere ritenuto colpevole di inadempienza delle sue responsabilità legali o professionali quando rispetta il diritto che un paziente adulto capace ha di rifiutare un trattamento medico”.4 Quel tribunale ha pure fatto rilevare che “l’integrità etica della professione medica, pur essendo importante, non può avere maggior peso dei diritti individuali fondamentali qui rivendicati. Ad essere di somma importanza sono le necessità e i desideri dell’individuo, non le esigenze di un’istituzione”.5
Quando un Testimone rifiuta il sangue, la coscienza dei medici può essere turbata al pensiero di non seguire quella che sembra essere la terapia ottimale. Ciò che il Testimone chiede ai medici coscienziosi di fare, però, è di provvedergli la migliore cura alternativa possibile in quelle circostanze. Spesso dobbiamo modificare la terapia in base alle circostanze, come ad esempio ipertensione, forte allergia agli antibiotici o il non disporre di certe costose attrezzature. Trattandosi di pazienti Testimoni, si chiede ai medici di affrontare il problema medico o chirurgico tenendo conto della scelta e della coscienza del paziente, della sua decisione morale/religiosa di astenersi dal sangue.
Numerosi rapporti su grossi interventi chirurgici eseguiti su pazienti Testimoni mostrano che molti medici possono, in tutta coscienza e con esito favorevole, accondiscendere alla richiesta di non far uso di sangue. Per esempio, nel 1981, Cooley passò in rassegna 1.026 interventi cardiovascolari, il 22% dei quali su minori. Egli affermò che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”.6 Kambouris 7 ha parlato di interventi di alta chirurgia eseguiti su Testimoni ad alcuni dei quali era stato “negato un trattamento chirurgico urgente perché rifiutavano la trasfusione di sangue”. Egli ha detto: “A tutti i pazienti è stato assicurato prima del trattamento che in sala operatoria le loro convinzioni religiose sarebbero state rispettate, indipendentemente dalle circostanze. Questa linea di condotta non ha avuto effetti negativi”.
Quando un paziente è testimone di Geova, oltre al fatto della scelta entra in gioco anche la coscienza. Non si può pensare solo alla coscienza del medico. Che dire di quella del paziente? I testimoni di Geova considerano la vita un dono di Dio rappresentato dal sangue. Accettano il comando biblico dato ai cristiani di ‘astenersi dal sangue’ (Atti 15:28, 29).8 Quindi, se un medico assumesse un atteggiamento paternalistico e calpestasse le profonde e radicate convinzioni religiose del paziente, le conseguenze potrebbero essere tragiche. Papa Giovanni Paolo II ha osservato che violentare la coscienza di qualcuno “è il più doloroso colpo inferto alla dignità umana. È, in un certo senso, peggiore dell’infliggere la morte fisica, dell’uccidere”.9
Mentre i testimoni di Geova rifiutano il sangue per motivi religiosi, sono sempre di più i pazienti non Testimoni che decidono di evitare il sangue per rischi come AIDS, epatite non-A non-B e reazioni immunologiche. Possiamo dire loro il nostro parere circa il fatto che tali rischi sembrano minori rispetto ai vantaggi. Ma, come fa notare l’Ordine dei Medici Americani, il paziente è “l’ultimo arbitro nella decisione se accettare i rischi del trattamento o dell’operazione raccomandata dal medico o rischiare di farne a meno. Tale è il diritto naturale dell’individuo, che la legge riconosce”.10
A questo proposito, Macklin 11 ha menzionato il problema dei rischi/vantaggi in relazione a un Testimone che “rischiò di morire dissanguato senza trasfusione”. Uno studente di medicina disse: “Era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Che si fa quando le convinzioni religiose sono contrarie all’unico trattamento esistente?” Il ragionamento di Macklin: “Potremmo essere fermamente convinti che quest’uomo stia facendo uno sbaglio. Ma i testimoni di Geova credono che l’essere trasfusi … [possa] avere come risultato la dannazione eterna. Noi siamo preparati ad analizzare i rischi e i vantaggi dal punto di vista medico, ma se si contrappone la dannazione eterna alla vita che rimane da vivere sulla terra, l’analisi assume un’angolazione diversa”.11
In questo numero del Journal Vercillo e Duprey 12 fanno riferimento a In re Osborne per sottolineare la necessità di garantire la sicurezza delle persone a carico. Ma com’è stato risolto il caso? Esso riguardava il padre gravemente ferito di due minorenni. Il tribunale stabilì che, se fosse morto, i figli sarebbero stati affidati alle cure, materiali e spirituali, dei parenti. Perciò, come in altri casi recenti,13 il tribunale non ha ritenuto che lo stato avesse alcun motivo impellente per non tener conto della cura scelta dal paziente; l’intervento del giudice per autorizzare un trattamento che il paziente riteneva molto discutibile era ingiustificato.14 Con un trattamento alternativo il paziente si riprese e continuò ad aver cura della sua famiglia.
Non è forse vero che la maggioranza dei casi che si sono presentati, o che probabilmente si presenteranno, ai medici si può risolvere senza far uso di sangue? I nostri studi e la nostra sfera di competenza riguardano problemi medici, tuttavia i pazienti sono esseri umani i cui valori e le cui aspirazioni non si possono ignorare. Nessuno meglio di loro sa quali sono le cose più importanti per ciascuno, qual è la propria morale e la propria coscienza, cioè le cose che danno un senso alla vita.
Può essere una sfida per noi medici rispettare la coscienza religiosa dei pazienti Testimoni. Ma nell’accettare questa sfida diamo risalto a preziose libertà che tutti noi abbiamo a cuore. John Stuart Mill ha scritto appropriatamente: “Nessuna società in cui queste libertà, nell’insieme, non siano rispettate può dirsi libera, qualunque sia la sua forma di governo … Ciascuno è il legittimo custode della propria salute, fisica, mentale o spirituale. Gli uomini hanno molto da guadagnare lasciando che ognuno viva come gli sembra bene, anziché costringerlo a vivere come sembra bene agli altri”.15
1. Appelbaum PS, Roth LH: Patients who refuse treatment in medical hospitals. JAMA 1983; 250:1296-1301.
2. Macklin R: The inner workings of an ethics committee: Latest battle over Jehovah’s Witnesses. Hastings Cent Rep 1988; 18(1):15-20.
3. Bouvia v Superior Court, 179 Cal App 3d 1127, 225 Cal Rptr 297 (1986); In re Brown, 478 So 2d 1033 (Miss 1985).
4. In re Storar, 438 NYS 2d 266, 273, 420 NE 2d 64, 71 (NY 1981).
5. Rivers v Katz, 504 NYS 2d 74, 80 n 6, 495 NE 2d 337, 343 n 6 (NY 1986).
6. Dixon JL, Smalley MG: Jehovah’s Witnesses. The surgical/ethical challenge. JAMA 1981; 246:2471-2472.
7. Kambouris AA: Major abdominal operations on Jehovah’s Witnesses. Am Surg 1987; 53:350-356.
8. Jehovah’s Witnesses and the Question of Blood. Brooklyn, NY, Watchtower Bible and Tract Society, 1977, pp 1-64.
9. Pope denounces Polish crackdown. NY Times, January 11, 1982, p A9.
10. Office of the General Counsel: Medicolegal Forms with Legal Analysis. Chicago, American Medical Association, 1973, p 24.
11. Kleiman D: Hospital philosopher confronts decisions of life. NY Times, January 23, 1984, pp B1, B3.
12. Vercillo AP, Duprey SV: Jehovah’s Witnesses and the transfusion of blood products. NY State J Med 1988; 88:493-494.
13. Wons v Public Health Trust, 500 So 2d 679 (Fla Dist Ct App) (1987); Randolph v City of New York, 117 AD 2d 44, 501 NYS 2d 837 (1986); Taft v Taft, 383 Mass 331, 446 NE 2d 395 (1983).
14. In re Osborne, 294 A 2d 372 (DC Ct App 1972).
15. Mill JS: On liberty, in Adler MJ (ed): Great Books of the Western World. Chicago, Encyclopaedia Britannica, Inc, 1952, vol 43, p 273.
Forse vi domanderete perché alcuni medici e ospedali si rivolgano subito al tribunale per avere l’autorizzazione a trasfondere. Spesso questo è dovuto al timore di incorrere in responsabilità penali. Questa preoccupazione è del tutto infondata quando i testimoni di Geova scelgono terapie alternative al sangue. Un medico dell’Albert Einstein College of Medicine (USA) scrive: “Quasi tutti [i Testimoni] firmano senza esitazioni l’apposito modulo provveduto dall’Ordine dei Medici Americani con cui si sollevano da responsabilità medici e ospedali, e molti [Testimoni] portano con sé un tesserino con cui informano i medici della propria volontà. Il modulo ‘Rifiuto di accettare sangue ed emoderivati’ debitamente firmato e datato costituisce un accordo contrattuale ed è legalmente vincolante”. — Anesthesiology News, ottobre 1989. Sì, i testimoni di Geova sono pronti a collaborare assicurando in maniera legalmente valida al medico o all’ospedale che non andranno incontro a responsabilità se porranno in atto, dietro richiesta, terapie alternative al sangue. Come raccomandano esperti in materia, ciascun Testimone porta con sé un apposito ‘Documento sanitario’. Questo tesserino viene rinnovato ogni anno ed è firmato dall’individuo e da testimoni, uno dei quali è spesso il parente più stretto. Nel marzo 1990 la Corte Suprema dell’Ontario, in Canada, ha confermato una sentenza che si era espressa a favore di tale documento: “Il tesserino è la dichiarazione scritta di una posizione valida che il latore del medesimo può legittimamente assumere ponendo per iscritto una condizione all’accordo con il medico”. In Medicinsk Etik (1985) il prof. Daniel Andersen scrive: “Se il paziente ha rilasciato un’esplicita dichiarazione scritta dicendo che è testimone di Geova e che non vuole sangue in nessuna circostanza, il rispetto per l’autodeterminazione del paziente richiede che la sua volontà venga rispettata, proprio come se fosse stata espressa a voce”. I Testimoni sono disposti a firmare anche gli appositi moduli di consenso in uso negli ospedali. Un ospedale di Friburgo, in Germania, ne utilizza uno in cui il medico può descrivere in un apposito spazio le informazioni che ha fornito al paziente circa la terapia. Poi, sopra le firme del medico e del paziente, c’è scritto: “Come appartenente al gruppo religioso dei Testimoni di Geova, rifiuto categoricamente l’impiego di sangue o emoderivati in relazione all’intervento a cui sarò sottoposto. Sono consapevole del fatto che la procedura programmata e necessaria comporterà pertanto un maggiore rischio di complicanze emorragiche. Dopo essere stato debitamente informato, in particolare su questo aspetto, chiedo che il necessario intervento chirurgico venga eseguito senza fare ricorso a sangue o emoderivati”. — Herz Kreislauf, agosto 1987. In realtà le metodiche alternative alla trasfusione di sangue possono comportare meno rischi. Ma il punto che qui si vuol mettere in risalto è che i pazienti Testimoni sono lieti di sollevare i medici da responsabilità a questo riguardo affinché i medici possano concentrarsi sul loro compito, quello di aiutare i malati a guarire. Questa collaborazione giova a tutti, come spiega il dott. Angelos A. Kambouris nell’articolo “Grossi interventi addominali su testimoni di Geova”: “Il chirurgo dovrebbe considerare vincolanti gli accordi preoperatori e attenervisi indipendentemente da ciò che potrebbe succedere durante e dopo l’operazione. [Questo] consente ai pazienti di avere un atteggiamento positivo nei confronti della terapia chirurgica e distoglie l’attenzione del chirurgo dalle considerazioni di natura giuridico-filosofica concentrandola su quelle tecnico-chirurgiche, cosa che gli permette di operare al meglio delle sue capacità e di agire nei migliori interessi del paziente”. — The American Surgeon, giugno 1987.
I medici si trovano davanti a una particolare sfida quando i loro pazienti sono testimoni di Geova. I seguaci di questa fede hanno profonde convinzioni religiose che impediscono loro di accettare sangue intero omologo o autologo, eritrociti concentrati, globuli bianchi o piastrine. Molti consentiranno l’uso della macchina cuore-polmone (non avviata con sangue), dell’apparecchiatura per la dialisi o di apparecchiature analoghe se la circolazione extracorporea è ininterrotta.
Il personale sanitario non deve preoccuparsi di eventuali responsabilità, poiché i Testimoni prenderanno le adeguate misure legali per esonerarlo da ogni responsabilità conseguente al loro consapevole rifiuto del sangue. Essi accettano liquidi sostitutivi non contenenti sangue. L’uso di queste e di altre accurate tecniche ha permesso ai medici di eseguire grossi interventi chirurgici su ogni tipo di pazienti Testimoni, adulti e minorenni. È stato quindi adottato per tali pazienti uno standard di assistenza medica che si concilia con il principio di curare la “persona integrale”. (JAMA 1981;246:2471-2472).
Un grosso problema sanitario mette a dura prova i medici. Negli Stati Uniti ci sono oltre mezzo milione di testimoni di Geova che non accettano trasfusioni di sangue. Il numero dei Testimoni e di quelli che si uniscono a loro è in aumento. Anche se in passato molti medici e funzionari ospedalieri consideravano il problema della trasfusione un problema legale e chiedevano l’autorizzazione del tribunale per procedere come ritenevano opportuno dal punto di vista medico, recente letteratura medica rivela che sta avendo luogo un notevole cambiamento di opinione. Forse questo è il risultato dell’accresciuta esperienza dei chirurghi con pazienti aventi bassissimi livelli di emoglobina e può anche essere un indice del fatto che viene sempre più riconosciuto il principio giuridico del consenso consapevole.
Ora un gran numero di casi di traumi e di chirurgia elettiva inerenti a Testimoni sia adulti che minorenni vengono risolti senza trasfusioni di sangue. Ultimamente, rappresentanti dei testimoni di Geova si sono incontrati con chirurghi e dirigenti amministrativi in alcuni dei più grossi centri medici del paese. Questi incontri hanno migliorato la comprensione e contribuito a risolvere problemi relativi a ricupero del sangue, trapianti e a come evitare scontri medico-legali.
LA POSIZIONE DEL TESTIMONE RIGUARDO ALLA TERAPIA
I testimoni di Geova accettano il trattamento medico e chirurgico. Anzi, fra loro ci sono decine di medici, e anche di chirurghi. Ma i Testimoni sono persone profondamente religiose e convinte del fatto che le trasfusioni di sangue sono loro vietate da passi biblici come: “Solo non dovete mangiare la carne con la sua anima, col suo sangue” (Genesi 9:3-4); ‘Ne devi versare il sangue e lo devi coprire di polvere’ (Levitico 17:13-14); e: ‘Astenetevi dalla fornicazione e da ciò che è stato strangolato e dal sangue’ (Atti 15:19-21).
Pur non essendo questi versetti espressi in termini medici, per i Testimoni essi escludono la trasfusione di sangue intero, di eritrociti concentrati e di plasma, nonché la somministrazione di globuli bianchi e di piastrine. L’intendimento religioso dei Testimoni, però, non vieta categoricamente l’uso di parti come albumina, immunoglobuline e preparati per l’emofilia; ciascun Testimone deciderà personalmente se accettarli.
I Testimoni credono che il sangue prelevato dal corpo dev’essere eliminato, per cui non accettano l’autotrasfusione di sangue predepositato. Sono contrari a quelle tecniche di raccolta o emodiluizione nel corso dell’intervento operatorio che comportano la conservazione di sangue. Molti Testimoni però consentono l’uso di apparecchiature per la dialisi o della macchina cuore-polmone (non avviata con sangue) nonché il ricupero del sangue nel corso dell’intervento operatorio purché la circolazione extracorporea sia ininterrotta; il medico vorrà chiedere a ogni singolo paziente ciò che la sua coscienza gli comanda.
I Testimoni non pensano che la Bibbia contenga commenti diretti sui trapianti di organi; per cui spetta al singolo Testimone decidere in merito a trapianti di cornea, di rene o di altri tessuti.
POSSIBILI I GROSSI INTERVENTI CHIRURGICI
Ci sono stati spesso chirurghi che hanno rifiutato di prendere in cura i Testimoni perché il loro atteggiamento circa l’uso di parti del sangue apparentemente ‘legava le mani al medico’, ma ora molti medici preferiscono considerare la situazione solo come un’ulteriore complicazione che mette alla prova la loro abilità. Dato che i Testimoni non sono contrari ai liquidi sostitutivi colloidali o cristalloidi, né all’elettrocauterizzazione, all’anestesia ipotensiva o all’ipotermia, vi si è fatto ricorso con buoni risultati. Le attuali e future applicazioni di hetastarch, la somministrazione per via endovenosa di forti dosi di dextran contenente ferro, e il bisturi a ultrasuoni promettono bene e non danno luogo a obiezioni dal punto di vista religioso. E se un sostituto del sangue a base di fluoro di recente produzione (Fluosol-DA) si dimostrerà innocuo ed efficace, il suo uso non sarà in contrasto con le credenze dei Testimoni.
Nel 1977 Ott e Cooley riferirono in merito a 542 operazioni cardiovascolari eseguite su Testimoni senza trasfondere sangue e conclusero che questa procedura può essere seguita “con un rischio ragionevolmente basso”. Rispondendo alla nostra richiesta, Cooley ha recentemente preparato una statistica su 1.026 operazioni, il 22% delle quali su minori, concludendo che “il rischio degli interventi chirurgici per i pazienti del gruppo dei testimoni di Geova non è sostanzialmente superiore che nel caso di altri”. In modo analogo, il dott. Michael E. DeBakey comunica “che nella grande maggioranza delle situazioni [riguardanti i Testimoni] il rischio delle operazioni senza l’uso di trasfusioni di sangue non è maggiore che per quei pazienti con cui possiamo usare le trasfusioni di sangue” (comunicazione personale, marzo 1981). Nella letteratura medica si parla anche di complessi interventi all’apparato urinario e di chirurgia ortopedica eseguiti con successo. Il dott. G. Dean MacEwen e il dott. J. Richard Bowen scrivono che la fusione spinale posteriore “è stata realizzata con successo su 20 [Testimoni] minorenni” (dati inediti, agosto 1981). Essi aggiungono: “Il chirurgo deve imparare a rispettare il diritto del paziente di rifiutare una trasfusione di sangue pur seguendo sempre tecniche chirurgiche tali da risultare innocue per il paziente”.
Herbsman riferisce di avere avuto buoni risultati in casi, tra cui alcuni di minorenni, “in cui c’era stata forte perdita di sangue a seguito di traumi”. Egli ammette che “i Testimoni sono alquanto in svantaggio quando si tratta del sangue. Nondimeno è chiaro che ci sono alternative in sostituzione del sangue”. Notando che molti chirurghi hanno ritenuto di non poter accettare come pazienti i Testimoni “per timore di conseguenze legali”, egli mostra che questa non è una preoccupazione valida.
ASPETTI LEGALI E MINORENNI
I Testimoni sono pronti a firmare il modulo dell’Ordine dei Medici Americani che esonera i medici e gli ospedali da ogni responsabilità,e quasi tutti i Testimoni portano con sé un “Avviso per il medico”, datato e firmato da testimoni, preparato con la collaborazione di medici e legali. Questi documenti impegnano il paziente personalmente (ed economicamente) e offrono una protezione al medico, poiché il giudice Warren Burger sosteneva che una causa per scorrettezza professionale “apparirebbe priva di fondamento” nei casi in cui fosse stato firmato un tale documento. E commentando questo fatto in un’analisi sul “trattamento medico obbligatorio e libertà religiosa”, Paris ha scritto: “Qualcuno che ha esaminato le pubblicazioni ha detto: ‘Non sono riuscito a trovare nessun sostegno per la dichiarazione secondo cui il medico incorrerebbe in sanzioni … penali … se non imponesse la trasfusione di sangue a un paziente che non la vuole’. Il rischio sembra più il prodotto di una mente fertile in campo legale che una possibilità reale”.
La cura dei minori costituisce il problema maggiore, ed è spesso intentata un’azione giudiziaria contro i genitori in base alle norme sulla tutela dei figli. Ma tali provvedimenti sono contestati da molti medici e avvocati che conoscono bene i casi dei Testimoni e che sono convinti che i genitori Testimoni si interessano di assicurare ai loro figli una buona assistenza medica. Non volendo sottrarsi alla loro responsabilità di genitori o scaricarla su un giudice o su terzi, i Testimoni raccomandano di tener conto dei princìpi religiosi della famiglia. Il dott. A. D. Kelly, ex segretario dell’Ordine dei Medici Canadesi, ha scritto che “i genitori di minorenni e il parente prossimo di pazienti privi di sensi hanno il diritto di interpretare la volontà del paziente… . Non ammiro il comportamento dei giudici di un dubbio tribunale che si riuniscono alle due del mattino per sottrarre un fanciullo alla custodia dei suoi genitori”.
È assiomatico che i genitori abbiano voce in capitolo quando si tratta della cura dei loro figli, come ad esempio quando si tratta dei potenziali rischi o benefìci di interventi chirurgici, radiazioni o chemioterapia. Per ragioni morali che esulano dal problema del rischio delle trasfusioni, i genitori Testimoni chiedono di usare terapie che non siano vietate sotto il profilo religioso. Questo è in armonia con il principio medico di curare “la persona integrale”, non trascurando il possibile danno psicosociale permanente derivante da una tecnica che va contro le credenze fondamentali di una famiglia. In molti casi grossi centri del paese che hanno avuto a che fare con i Testimoni accettano ora il trasferimento di pazienti da istituti non disposti a curare i Testimoni, anche casi di bambini.
È UNA SFIDA PER IL MEDICO
È comprensibile che il medico, dedito a salvaguardare la vita e la salute dei pazienti con l’impiego di tutte le tecniche a sua disposizione, dovendo curare i testimoni di Geova si trovi davanti a un dilemma. Nella prefazione a una serie di articoli sui grossi interventi chirurgici su Testimoni, Harvey ammette: “Sono irritato da quelle credenze che ostacolano il mio lavoro”. Ma poi aggiunge: “Forse dimentichiamo troppo facilmente che la chirurgia è un’arte che dipende dalla tecnica personale dei singoli individui. La tecnica è suscettibile di miglioramento”.
Il professor Bolooki menziona un’inquietante notizia secondo cui uno dei centri traumatologici più attivi della contea di Dade, in Florida, “rifiutava regolarmente di curare” i Testimoni. Egli fa notare che “quasi tutte le tecniche chirurgiche per questo gruppo di pazienti comportano meno rischio del solito”. E aggiunge: “Sebbene i chirurghi pensino di venir privati di uno strumento della medicina moderna … sono convinto che c’è moltissimo da imparare operando questi pazienti”.
Anziché considerare il paziente Testimone un problema, un crescente numero di medici accetta la situazione come una sfida. Accogliendo la sfida hanno adottato uno standard di assistenza medica per questo gruppo di pazienti che è accettato in numerosi centri medici del paese. Questi medici forniscono allo stesso tempo la cura migliore per il benessere generale del paziente. Gardner e altri osservano infatti: “A che servirebbe guarire il corpo del paziente se, a suo giudizio, fosse pregiudicata la sua vita spirituale agli occhi di Dio, cosa che condurrebbe a una vita priva di significato e forse peggiore della morte stessa?”
I Testimoni riconoscono che, dal punto di vista medico, la loro convinzione, a cui si attengono tenacemente, aumenta apparentemente il rischio e può costituire una complicazione. Perciò in genere mostrano insolita riconoscenza per le cure che ricevono. Oltre ad avere gli elementi essenziali di una profonda fede e di una forte volontà di vivere, essi cooperano lietamente coi medici e col personale sanitario. Così paziente e medico affrontano insieme questa sfida che non ha uguale.
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