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RESPONSABILITÀ MEDICA E SANITARIA

RISARCIMENTO DA TRASFUSIONE COATTA

Durante un intervento in elezione (programmato) si instaura fra paziente e medico un contratto che può essere caratterizzato dal presupposto/condizione essenziale di “non trasfusione”, come parte integrante, insuperabile ed imprescindibile dell’accordo.
Parallelamente si instaura un ulteriore contratto sanitario fra paziente e struttura sanitaria (consistente nella degenza, assistenza sanitaria, fornitura di strumenti medico-chirurgici, ecc.) caratterizzato anch’esso dal presupposto e condizione essenziale di “non trasfusione” come conditio sine qua non dell’accordo.
Ne consegue che il medico scelto dal paziente e la struttura sanitaria, per il tramite del suo personale sanitario, si impegnano ad eseguire l’intervento chirurgico con le modalità convenute con il paziente (astensione assoluta di pratiche emotrasfusionali).
Detto elemento/condizione di rifiuto dell’uso terapeutico del sangue è (generalmente) ampiamente negoziato fra le parti e formalmente tradotto, in entrambi i contratti sanitari (quello con il medico e quello con la struttura sanitaria) con l’allegazione (accettata) nella cartella clinica della “dichiarazione di volontà” (di astensione dal sangue) nonché dei documenti di consenso informato (dell’ospedale) all’intervento chirurgico e all’anestesia, corretti ed integrati con la clausola di “rifiuto del sangue”.
L’obbligazione assunta dai sanitari può, pertanto, essere qualificata come obbligazione di mezzi, quanto al risultato sperato ma come obbligazione di risultato, quanto al modus operandi dell’intervento (assenza assoluta ed imprescindibile di cure emotrasfusionali).
A cagione del maggior danno e responsabilità rileva, non solo l’assenza di un valido consenso, quanto il ripetuto e formale dissenso/rifiuto alle trasfusioni, che si atteggia sin dal momento della negoziazione e fino a pochi minuti prima dell’intervento come ad elemento imprescindibile ed insuperabile delle prestazioni mediche.
A ciò deve aggiungersi un aggravamento di responsabilità della parte convenuta, stanti le rassicurazioni dei sanitari, tali da indurre il paziente ad un sicuro affidamento professionale, rispettoso dei propri convincimenti (religiosi e non di astensione dal sangue) e sanitari (pericolosità delle emotrasfusioni).
Quanto sopra esposto trova peraltro fondamento e sostegno nell’ipotesi di responsabilità contrattuale da “contatto sociale” come rapporto di fatto, di genesi precontrattuale in virtù dell’obbligo di cura da parte di chi esercita la professione medica (Cass. Civ. 22 gennaio 1999, n. 589).
Alla responsabilità contrattuale (dei medici e della struttura sanitaria) si aggiunge quella extracontrattuale per violazione del principio generale del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. nonché per il fatto degli ausiliari (medici e paramedici) ai sensi dell’art. 2049 c.c. in solido ex art. 2055 c.c.
La causa petendi si estende quindi alla lesione (art. 2043 c.c.) del diritto inviolabile (art. 2 Cost.) del danneggiato di vivere la propria esistenza anche osservando in piena libertà (art. 13 Cost.) quei precetti religiosi (nel caso si tratti di Testimone di Geova) a cui si dedica da anni (art. 19 Cost.) compreso quello di rifiutare le trasfusioni di sangue. Fanno da corollario gli artt. 3 e 8 Cost. che pongono l’uguaglianza delle Confessioni religiose davanti allo Stato nonché l’art. 1, comma 4 (Intesa con lo Stato Italiano) secondo il quale “…è’ riconosciuto ai Testimoni di Geova il diritto di professare la loro fede e praticare liberamente la loro religione in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto…”.
In tal caso vi è lesione (art. 2043 c.c.) del diritto inviolabile (art. 2 Cost.) del danneggiato di autodeterminarsi liberamente (art. 13 Cost.) nelle scelte terapeutiche (art. 32, comma 2, Cost.) a raggiungimento del bene salute inteso come integrità non solo fisica ma anche psichica (art. 32, comma 1, Cost.) attraverso il consenso o dissenso a determinate terapie (art. 23 Cost.).
Vi è inoltre violazione dell’art. 19, Cod. Deont. Med. 3.10.98 che offre al medico di poter “…rifiutare la propria opera qualora gli vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico…” e che invece ha accettato l’incarico (mentre avrebbe potuto rifiutarlo) di curare senza sangue e, qunidi, ha accettato i rischi conseguenti al non uso dellle terapie ematiche.
Inoltre, violazione dell’art. 32, Cod. Deont. Med. 3.10.98 che impone al medico di non “…intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente…” (comma 1); di acquisire il consenso scritto ad integrazione di quello orale (comma 2); di documentazione del consenso (comma 3); di “…desistere dai conseguenti atti…curativi non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona…” (comma 4).
Non ultima, la violazione dell’art. 34, Cod. Deont. Med. 3.10.98 che impone al medico di “…attenersi alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona…” (comma 1); di dovere tener conto “…di quanto precedentemente manifestato dal paziente nel caso in cui questi non sia in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita…” (comma 2); violazione del parere/direttiva del 18.12.03 del Comitato Nazionale di Bioetica (istituito con D.P.C.M. del 28.03.90) di assoluta autonomia del paziente di rifiutare le cure in tutte le fasi della vita e “…nonostante la sofferenza del sanitario che vede morire il proprio assistito senza poter espletare l’atto terapeutico probabilmente risolutivo, egli deve ispirare il proprio comportamento al codice di deontologia medica quando afferma che il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi attp diagnostico e terapeutico non essendo consentito alcun trattamento sanitario contro la volontà del paziente…”.
Ad integrazione del suddetto quadro normativo vanno indicate altre violazioni di norme costituzionali (Costituzione Europea del 29.04.4) di rispetto della dignità umana, dell’integrità della persona e del consenso informato (artt. II-61; II-63 n. 1, n. 2, lett. a) nonché il diritto alla libertà e sicurezza (artt. II-66) e libertà di religione (art. II-70) ed, infine, diritto all’uguaglianza e alla diversità religiosa (art. II-82); dell’art. 8 della Convenzione di Oviedo 4.04.97 ratificata con legge n. 145 del 8.03.01 che prevede che solo quando il paziente non può dare un valido consenso/dissenso il medico può prodecere al trattamento sanitario opportuno; di norme di dettaglio, fra cui l’art. 33, L. 833/78 e l’art. 1, L. 180/78 che impongono la partecipazione ed il consenso del paziente al trattamento sanitario; l’art. 7 del D.P.C.M. del 19.05.95 che stabilisce che il paziente ha diritto di essere assistito e curato con premura ed attenzione, nel rispetto della dignità umana e delle proprie convinzioni religiose; di norme specifiche in materia trasfusionale: l’art. 19 del D.M. del 15.01.91 che definisce la trasfusione di sangue, di emocomponenti e di emoderivati come una pratica non esente da rischi e necessita pertanto del consenso informato del ricevente; detta norma è stata ribadita dagli artt. 4 e 7 del D.M. Dell’1.09.95; di violazione delle Direttive della Commissione Nazionale per il Servizio Trasfusionale – Il Buon uso del sangue: Punto 2, tab. I, “…non esiste indicazione alla trasfusione quando l’emoglobina è superiore a 10.00…”. Punto 5, “…le Direttive tecniche e promozionali, al fine di divulgare le metodologie di riduzione della trasfusione di sangue omologo, previste dalla L. 107/90 all’art. 16 prescrivono che: < tutti i pazienti da sottoporre ad intervento chirurgico non urgente devono essere informati dal chirurgo sulla possibilità di effettuare l'autotrasfusione>.
Se la trasfusione viene effettuata senza consenso, il medico può incorrere in responsabilità civili e penali anche in assenza di danni provocati della trasfusione…”. Punto 7.1., “…la cartella trasfusionale…deve riportare la registrazione dell’avvenuta trasfusione con data, ora di inizio e fine e le firme di chi ha effettuato i controlli di identità ed i risultati di efficacia della trasfusione…”. Punto 8, “…l’intervallo di tempo tra la consegna delle unià e la loro trasfusione deve essere il più breve possibile e comunque non superiore a due ore. In ogni caso il sangue non deve essere conservato nei frigoriferi in reparto.
Questa pratica può essere infatti causa di grave reazione trasfusionale grave. L’impropria conservazione può innanzitutto alterare le caratteristiche fisico-chimiche del sangue, rendendolo inefficace e/o dannoso. Inoltre, il paziente dopo la prima trasfusione può produrre anticorpi che possono reagire con le emazia dell’unità conservata…anche se la prova di compatibilità anche se la prova di compatibilità risultava negativa al momento dell’assegnazione di tale unità…Tutte le unità non trasfuse nei limiti di tempo indicati debbono essere restituite…unitamente ad una dichiarazione scritta dei motivi della non utilizzazione…”. Punto 9.4., “…in caso di abbassamento dell’emoglobina successivamente, comparso nei giorni successivi alla trasfusione…è legittimo sospettare una reazione emolitica……nel caso di reazioni trasfusionali gravi (emolitiche, febbrili, ecc.) il Servizio Trasfusionale dovrà ricevere, oltre alla segnalazione su apposito modulo, l’unità di sangue, un campione di sangue del paziente prelevato da vena diversa…”. Punto 10. “…nel diario della cartella clinica devono essere riportati data, ora di inizio della trasfusione ed eventuali complicazioni…”.
Allegati alle Direttive: la trasfusione “…non è quasi mai appropriata quando l’emoglobina è superiore a 10 gr/dl…”; “…la trasfusione di sangue omologo si effettua solo dopo la reinfusione di tutto il sangue autologo e dopo aver corretto…l’eventuale ipovolemia…”; “…la trasfusione di sangue effettuata quando l’emoglobina è superiore a 9 gr/dl comporta rischi assai maggiori di quella effettuata quando l’emoglobina è inferiore a 7gr/dl…”. E’ “… necessario ridurre le perdite ematiche e il trasporto di ossigeno di eritropoietina, acido folico, vitamina B12, e l’impiego di tecniche quali il predeposito, il recupero perioperatorio e il bisturi a radio-frequenza che riduce drasticamente le perdite ematiche…”; “…il valore minimo di sicurezza post-operatoria, al di sopra del quale non è conveniente trasfondere, è di 6.50 gr/dl in pazienti di età inferiore a 65 anni…”. E’ necessaria una “…la valutazione caso per caso deve essere trasfusa una unià per volta, le perdite perioperatorie devono essere controllate e prevenute, non compensate, il sangue autologo deve essere considerato sempre come alternativa a quello eterologo, la massa eritrocitaria deve essere aumentata con tecniche diverse dalla trasfusione ed infine le motivazioni ed i risultati delle trasfusioni devono essere documentati…”.
Infine (ma il quadro riportato non è esaustivo delle molteplici norme violate dai sanitari) non può non rilevarsi il dispregio delle norme sulla regolare compilazione e conservazione della cartella clinica, come:
il D.P.R. n. 128/69, art. 7, che stabilisce “…la regolare compilazione della cartella clinica e dei registri nosologici…”,
il D.P.R. n. 761/79, art. 63 che impone, oltre che al primario, all’aiuto- primario e altri sanitari (gradatamente), l’obbligo della puntuale registrazione delle registrazioni cliniche,
il D.M. della Sanità del 13.09.88, art. 2.2, lett. e, che stabilisce che la cartella clinica richieda la verifica della sua esatta compilazione,
il D.M. della Sanità del 5.08.77, art. 24 che estende alle case di cura private gli obblighi imposti ai presidi pubblici in materia di cartella clinica.
Non può soccorrere lo stato di necessità poiché non risultano infatti applicabili gli art. 2045 c.c. e 54 c.p. in quanto norme secondarie, non idonee sotto il profilo della gerarchia delle Fonti, a derogare quanto disposto primariamente dalla Costituzione all’art. 32, comma 2, che fa divieto invalicabile di sottoporre alcuno a determinati trattamenti sanitari non obbligatori per legge (le trasfusioni di sangue non lo sono!); lo stato di necessità, generalmente invocato dai sanitari in cartella clinica con l’art. 54 c.p., trova in sede civile l’esatto corrispettivo nell’art. 2045 c.c. che pone un indennizzo a carico del danneggiante.
Da ciò ne deriva che il medico che ha agito in stato di necessità non può contestualmente essere (in sede penale) portatore dell’interesse protetto (bene-salute del paziente in pericolo) se, poi (in sede civile), gli viene comunque imputato a suo carico un indennizzo da responsabilità attenuata; lo stato di necessità terapeutico è operativo solo ed esclusivamente quando il paziente non sia in grado di esprimere il proprio consenso (ad esempio perché è incosciente) o quando non abbia precedentemente espresso il suo dissenso alle trasfusioni. Nella maggior aperte delle trasfusioni coatte, infatti, tutti i momenti volitivi dei rapporti paziente-medico-sanitari sono scanditi da un cosciente, lucido, preventivo e ripetuto dissenso alle trasfusioni; come è ampiamente noto, le trasfusioni di sangue, per la loro intrinseca pericolosità di veicolazione di virus patogeni, sono terapie estreme che richiedono il consenso informato del paziente.
L’inciso è vero, tanto è che il legislatore ha espressamente previsto norme di garanzia (l’art. 19 del D.M. del 15.01.91 e segg. DD.MM.). Ne deriva che le emotrasfusioni sono praticabili dai medici solo quando ricorrono contestualmente lo stato di necessità e il consenso del paziente. In altri termini, il legislatore attualizza il consenso/dissenso solo nell’ambito di un sopravvenuto stato di necessità, che tradotto significa che in tale ambito di emergenza, è il paziente, e lui solo, a dover e poter scegliere fra le due opzioni negative prospettate: i rischi di probabili gravi infezioni da una parte (in caso di accettazione del sangue) e il rischio della vita dall’altra (nel caso di rifiuto del sangue).
Invero, una diversa lettura dell’art. 54 c.p. e dell’art. 2045 c.c. eleverebbe tali norme, da scriminante e causa di giustificazione, a precetti interventisi. Pertanto, l’invocato stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. ha una valenza esclusivamente vicaria e legittimato solo in assenza di un consenso espresso da persona capace di esprimerlo volontariamente (tale limite operativo deriva dall’art. 32, comma 2, Cost. poiché, diversamente, se ne dovrebbe censurare la legittimità costituzionale nella parte in cui, in contrasto con il comma 2, art. 32 Cost., soverchia la volontà del cittadino di autodeterminarsi).
Non si ravvisano nel nostro Ordinamento norme che permettono (o che impongono) ad un medico di praticare un trattamento sanitario contro la volontà del paziente.
Se ciò avviene, al di fuori dei casi previsti, dall’art. 32, comma 2, Cost., la responsabilità dei convenuti è in res ipsa loquitur!
Pertanto, nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza il suo consenso e a maggior ragione contro la sua volontà.
Come è infatti noto a tutti, la Costituzione prevede una “garanzia attiva” espressa nel “diritto ad essere curato” (art. 32, comma 1) ed una “garanzia passiva” (art. 32, comma 2) esprimibile con “il diritto alla scelta delle cure” nonché con il “diritto al rifiuto delle cure”.
Nell’ambito di tale seconda garanzia si dipana il “diritto al consenso informato” come momento antecedente alla c.d. scelta terapeutica in cui ovviamente rientra il diritto a rifiutare le cure o determinate cure. Tale diritto di scelta/rifiuto è superabile solo quando una legge imponga un determinato trattamento sanitario a garanzia della salute collettiva (es. vaccinazioni obbligatorie) e, comunque, nel rispetto della dignità umana. Quanto sopra, inconfutabile, ineccepibile e certo sul piano giuridico, deve essere “calato” nelle singole ipotesi di trasfusione coatta al fine di verificare la compatibilità del modello legale (fattispecie astratta) con il modello di condotta sanitaria (fattispecie concreta) dedotto in giudizio.
Ciò significa che per andare esente da responsabilità, i sanitari dovrebbero (anzi devono) dimostrare che, nel caso specifico, le trasfusioni di sangue sono state praticate con il consenso del paziente o, in mancanza di consenso, devono indicare la legge che imponga le emotrasfusioni (art. 32, comma 2, Cost.) e quindi che le trasfusioni sono state praticate in virtù di un interesse pubblico (legislativamente previsto) e, comunque, nel rispetto della dignità del paziente.
Per questo i medici non possono invocare in loro favore il “dovere di intervento”, diversamente sanzionabile, poiché “…il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta ed abbia anche verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacché di fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l’esercizio di un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene doverosa, potendo diversamente configurare a suo carico persino gli estremi di un reato (art. 610)…” (Cass. 29.5.02 n. 3122 – cfr. anche Cass. 5639/92; Cass. 585/01; Cass. 731/2001).
Invero “…nel nostro ordinamento giuridico non è rinvenibile alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire prescindendo dalla volontà del paziente. Infatti lo stato di necessità, quale causa oggettiva di elisione del reato, non impone alcun obbligo di intervento ma si limita ad eludere rilevanza penale della condotta del medico che intervenga a favore della sopravvivenza del malato, anche senza aver acquisito il consenso di quest’ultimo. Se ciò è vero nel caso di assenza di consenso, a maggior ragione non esiste alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire se il paziente stesso abbia addirittura espresso il proprio dissenso informato…” (Trib. Pen. Roma – GUP, 17.10.07 n. 2049).
Deve essere stigmatizzato il tentativo di spostare la vicenda del paziente (Testimone di Geova o di altro credo religioso) su quello che viene definito un “conflitto fra diritto di libertà religiosa e il diritto alla vita” con l’evidente intento di stimolare una reazione emotiva su un credo religioso “socialmente inaccettabile”.
Una precisazione è d’obbligo: la violazione della libertà religiosa è solo una (non l’unica) delle tante poste di responsabilità foriera di danni richiesti in giudizio in caso di trasfusione coatta. Il paziente può infatti lamentare di aver rifiutato le trasfusioni, oltre che per imprescindibili motivi di coscienza religiosa (fondata sulla Bibbia), anche per insuperabili motivi di opportunità sanitaria e di specifica consapevolezza della pericolosità delle emotrasfusioni.
Una seconda precisazione: il diritto di autodeterminazione (non solo religiosa ma anche sanitaria, politica, etica, sindacale, ecc.) si esteriorizza erga omnes attraverso un insindacabile processo intimo dell’individuo i cui motivi, che stanno alla base di una scelta personalissima (riconosciuta e tutelata dalla O.G.), non rilevano e sono incensurabili da chicchessia.
Pertanto: che il rifiuto (costituzionalmente riconosciuto) di una pratica terapeutica sia motivata da esigenze religiose (piuttosto che sanitarie, etiche, politiche, ecc.), sia ulteriormente e specificamente garantito dalla libertà religiosa con una norma costituzionale ad hoc (art. 19 Cost.), costituisce un rafforzativo (non un ostacolo!) del diritto delle pazienti-attrici a rifiutare un trattamento sanitario che già trova ampia tutela negli artt. 32, comma 2; 13 e 23 Cost.
Occorre comunque rammentare che, nella fattispecie dedotta in giudizio, non sussiste alcun conflitto fra “libertà religiosa e diritto alla vita”.
Un prima ragione sta nel fatto che nel nostro Ordinamento non esiste un “diritto alla vita” mentre si rinviene lo speculare diritto alla salute che accede alla vita per qualificarne l’integrità psico-fisica. Tale ragione non è solo ovvia sul piano fisiologico, visto che tutti gli esseri umani muoiono, e nessuno può garantire “la vita”, ma anche su quello giuridico poiché la vita può, anzi deve in taluni casi, (proprio in virtù di altre norme costituzionali, art. 52 Cost.) essere messa a repentaglio e nel caso anche sacrificata (vedi D.P.R. 545/86, art. 9, che impone al militare “…se necessario, anche il rischio di sacrificare la vita…”).
Il diritto alla vita non trova, quindi, una tutela incondizionata potendo essere posto in pericolo per eminenti ragioni di interesse pubblico quali la difesa della Patria ovvero essere soppresso nei casi in cui l’azione lesiva, in quanto necessaria per salvaguardare un interesse preponderante, non venga punita: stato di necessità e legittima difesa.
Una seconda ragione dell’assenza di tale conflitto è che entrambi i diritti (libertà religiosa e, semmai esistente, “diritto vita”) fanno capo alle stesse persone. Pertanto, non si comprende da chi altri, fuori dalle persone delle attrici, potrebbe mai esercitare tale personalissimo “diritto alla vita”.
Anche volendo suggerire alla controparte di usare la locuzione “dovere di restare in vita” o meglio “dovere di curarsi” anziché quella di “diritto alla vita” (magari in virtù di quel dovere di solidarietà, di cui dell’art. 2 Cost., che i sanitari possono invocare) è ovvio che nessun “conflitto” può esservi mai stato nella vicenda per cui è causa. Invero nessun paziente desidera sottrarsi alla vita (se va in ospedale non è certo per morire!) ma più semplicemente vuole scegliere di essere curato con tutti gli altri presidi terapeutici ad eccezione fatta del sangue.
Quanto sopra è consacrato nella recentissima Sentenza della Suprema Corte (che, peraltro, va ben oltre all’affermazione del diritto al rifiuto di una terapia determinata, legittimando anzi il rifiuto di tutte le terapie) “…Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale… E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui”. (Cass. n. 21748, 16 ottobre 2007).
Si deve precisare “…il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita… Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il [presunto] sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.…Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che…la libertà di rifiutare le cure …”. (Cass. 16.10.07, n. 21748).
Non v’è infatti dubbio che in una società ispirata al rispetto ed alla tutela della persona umana, portatrice di un patrimonio culturale e spirituale prezioso per l’intera collettività, non possa non darsi assoluta prevalenza al valore sociale dell’individuo.
Proprio in tema di rifiuto, la Suprema Corte (ritenendo correttamente che devono essere posti al centro della tutela giuridica della persona i suoi diritti fondamentali, tra cui anche quello promanante dall’art. 32, comma 2, Cost.) ha ritenuto che la volontà dell’individuo “…svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia eventualmente espressa in forma negativa…” e, in questo caso, “…in presenza di una determinazione autentica e genuina [il medico] non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte …” (Cass. 29.5.02 n. 3122).
In via generale si può affermare che l’azione promossa contro i medici che hanno praticato coattivamente trasfusioni di sangue ha ad oggetto il risarcimento dei danni inerenti e conseguenti a diversi profili di responsabilità professionale (medico-sanitaria) che possono riassumersi nella errata esecuzione di un chirurgici (o altra terapia) riassumibile nella responsabilità contrattuale medica e di “spedalità” sulla quale si innestano, a diverso titolo, ulteriori e diversi profili di responsabilità extracontrattuale che integrano (non si sostituiscono) alle obbligazioni sanitarie convenute fra pazienti – medico/chirurgo; fra pazienti – clinica e fra medico/chirurgo e clinica.
Si ha quindi:
1) inadempimento nelle modalità di esecuzione delle prestazioni mediche (che doveva essere eseguito in assenza di emotrasfusioni);
2) violazione del diritto del consenso/dissenso informato;
3) violazione del diritto di autodeterminazione sanitaria;
4) violazione dell’esercizio di professione religiosa (nel caso di Testimoni di Geova).
É errato l’assunto giuridico secondo cui nel nostro Ordinamento esisterebbero norme che permettono ad un medico di praticare un trattamento sanitario contro la volontà del paziente. Tale tesi, sul la quale poggerebbe la predicata assenza di responsabilità, qualora venga “sbandierata” in giudizio, deve essere considerata una vera è propria confessione dei fatti allegati in giudizio a fondamento della domanda attrice. Infatti, se è vero (come è vero!) che nel nostro Ordinamento non esistono norme che tollerano (né tanto meno che impongano) la pratica di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente (ad eccezione di quelli previsti dall’art. 32, comma 2, Cost.): la responsabilità dei medici convenuti è in res ipsa loquitur! Ciò premesso, e nell’imbarazzo di scelta fra la copiosa normativa, dottrina e giurisprudenza (costituzionale, di legittimità e di merito), si deve precisare (con tono ampiamente riassuntivo) che fuori da quanto previsto dall’art. 32, comma 2, Cost., nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza il suo consenso e a maggior ragione contro la sua volontà. Come è infatti noto a tutti, la Costituzione prevede una “garanzia attiva” espressa nel “diritto ad essere curato” (art. 32, comma 1) ed una “garanzia passiva” (art. 32, comma 2) esprimibile con “il diritto alla scelta delle cure” nonché con il “diritto al rifiuto delle cure”. Nell’ambito di tale seconda garanzia si dipana il “diritto al consenso informato” come momento antecedente alla c.d. scelta terapeutica in cui ovviamente rientra il diritto a rifiutare le cure o determinate cure. Tale diritto di scelta/rifiuto è superabile solo quando una legge imponga un determinato trattamento sanitario a garanzia della salute collettiva (es. vaccinazioni obbligatorie) e, comunque, nel rispetto della dignità umana. Quanto sopra, inconfutabile, ineccepibile e certo sul piano giuridico, deve semplicemente essere semplicemente calato nella vicenda per cui è causa, al fine di verificare la compatibilità del modello legale (fattispecie astratta) con il modello di condotta sanitaria (fattispecie concreta) dedotto in giudizio. Ciò significa che per andare esente da responsabilità, i medici convenuti dovrebbero (anzi devono) dimostrare l’indimostrabile e cioè: che nel caso di un paziente trasfuso: 1) le trasfusioni di sangue sono state praticate con il suo consenso; 2) in mancanza del suddetto consenso, l’esistenza nell’Ordinamento di una legge che imponga le emotrasfusioni; 3) nel caso: che tali trasfusioni siano state praticate in virtù di un interesse pubblico e nel rispetto della dignità del paziente. Prima face, il suindicato modello di correttezza non solo non è dimostrabile ma sono gli stessi medici convenuti in giudizio che confessano la loro volontà interventista in virtù di un improbabile adattamento dell’art. 54 c.p. (stato di necessità). Norma che risulta violentata se usata per di farne discendere (neppure un “dovere”) ma addirittura un presunto e superiore “diritto del sanitario” ad intervenire rispetto al diritto del paziente di autodeterminarsi nello scegliere e/o rifiutare (non tutte le cure ma solo) una determinata cura (emotrasfusione) accettando invece tutte le altre.
Sullo stato di necessità ex art. 54 c.p. e sul “dovere di intervento”. Sul consenso – dissenso informato e sul diritto di scelta terapeutica.
L’invocato stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. ha una valenza esclusivamente vicaria e legittimato solo in assenza di un consenso espresso da persona capace di esprimerlo volontariamente (tale limite operativo deriva dall’art. 32, comma 2, Cost. poiché, diversamente, stando all’interpretazione di controparte, se ne dovrebbe censurare la legittimità costituzionale nella parte in cui, in contrasto con il comma 2, art. 32 Cost., soverchia la volontà del cittadino di autodeterminarsi).
Invero “…nel nostro ordinamento giuridico non è rinvenibile alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire prescindendo dalla volontà del paziente. Infatti lo stato di necessità, quale causa oggettiva di elisione del reato, non impone alcun obbligo di intervento ma si limita ad eludere rilevanza penale della condotta del medico che intervenga a favore della sopravvivenza del malato, anche senza aver acquisito il consenso di quest’ultimo. Se ciò è vero nel caso di assenza di consenso, a maggior ragione non esiste alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire se il paziente stesso abbia addirittura espresso il proprio dissenso informato…” (Trib. Pen. Roma – GUP, 17.10.07 n. 2049).
Quanto sopra perché “…il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita… Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il [presunto] sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.…Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che…la libertà di rifiutare le cure …”. (Cass. 16.10.07, n. 21748).
Non v’è infatti dubbio che in una società ispirata al rispetto ed alla tutela della persona umana, portatrice di un patrimonio culturale e spirituale prezioso per l’intera collettività, non possa non darsi assoluta prevalenza al valore sociale dell’individuo.
Proprio in tema di rifiuto, la Suprema Corte (ritenendo correttamente che devono essere posti al centro della tutela giuridica della persona i suoi diritti fondamentali, tra cui anche quello promanante dall’art. 32, comma 2, Cost.) ha ritenuto che la volontà dell’individuo “…svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia eventualmente espressa in forma negativa…” e, in questo caso, “…in presenza di una determinazione autentica e genuina [il medico] non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte …” (Cass. 29.5.02 n. 3122).
Per questo i medici convenuti non possono invocare in loro favore il “dovere di intervento”, diversamente sanzionabile, poiché “…il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta ed abbia anche verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacché di fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l’esercizio di un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene doverosa, potendo diversamente configurare a suo carico persino gli estremi di un reato (art. 610)…” (Cass. 29.5.02 n. 3122 – cfr. anche Cass. 5639/92; Cass. 585/01; Cass. 731/2001).
Nel caso di Testimoni di Geova, occorre stigmatizzare il tentativo dei medici di spostare l’intera vicenda su quello che viene definito un “conflitto fra diritto di libertà religiosa e diritto alla vita con l’evidente intento di stimolare una reazione emotiva su un credo religioso “socialmente inaccettabile”. Una precisazione è d’obbligo: generalmente la violazione della libertà religiosa è solo una (non l’unica) delle tante poste di responsabilità foriera di danni richiesti in giudizio. Invero il paziente trasfuso coattivamente lamentano di aver rifiutato le trasfusioni, oltre che per imprescindibili motivi di coscienza religiosa (fondati sulla Bibbia), anche per insuperabili motivi di opportunità sanitaria e di specifica consapevolezza della pericolosità delle emotrasfusioni. Una seconda precisazione: il diritto di autodeterminazione (non solo religiosa ma anche sanitaria, politica, etica, sindacale, ecc.) si esteriorizza erga omnes attraverso un insindacabile processo intimo dell’individuo i cui motivi, che stanno alla base di una scelta personalissima (riconosciuta e tutelata dalla O.G.), non rilevano e sono incensurabili da chicchessia. Pertanto: che il rifiuto (costituzionalmente riconosciuto) di una pratica terapeutica sia motivata da esigenze religiose (piuttosto che sanitarie, etiche, politiche, ecc.), sia ulteriormente e specificamente garantito dalla libertà religiosa con una norma costituzionale ad hoc (art. 19 Cost.), costituisce un rafforzativo (non un ostacolo!) del diritto delle paziente a rifiutare un trattamento sanitario che già trova ampia tutela negli artt. 32, comma 2; 13 e 23 Cost. Occorre comunque rammentare che non sussiste alcun conflitto fra “libertà religiosa e diritto alla vita”. Un prima ragione sta nel fatto che nel nostro Ordinamento non esiste un “diritto alla vita” mentre si rinviene lo speculare diritto alla salute che accede alla vita per qualificarne l’integrità psico-fisica. Tale ragione non è solo ovvia sul piano fisiologico, visto che tutti gli esseri umani muoiono, e nessuno può garantire “la vita”, ma anche su quello giuridico poiché la vita può, anzi deve in taluni casi, (proprio in virtù di altre norme costituzionali, art. 52 Cost.) essere messa a repentaglio e nel caso anche sacrificata (vedi D.P.R. 545/86, art. 9, che impone al militare “…se necessario, anche il rischio di sacrificare la vita…”). Il diritto alla vita non trova, quindi, una tutela incondizionata potendo essere posto in pericolo per eminenti ragioni di interesse pubblico quali la difesa della Patria ovvero essere soppresso nei casi in cui l’azione lesiva, in quanto necessaria per salvaguardare un interesse preponderante, non venga punita: stato di necessità e legittima difesa. Una seconda ragione dell’assenza di tale conflitto è che entrambi i diritti (libertà religiosa e, semmai esistente, “diritto vita”) fanno capo alla stessa persona-paziente. Pertanto, non si comprende, chi potrebbe mai esercitare tale personalissimo “diritto alla vita” se non il “proprietario della sua vita” . Anche volendo suggerire l’uso della locuzione “dovere di restare in vita” o meglio “dovere di curarsi” anziché quella di “diritto alla vita” (magari in virtù di quel dovere di solidarietà, di cui dell’art. 2 Cost., invocato con troppa disinvoltura) è ovvio che nessun “conflitto” potrà mai esservi! Invero il fatto che un paziente rifiuti le trasfusioni non significa che voglia sottrarsi alla vita, anzi è solo logico che vuole continuare a vivere scegliendo di essere curato con tutti gli altri presidi terapeutici. Come altrimenti si spiegherebbe la sua presenza in ospedale!? Quanto sopra è consacrato nella recentissima Sentenza della Suprema Corte (che, peraltro, va ben oltre all’affermazione del diritto al rifiuto di una terapia determinata, legittimando anzi il rifiuto di tutte le terapie) “…Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale… E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui”. (Cass. n. 21748, 16 ottobre 2007).
Non può non essere stigmatizzato il richiamo ad intervento del Pubblico Ministero, generalmente contattato dai medici e si limita ad una “autorizzazione” telefonica in forza di un improprio richiamo dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Tale “autorizzazione”, posta sovente in calce della cartella clinica, nulla dice “su come e su cosa” sia stato informato tale magistrato e, in particolare, se il paziente era cosciente o incosciente al momento della “telefonata” e se il magistrato abbia prestato la sua “autorizzazione” alle trasfusioni per tutto il tempo dell’intervento chirurgico (prima, durante e dopo) o solo per il periodo in cui le pazienti sarebbero state incoscienti (anestesia). Né, generalmente, risulta se il magistrato sia stato informato dai medici del documentato dissenso del paziente alle trasfusioni. In ogni caso tale circostanza (autorizzazione del P.M.) non solo non può dirsi provata (visto che manca sempre traccia di un “Provvedimento” in tal senso in cartella clinica) ma, nella denegata ipotesi, tale “Provvedimento” sarebbe giuridicamente improprio. Invero, la predicata “autorizzazione” a praticare le trasfusioni indesiderate in virtù della scriminante, di cui all’art. 54 c.p., equivarrebbe ad una “autorizzazione (istigazione) a compiere un reato” che mal si attaglia al ruolo del Pubblico Ministero. Diversamente, si trasformerebbe l’art. 54 c.p. da norma contenente una scriminante su determinati presupposti, a norma che contiene un precetto che impone al medico di intervenire sul paziente anche contro la sua volontà. Per operare (anzi per poter operare) tale scriminante deve essere valutata dalla magistratura (quella giudicante) solo dopo la consumazione del reato e in un contesto definito e definitivo dell’intera condotta criminosa. Quel che appare certo è che lo stato di necessità non può essere “razionalizzato” prima del reato e nel suo divenire (onde evitare gravi rischi di pianificazione “a tavolino” dei reati più aberranti). D’altra parte non si comprende in che cosa possa consistere l’interesse pubblico (implicitamente) dedotto nella presunta “autorizzazione” del P.M., semmai esprimibile formalmente con un atto annoverato dall’art. 69 c.p.c. (visto che il P.M. Non è un Giudice ma è parte). Allo stato, così come dedotto, l’intervento del P.M. appare effettuato, o meglio strumentalizzato, non nell’interesse pubblico (anche perché non v’è!) ma nell’esclusivo interesse dei medici (assolti ancor prima di aver commesso il fatto!).
SENTENZA N° 2533/11 Fasc. N°19128/07 Cron. N°1597/11 Rep. N°4560

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TORINO

SEZIONE 4^ CIVILE

Il dott. *****, in funzione di Giudice unico, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n.° 19128 del R.G. dell’anno 2007 promossa da: ***** rappresentate e difese dall’Avv. Renato Mattarelli, giusta procura rilasciata in calce all’atto di citazione, ed elettivamente domiciliate in Torino, corso *****

-ATTORI-

contro

*****, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. *****, che lo rappresenta e difende giusta procura rilasciata in calce alla comparsa di risposta

-CONVENUTO-

*****, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. *****, che la rappresenta e difende, uniamente agli Avv.ti ***** e *****, giusta procura rilasciata a margine della comparsa di risposta

-CONVENUTO-

con la chiamata in giudizio di

*****, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. *****, che la rappresentano e difendono giusta procura rilasciata in calce alla copia notificata della citazione

-TERZO CHIAMATO-

***** e *****, rappresentate e difese dall’Avv. *****, giusta procure in calce alle copie notificate della citazione, ed elettivamente domiciliate presso lo studio del’Avv. *****

-TERZI CHIAMATI-

in punto a

risarcimento danni da responsabilità medica.

Il Procuratore del ***** ha così concluso:

“In via principale: accertare e dichiarare, con le motivazioni di diritto suindicate, la esclusiva responsabilità contrattuale ed extracontrattuale , in solido fra loro e secondo i diversi gradi di colpa ed inadempimento, del dr. ***** della ***** nella causazione dei danni alle due attrici; accertare e dichiarare, a mero titolo risarcitorio ex art. 2059 c.c. e art. 185 c.p. gli estremi dei reati di violenza privata e lesioni personali nonché degi atri reati ravvisati e ravvisabili dal giudicante in corso di causa; condannare i convenuti all’integrale rifusione in favore delle attrici di tutti i danni patiti e patiendi, nessuno escluso ed eccettuato…

In via subordinata: solo nella denegata ipotesi dovesse affermarsi l’esenzione di responsabilità dei convenuti per stato di necessità, accertare e dichiarare la loro responsabilità (c.d. attenuata) nella causazione del danno da attività lecita prevista dall’art. 2045 c.c. e, per l’effetto, condannare fra loro in solido e/o individualmente il dr. ***** e la ***** ad un equo indennizzo il cui ammontare viene rimesso all’equo apprezzamento del Giudice. Con vittoria di spese, competenze ed onorari di giudizio.”

Il Procuratore di ***** ha così concluso:

“In via principale: respingere tutte le domande formulate dalle attrici.

In via subordinata: … condannare la *****, in virtù della polizza R.C. professioni sanitarie n. ***** a tenere indenne il dr. ***** delle somme che lo stesso fosse condannato a pagare alle attrici a titolo di risarcimento, e ciò nei limiti del massimale di polizza. In ogni caso: con il favore degli onorari e delle spese del giudizio…”

Il Procuratore di ***** ha così concluso:

“a) In via principale: respingere integralmente le domande proposte da parte attrice nei confronti della convenuta ***** iun quanto infondate in fatto e in diritto…

b) In via subordinata: nella denegata e non creduta ipotesi in cui ***** dovesse essere ritenuta responsabile di alcunché in relazione alle contestazioni mosse da parti attrici, anche in relazione all’operato del dr. *****, accertare le rispettive porzioni di responsabilità delle parti convenute, limitando l’eventuale condanna alle accertate responsabilità, con esclusione, quindi, di qualsivoglia vincolo di solidarietà.

c) Sempre in via subordinata: nella denegata ipotesi in cui il Tribunale adito accertasse e dichiarasse una qualsivoglia responsabilità, in tutto o in parte, di ***** per i fatti descritti in citazione, dichiarare ***** e ***** in forza di idonea polizza assicurativa, nonché il dr. *****, quale esclusivo responsabile degli interventi chirurgici di isterectomia totale eseguiti sule persone della sig.ra ***** e *****, delle cure prestate alle pazienti durante il post-intervento, degli interventi chirurgici di revisione e della decisione di effettuare le trasfusioni, tenuti a manlevare e tenere indenne ***** di quanto quest’ultima dovesse essere eventualmente condannata a corrispondere a parte attrice a titolo di risarcimento del danno, in conseguenza dei fatti descritti in atto di citazione e, per l’effetto, condannare i medesimi al pagamento di quanto eventualmente dovuto dalla casa di cura a favore di parti attrici. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa.”

Il Procuratore di ***** ha così concluso:

“ … In via principale, accertati e dichiarati i limiti di operatività di cui alla polizza assicurativa n. *****, assolvere ***** dalle domande avanzate dal dr. *****.

In via subordinata: nell’ipotesi di accertamento di una condotta colposa ascrivibile al dr. ***** e di un danno attoreo concretamente provato, qualificabile ai sensi di polizza come lesione personale, contenere la condanna in manleva di ***** nei limiti del pregiudizio oggettivamente accertato e delle condizioni di cui al contratto di assicurazione.

In ogni caso, con il pieno favore di spese e competenze di giudizio … ”

Il Procuratore di ***** e ***** ha così concluso:

“Rigettarsi le domande tutte proposte dalle attrici contro la ***** e, per l’effetto, rigettarsi pure la domanda di garanzia impropria proposta da quest’ultima nei confronti di ***** e di *****. Nella denegata ipotesi di accoglimento di una o più delle domande proposte dalle attrici contro *****, dichiararsi ***** ed ***** obbligate ad indennizzare l’assicurata ***** per le quote di coassicurazione di rispettiva pertinenza, solo ove ricorrano i presupposti previsti dal contratto assicurativo con essa stipulato e comunque nei limiti del massimale e di quant’altro contrattualmente pattuito. Con vittoria di spese di lite.”

MOTIVI DELLA DECISIONE

A) Le signore ***** entrambe Testimoni di Geova, allegano che:

a) nel gennaio 2005, dovendo sottoporsi a un intervento di isterectomia, presero contatto con il dr. *****, segnalato loro dal Comitato di assistenza sanitaria dei Testimoni di Geova di Torino quale medico rispettoso delle scelte terapeutiche dei pazienti appartenenti a tale fede (assoluto rifiuto delle emotrasfusioni);

b) il dr. *****, nel corso di una visita del gennaio 2005, fornì loro ampie rassicurazioni sul fatto che l’intervento cui dovevano essere sottoposte non comportava il rischio di dover essere trasfuse;

c) le attrici espressero reiteratamente al dr. ***** il proprio assoluto dissenso alle trasfusioni e formalizzarono tale volontà anche all’atto del ricovero (avvenuto il 13 gennaio 2005) presso la clinica *****, consegnando un documento da esse firmato (“dichiarazione di volontà”), in cui specificavano nel dettaglio le terapie a cui non intendevano sottoporsi;

d) gli esami ematici eseguiti il giorno del ricovero evidenziarono una accentuata anemia in entrambe le pazienti;

e) venerdì 14 gennaio la sig.ra ***** veniva sottoposta a intervento di isteroannessiectomia laterale sinistra, e la sig.ra ***** a intervento di isteroannessiectormia totale;

f) a seguito di complicanze manifestatesi a partire dalla mattina del 15 gennaio (forti dolori addominali, rilevante abbassamento dei valori di emoglobina e ematocrito), la sig.ra ***** venne sottoposta, verso le ore 21 dello stesso giorno, a intervento di revisione chirurgica e successivamente a trasfusioni ematiche (nonostante l’espresso dissenso manifestato dalla paziente, consapevole dell’aggravarsi del quadro clinico, solo poche ore prima dell’intervento);

g) a seguito di analoghe complicanze, la sig.ra *****, a partire dalle ore 21 circa del 15 gennaio, venne sottoposta “clandestinamente” (cioè senza dargliene comunicazione) a ripetute trasfusioni ematiche (nonostante l’espresso dissenso manifestato poche ore prima, verso le 17); e, successivamente (alle ore 0,10 del 16 gennaio), a intervento di revisione chirurgica; al quale fecero seguito nuove trasfusioni, parimenti “clandestine”.

Le attrici lamentano molteplici profili di responsabilità professionale del ***** e della casa di cura *****, segnatamente consistenti:

  • nella mancata adozione di trattamenti sanitari compatibili con le convinzionireligiose e con le scelte manifestate dalle pazienti;
  • nell’aver deciso di eseguire l’intervento nonostante le condizioni di grave anemia delle pazienti lo sconsigliassero (tanto più in considerazione del fatto che le stesse avevano manifestato reciso dissenso a ogni terapia trasfusionale);
  • nell’aver omesso di applicare il drenaggio (come peraltro richiesto dalle pazienti) durante il primo intervento, cosa che avrebbe evitato la raccolta ematica addominale;
  • nell’omessa assistenza postoperatoria, nell’aver tardivamente diagnosticato la complicanza emorragica e nell’essere tardivamente intervenuti con adeguata terapia farmacologica;
  • nella parziale e lacunosa compilazione delle cartelle cliniche ed infermieristiche, oltre che nella alterazione di dati in esse contenuti (segnatamente quelli relativi all’ora degli esami ematochimici);
  • nell’aver reciso un vaso arterioso durante l’intervento di revisione sulla sig.ra *****;
  • nell’aver sottoposto le pazienti a trasfusioni ematiche contro il loro dissenso ripetutamente e chiaramente manifestato (ed inoltre, almeno per talune trasfusioni, senza che ve ne fosse la necessità).

Sostengono inoltre la violazione, da parte dei convenuti, di numerose norme (costituzionali, legislative, deontologiche), tali da fondare una concorrente responsabilità extracontrattuale dei sanitari e della casa di cura.

Chiedono pertanto la condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni non patrimoniali, consistenti, per un verso, nella lesione biologica (fisica e psichica) causata dagli interventi di revisione chirurgica, resi necessari dalla negligenza e imperizia dei sanitari; e, per altro verso, nel pregiudizio derivante dalla indebita compressione della propria libertà e delle proprie convinzioni religiose, causato dalle non volute trasfusioni e dai riflessi di queste sull’identità personale e sui rapporti sociali (in particolare con gli appartenenti alla stessa fede).

B) il dr. *****

  • non contesta le circostanze di cui alle lettere a), b), e), e) precisando però di non aver mai escluso la possibilità di trasfusioni, ma di aver detto che l’intervento cui le attrici dovevano sottoporsi non richiedeva, normalmente, questo trattamento;
  • non contesta lo stato di anemia delle pazienti in data 13 gennaio, ma nega che esso fosse tale da sconsigliare l’intervento programmato;
  • sostiene di aver adeguatamente monitorato lo stato delle pazienti nel postoperatorio e nega che fossero necessarie (e, comunque, che sarebbero state efficaci) somministrazioni farmacologiche (in particolare di eritropoietina) dopo l’intervento del 14 gennaio;
  • nega di aver reciso un vaso arterioso durante il reintervento sulla sig.ra *****;
  • afferma la assoluta necessità delle trasfusioni per salvare la vita delle pazienti, tanto che tali trattamenti furono telefonicamente autorizzati dal Pubblico Ministero di turno, interpellato dai medici della casa di cura.

Conclude per il rigetto della domanda e chiama in giudizio il proprio assicuratore contro i rischi della responsabilità professionale, *****, per essere tenuto indenne in caso di soccombenza.

C) *****:

  • sostiene la correttezza dell’operato dei sanitari ch’ebbero in cura le attrici, i quali eseguirono con diligenza e perizia sia l’intervento programmato sia quello di revisione chirurgica, reso assolutamente necessario dalla grave emorragia postoperatoria;
  • afferma che il dissenso manifestato dalle sig.re ***** rispetto alle trasfusioni era stato prestato (e poteva dirsi attuale) solo con riferimento al primo intervento, e non con riguardo a quello di revisione che, in qualunque momento fosse stato effettuato, era tale da richiedere quel tipo di trattamento per la salvaguardia della vita delle pazienti;
  • sostiene che le trasfusioni erano state praticate in stato di necessità, al fine esclusivo di salvare la vita delle pazienti, bene che – anche in una prospettiva di bilanciamento con altri valori aventi dignità costituzionale, quale la libertà religiosa – deve considerarsi prevalente.

Conclude per il rigetto della domanda e, in caso di soccombenza, chiede di essere manlevata sia dal dr. ***** (quale esclusivo responsabile delle scelte terapeutiche e dei trattamenti sanitari), sia dalle proprie assicurazioni *****, ***** e *****, che all’uopo chiama in giudizio.

D) *****:

  • eccepisce che la garanzia assicurativa è prestata “in secondo rischio” rispetto ad altre assicurazioni eventualmente stipulate da strutture sanitarie;
  • rileva che la garanzia è limitata al risarcimento dei danni “per morte, per lesioni personali, per danneggiamenti a cose”, conseguenti a condotta colposa dell’assicurato; e che pertanto, nel caso di Specie, non essendovi lesioni in capo alle attrici, ogni (eventuale) diverso danno non può essere indennizzato;
  • nega di poter essere chiamata e rispondere per condotte colpose di soggetti diversi dall’assicurato.

Conclude per il rigetto della domanda.

E) ***** (conferitaria di ***** e *****) e *****:

  • eccepiscono che, ai sensi dell’art. 18 delle c.g.a., la polizza stipulata da ***** “opera sempre in eccesso alle assicurazioni dei medici e degli altri Operatori non direttamente dipendenti dal contraente/assicurato e comunque dopo la somma di lit. 1.500. 000.000 per sinistro e per persona, che restano a carico del personale qui indicato, a titolo di franchigia assoluta”;
  • evidenziano che la garanzia assicurativa è subordinata all’acquisizione di valido consenso informato del paziente, e non potrebbe quindi operare nel caso in cui la casa di cura venisse condannata per interventi eseguiti in difetto di tale condizione;
  • si associano, nel merito, alle difese dei convenuti dr. ***** e ***** contestando, in particolare, la consistenza e l’entità dei danni allegati dalle attrici.

Concludono per il rigetto delle domande attoree e, in via subordinata, per l’accertamento dell’obbligo di indennizzo unicamente in presenza dei presupposti sopra indicati.

*

La causa è stata istruita mediante prove testimoniali e CTU medico-legale.

*

  1. Le domande preposte dalle attrici.

1.1 Le signore ***** fanno valere, in primo luogo, laresponsabilità del dr. ***** e della casa di cura ***** perl’inadempimento del contratto d’opera professionale con essi concluso. I profili diresponsabilità dei convenuti, allegati dalle attrici sin dall’atto introduttivo,possono essere così riassunti:

  • inesatta informazione sull’esistenza di un rischio emorragico nell’intervento di isterectomia, e sul conseguente rischio trasfusionale;
  • mancata informazione sulla possibilità di effettuare l’autotrasfusione (modalità di recupero intra-operatorio del sangue, accettata dai Testimoni di Geova);
  • esecuzione dell’intervento in presenza di controindicazione costituita dai valori di emoglobina troppo bassi in entrambe le pazienti;
  • mancata adozione di terapia propedeutica agli interventi diretta a innalzare i valori di emoglobina;
  • mancata applicazione di drenaggio durante il primo intervento;
  • carenti assistenza e monitoraggio post-operatori alle pazienti;
  • tardiva diagnosi dell’emorragia;
  • recisione di una arteria nel corso dell’intervento sulla sig.ra *****;
  • inesatta e incompleta tenuta delle cartelle cliniche;
  • esecuzione di una terapia (trasfusioni di sangue) contro la volontà reiteratamente espressa dalle pazienti e senza informarla.

Quest’ultimo fatto in particolare, in quanto viola molteplici norme di legge costituzionale, ordinaria e di deontologia professionale, viene individuato anche quale autonoma fonte di responsabilità extracontrattuale.

Le attrici domandano il risarcimento del danno provocato dall’inadempimento e/o dall’illecito; e l’evento dannoso viene individuato nelle trasfusioni ematiche cui entrambe sono state sottoposte, indicate come evento che – oltre ad essere potenzialmente lesivo per la salute a causa del noto rischio di trasmissioni infettive – ha profondamente violato i diritti di libertà di autodeterminazione (che include il diritto di rifiutare trattamenti sanitari non voluti), di identità personale, di libertà religiosa.

1.2 Nella memoria ex art. 183 6° comma n. 1 depositata il 1° aprile 2008 le attrici hanno puntualizzato che “l’azione promossa ha ad oggetto il risarcimento dei danni inerenti e conseguenti ai diversi profili di responsabilità professionale (medico-sanitaria) relativi alla errata esecuzione dei n. 2 interventi chirurgici programmati … e forieri degli ulteriori n. 2 interventi di revisione degli errori (anch’essi eseguiti non correttamente)”. Il convenuto dr. ***** ha sostenuto che tali precisazioni introdurrebbero una domanda nuova o, quantomeno, amplierebbero in modo non consentito la domanda iniziale, che aveva ad oggetto unicamente l’esecuzione degli interventi programmati. L’eccezione è infondata, perché la precisazione di cui sopra non amplia affatto l’oggetto del contendere, né introduce elementi di fatto nuovi. L’iter sanitario delle attrici e stato compiutamente esposto nella citazione (dove vengono menzionati e descritti anche i re-interventi); i profili di doglianza sopra richiamati riguardano il complesso delle prestazioni eseguite dal dr. ***** e dalla casa di cura e l’evento dannoso è costituito – come detto – dalle trasfusioni non volute. Il riferimento ai due re-interventi (contenuto nella memoria attorea) come fonte di ulteriore responsabilità professionale costituisce dunque mera precisazione (in verità neppure necessaria) della domanda iniziale, i cui petitum e causa petendi sono rimasti immutati.

1.3 Nelle conclusioni contenute in comparsa conclusionale le attrici indicano le somme che ritengono debbano essere liquidate a titolo di danno morale (€ 100.000 per ciascuna) ed esistenziale (€ 100.000 per ciascuna). Premesso che le conclusioni cui fare riferimento sono quelle precisate all’udienza del 14.12.2010, dove il procuratore delle attrici aveva precisato richiamando l’atto di citazione, deve escludersi comunque che l’indicazione della somma da liquidare costituisca modifica della domanda. Oggetto della domanda è infatti il risarcimento del danno per la perdita di un “valore” (salute, libertà di autodeterminazione, libertà religiosa, …) che non è originariamente determinato in una somma di denaro. La domanda viene quindi correttamente e compiutamente proposta indicando il o i valori che si ritengono lesi dall’inadempimento o dall’illecito ed il tipo e l’entità della lesione subita. L’indicazione del corrispondente monetario di questi valori costituisce mera “proposta liquidatoria” che la parte rivolge al giudice, equiparabile alle altre difese, e non tocca gli elementi costitutivi della domanda.

1.4 Costituisce invece domanda nuova quella inserita nelle ultime righe delle conclusioni di cui alla comparsa conclusionale attorea (p. 57), ove si domanda la “ripetizione delle somme versate ai sanitari convenuti a titolo delle prestazioni sanitarie per cui è causa”. Si tratta infatti di richiesta mai avanzata in nessuno dei precedenti scritti difensivi.

  1. Il contratto d’opera professionale e il suo oggetto.

2.1 Poiché la domanda si fonda sulla responsabilità contrattuale dei convenuti, le attrici hanno l’onere di provare, in primo luogo, l’esistenza e l’oggetto del contratto d’opera professionale stipulato con il dr. ***** con la casa di cura *****. Per quanto riguarda il rapporto col dr. *****, è certamente pacifico che il medico abbia visitato le attrici in vista dell’isterectomia cui entrambe dovevano essere sottoposte (che venne poi da lui stesso eseguita). Per comprendere i termini esatti dell’accordo va però sottolineato che il dr. ***** ben conosceva “la sensibilità e le esigenze dei pazienti Testimoni di Geova” (comparsa risposta *****, p. 4). E che, comunque, questa sensibilità e queste esigenze vennero a lui chiaramente esposte nella visita del 7 gennaio 2005: la sig.ra *****, in presenza dei rispettivi mariti, chiarirono le personali motivazioni che le inducevano a rifiutare nel modo più assoluto le trasfusioni di sangue; e il dr. ***** le rassicurò affermando che non ci sarebbe stato bisogno di trasfusioni (1) . Il contratto d’opera fra le attrici e il convenuto si perfeziona dunque con un oggetto ben preciso, che non è limitato all’intervento di isterectomia, ma si estende all’esecuzione di tale intervento con modalità compatibili con le convinzioni religiose e con le scelte terapeutiche delle pazienti: evitare assolutamente il ricorso a trasfusioni ematiche.

2.2 Per quanto riguarda il rapporto fra le attrici e *****, va anzitutto chiarito – in risposta alle difese della società convenuta – che l’oggetto dell’obbligazione assunta dalla casa di cura non può ritenersi limitato alle prestazioni “para-alberghiere” (di alloggio, ristorazione, organizzazione assistenza, sicurezza, etc.), con assoluta irresponsabilità rispetto alle prestazioni strettamente mediche assunte, unicamente, dai sanitari non legati da rapporto di dipendenza con la casa di cura. Questa impostazione e frutto di una riduttiva e non condivisibile visione dei rapporti fra il paziente e l’ente ospedaliero. E’ pacifico, anzitutto, che la accettazione del paziente – a fini di ricovero o di visita ambulatoriale – in una struttura ospedaliera (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria, comporti la conclusione di un contratto atipico, definibile come prestazione d’opera di spedalità (2). L’oggetto del contratto non si limita affatto alla fornitura di servizio alberghiero, ma si estende a una serie di altre prestazioni quali la messa a disposizione di personale medico e paramedico, di medicinali e delle attrezzature necessarie. Va qui sottolineato come esista uno stretto vincolo di interdipendenza fra la prestazione contrattuale (come sopra descritta) dell’ente ospedaliero e quella prettamente medica; quest’ultima infatti che può essere assunta da un medico dipendente o legato da vincolo di collaborazione con la casa di cura, ma anche da libero professionista che operi presso quella clinica in virtù di una convenzione – costituisce, per così dire, la ragione giustificativa di tutta la prestazione tipica della casa di cura: non vi sarebbe alcun contratto di spedalità se il paziente non avesse necessità di fruire di una prestazione sanitaria in senso stretto. Sotto altro profilo, è indubitabile che i benefici economici della casa di cura privata, ossia l’utile dell’attività di impresa, provengano sempre e comunque dalle necessità di diagnosi o di cure mediche dei pazienti, e non certo da loro intenti di villeggiatura o simili; ciò vale senza che si possa dar rilievo alle colorazioni puramente nominalistiche del contenuto delle prestazioni, le quali in ogni caso si connotano eminentemente per la loro natura sanitaria: è infatti arduo supporre che chicchessia intenda fruire di tali “prestazioni alberghiere” se non – appunto – a causa delle sue esigenze sanitarie. Sarebbe dunque del tutto priva di giustificazione economica, ancor prima che giuridica, la pretesa di escludere dal rischio d’impresa le valutazioni concernenti il contenuto delle prestazioni sanitarie alle quali quelle “alberghiere” sono indissolubilmente preordinate e collegate anche teleologicamente e funzionalmente. Per questa ragione i medici e paramedici che operano nella struttura, indipendentemente dal tipo di vincolo che li leghi all’ente ospedaliero, possono essere considerati soggetti della cui opera il debitore (casa di cura) si avvale per l’attuazione del rapporto obbligatorio. La responsabilità dell’ente ospedaliero trova allora fondamento non tanto nella colpa (nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza su di essi), quanto nel rischio connaturato all’utilizzazione di terzi nell’adempimento dell’obbligazione (art. 1228 c.c.). Questa responsabilità e questo rischio sussistono pienamente anche quando il medico operante sia stato direttamente scelto dal paziente (e sia, per così dire, estraneo alla organizzazione della casa di cura): si sottolinea infatti, per un verso, che la prestazione di spedalità, proprio nel suo contenuto più caratterizzante, non potrebbe essere adempiuta senza l’apporto del medico, per quanto libero professionista e non dipendente dell’ente ospedaliero; e per altro verso che la possibilità per il medico di effettuare “ingerenze dannose” sul paziente è dovuta al fatto che egli (sia pure occasionalmente) operi nella struttura ospedaliera (e con il pieno consenso della stessa) sul paziente ivi ricoverato. Nel caso di specie poi sussiste un elemento ulteriore che non consente alla casa di cura di opporre la propria “estraneità” agli inadempimenti lamentati dalle attrici: queste ultime infatti si dolgono anche di una carente assistenza e di un inadeguato monitoraggio post-operatori (che hanno ritardato la diagnosi delle emorragie in corso); dunque di prestazioni che indubitabilmente rientrano – anche in base alla riduttiva e non condivisibile prospettiva proposta da ***** – fra quelle “proprie” della casa di cura;  tanto più ove si consideri che i medici preposti ai servizi di guardia (dr. ***** dr. ***** dr.ssa *****) erano all’epoca legati da contratti di collaborazione continuativa con ***** (3). Chiarito dunque che anche la casa di cura assume in proprio e risponde anche delle prestazioni mediche, va ulteriormente rilevato come l’oggetto e i limiti della prestazione professionale fossero stati definiti con chiarezza anche nei rapporti fra le attrici e la casa di cura. Al momento della loro accettazione le pazienti firmarono le dichiarazioni di volontà (doc. 8 e 9 attrici) allegate alle rispettive cartelle cliniche, in cui dichiaravano “di rifiutare categoricamente qualsiasi trattamento sanitario che richieda l’uso di sangue intero o dei suoi componenti principali…”. Anche nei moduli di consenso informato all’anestesia (doc. 10, 11 attrici) le pazienti specificavano di “non consentire a trasfusioni per motivi religiosi”. Dunque, anche il contratto concluso con la casa di cura al momento dell’accettazione aveva come oggetto l’esecuzione dell’intervento di isterectomia senza il ricorso a terapie trasfusionali.

2.3 Chiarito l’oggetto del rapporto intercorso fra le odierne parti processuali, occorre ora verificare se le prestazioni sanitarie siano state adempiute, ricordando che l’onere di provare il corretto adempimento incombe sui convenuti (4); e occorre poi verificare se gli inadempimenti eventualmente accertati abbiano avuto efficacia causale sull’evento dannoso (trasfusioni di sangue cui le attrici sono state sottoposte). Queste considerazioni chiariscono altresì come sia parziale e fuorviante la sola prospettiva del consenso/dissenso alle trasfusioni e dello stato di necessità, su cui insistono le difese dei convenuti (in particolare della casa di cura). L’esecuzione di trasfusioni non volute è infatti uno solo dei profili di inadempimento allegati dalle attrici; ed è, al tempo stesso, l’evento dannoso causato da una cospicua serie di altri inadempimenti. E’ ben vero che la prestazione sanitaria è pur sempre una prestazione di mezzi, onde l’obbligazione dei convenuti deve essere correttamente intesa nel senso di eseguire gli interventi di isterectomia adoperandosi altresì per evitare di dover ricorrere alla “estrema” terapia salvavita delle trasfusioni; ed è vero che l’essersi impegnati a evitare le trasfusioni non comporta inadempimento per il sol fatto che le trasfusioni siano state poi effettuate. Inoltre il dissenso alle trasfusioni inizialmente manifestato dalle pazienti deve senz’altro essere verificato in corso di rapporto, per accertare se permanga attuale o se venga meno in ragione dell’evolversi della situazione patologica. Ma il punto centrale dell’indagine è quello di accertare se il dr. ***** e ***** abbiano operato con diligenza, prudenza e perizia professionali per l’adempimento del contratto d’opera sanitaria che contemplava – fra l’altro – il netto rifiuto delle terapie trasfusionali.

 

  1. Le prestazioni eseguite dai convenuti.

3.1 É pacifico fra le parti che vi fosse indicazione all’intervento di isterectomia (5). Le attrici si dolgono però del fatto che tale intervento sarebbe stato concretamente eseguito in presenza di una controindicazione, consistente nei bassi valori di emoglobina, tale da sconsigliare l’esecuzione, in quel momento, di un’operazione di per sé comportante il rischio di elevate perdite ematiche. Questa affermazione trova però radicale smentita nelle valutazioni dei CTU (che le attrici non sottopongono a specifica critica): “su di un piano prettamente clinico, nella fattispecie non sussisteva alcuna controindicazione all’attuazione di un tale approccio terapeutico, trovandosi entrambe le pazienti in ottime condizioni di salute. Nè in tal senso era da assegnare una qualche valenza preclusiva al fatto che la signora ***** fosse portatrice di una protesi valvolare cardiaca, posto che ciò richiedeva unicamente, come di fatto eseguito, la sostituzione dell’anticoagulante da lei cronicamente assunto (Sintrom) con un farmaco idoneo a consentirle di affrontare la fase chirurgica (Fraxiparina). Peraltro l’assetto coagulativo documentato nell’immediata fase pre-operatoria è risultato del tutto regolare, con valori non significativi per un maggior rischio emorragica”. Ed ancora: “entrambe le pazienti presentavano un assetto emocoagulativo pre- operatorio che, nonostante le manifestazioni menorragiche perduranti da tempo, era tale da permettere l’esecuzione in elezione dell’isterectomia”. Dunque esisteva un generico rischio emorragico legato alla tipologia di intervento; questo rischio rendeva consigliabile – come meglio si chiarirà in seguito – una terapia farmacologica preventiva diretta a elevare i valori di emoglobina. I valori delle attrici non erano però tali da sconsigliare l’esecuzione dell’intervento, né da esporle a un rischio emorragico più elevato rispetto a quello normalmente riscontrabile in questa tipologia di interventi.

3.2 Le attrici lamentano di non essere state informate in modo corretto sui rischi emorragici legati all’intervento cui si dovevano sottoporre. Premesso che l’onere di dimostrare di aver fornito informazioni esaustive e corrette grava sui sanitari, si osserva come tale onere non sia stato assolto dai convenuti e come, anzi, siamo emersi elementi a dimostrazione della condotta superficiale, dal punto di vista informativo, del dr. *****. É necessario chiarire che – come affermato dai CTU, non contraddetti sul punto da rilievi contrari dei periti di parte l’isterectomia non è esente da rischi emorragici, che hanno una incidenza variabile dal 3 al 6% dei casi (6). Gli obblighi informativi dei sanitari devono essere concretamente definiti tenendo conto non solo di questa (per nulla trascurabile) il percentuale di rischio; ma considerando la portata del tutto particolare che questo rischio assumeva in considerazione della scelta – chiaramente esplicitata dalle pazienti – di non far ricorso a terapie trasfusionali. Certamente il medico non avrebbe mai potuto garantire alle pazienti la assoluta esclusione del rischio emorragie e la assoluta impossibilità di dover ricorrere a trasfusioni; avrebbe però dovuto porre particolare attenzione nell’informare le pazienti circa la reale consistenza del rischio in questione e avrebbe potuto assicurare di porre in atto tutte le misure preventive/terapeutiche idonee a contenere la possibilità di un rischio trasfusivo, che non poteva essere completamente abolito. L’istruttoria svolta (in particolare le deposizioni di *****, coniugi delle attrici, presenti alle visite pre operatorie) consente invece di affermare che tali informazioni non vennero fornite dal dr. *****; o, addirittura, che vennero fornite informazioni inesatte in merito al rischio emorragico (7).

3.3 Ulteriore profilo di negligenza e imperizia nell’operato dei sanitari si rinviene nel non aver posto in essere quei trattamenti pre-operatori che sarebbero stati idonei (non a scongiurare, ma) a ridurre sensibilmente il rischio emorragico (e, quindi, il rischio di dover far ricorso a quel trattamento che le pazienti espressamente rifiutavano). Fra queste misure non può annoverarsi – come sostengono le attrici – il recupero intraoperatorio del sangue, poiché, considerata la tipologia di intervento (coinvolgente la vagina, normalmente contaminata da microrganismi patogeni), il sangue proveniente dalla zona operatoria era a forte rischio di essere infetto (8). Invece del tutto possibile e privo di controindicazioni sarebbe stato l’impiego di farmaci idonei ad elevare i valori dell’ematocrito, cosi da incrementare la “soglia di sicurezza emorragica” nell’ipotesi di sanguinamenti intra o postoperatorio (9). La doverosità, nel caso di specie, di un simile trattamento va vista, ancora una volta, in relazione al rifiuto delle trasfusioni manifestato dalle pazienti: proprio perché i medici si erano impegnati ad eseguire l’isterectomia nel rispetto di tale rifiuto, era doveroso impiegare tutti quei mezzi che, secondo diligenza e perizia, sarebbero stati idonei a ridurlo nella misura massima possibile.

3.4 Ulteriore oggetto di censura sono le modalità esecutive degli interventi di isterectomia, posti in atto – secondo le attrici – in modo da provocare le emorragie; e addirittura, nel caso della sig.ra ***** con sezione di un vaso arterioso. Prima di esaminare le risultanze della CTU, è opportuno richiamare la ripartizione degli oneri probatori di cui si è già detto sopra (punto 2.3), per porre in evidenza che la prova perplessa sul punto si risolve necessariamente in danno della parte onerata (i sanitari convenuti). Va anzitutto osservato che i CTU hanno escluso che i sanguinamenti abbiano tratto origine dall’attività di lisi delle numerose aderenze rinvenute dal chirurgo. Queste manifestazioni erano infatti dislocate (e se ne dà atto nelle relazioni degli interventi) in porzioni del campo operatorio ben distinte dalle fonti emorragiche post-operatorie. I periti d’ufficio ritengono pertanto che verosimile causa delle emorragie sia stata la esecuzione di procedure emostatiche non del tutto efficienti. Essi accreditano poi un’altra causa plausibile delle emorragie, e cioè la possibilità – sostenuta dal periti dei convenuti – che, “a fronte di una sutura apparentemente eseguita con buona solidarizzazione dei tessuti ed in assenza di sanguinamenti intra-operatori, questi ultimi possano poi manifestarsi successivamente al ripristino di valori pressori più elevati nel post-operatorio”. L’esistenza di una possibile causa alternativa non vale ad escludere la responsabilità laddove, come nel caso in esame, non si possa dire raggiunta la piena prova circa l’esecuzione corretta del trattamento medico. Anche perché esiste un ulteriore elemento, di ordine presuntivo, che induce ad affermare la verosimile esistenza di un errore medico nelle procedure emostatiche: la “suggestiva incidenza statistico-epidemiologica che connota la fattispecie per la ricorrenza della medesima complicanza di mano chirurgica in entrambe le pazienti operate dal dott. ***** nella medesima giornata” (CTU p. 29). In altri termini: a fronte di una incidenza percentuale della complicanza emorragica del 3 – 6% nell’isterectomia, appare significativo che la medesima complicanza si sia verificata su due pazienti operate dallo stesso medico nella stessa giornata. E dunque, pacifica l’origine iatrogena delle emorragie, in difetto di prova esaustiva circa l’espletamento di adeguate procedure emostatiche (10), deve affermarsi la responsabilità dei sanitari in relazione al verificarsi di questa complicanza.

3.5 Deve invece escludersi che la mancata applicazione dei drenaggi costituisca condotta imperita, e, comunque, che tale condotta si ponga in rapporto causale con le emorragie. I CTU (p. 29) osservano che la “corrente impostazione clinica prevede l’uso di questi dispositivi in caso di cavità infette 0 in caso di campi operatori complessi per i quali non vi è materiale certezza emostatica”; e aggiungono che “per certo i drenaggi non sarebbero valsi ad evitare la formazione della raccolta ematica addominale, posto che non di rado la posizione dei drenaggi non consente una efficace evacuazione del contenuto endoperitoneale e che sovente vanno incontro ad otturazione: evenienza, quest’ultima, che riduce significativamente l ’efficienza dei drenaggi per la tempestiva segnalazione di emorragie interne”. Dunque la mancata collocazione dei drenaggi non può considerarsi modalità esecutiva imperita dell’intervento di isterectomia. Ritiene però questo giudice che sia condivisibile l’osservazione dei consulenti di parte attrice secondo cui, in una prospettiva di “medicina senza sangue”, questi dispositivi avrebbero potuto assolvere a una apprezzabile funzione di “allerta”, segnalando la presenza di una eccessiva quantità di sangue in zona operatoria e, dunque, di una possibile emorragia; questo al fine di consentire una diagnosi (e un eventuale re-intervento) maggiormente tempestivi, come si dirà subito.

3.6 Le attrici si dolgono del fatto che il monitoraggio e l’assistenza nel post intervento sarebbero stati insufficienti, e tali da indurre una diagnosi tardiva dell’emorragia in atto. Per valutare correttamente le risultanze istruttorie su questo punto è necessario premettere quanto importanti fossero – in un contesto di radicale rifiuto delle trasfusioni – il monitoraggio attento e tempestivo delle pazienti operate. Osservano i CTU (p. 26) che “la letteratura e la clinica hanno proposto negli anni un approccio operativo volto a fronteggiare le peculiari situazioni sottese alla non disponibilità della pratica trasfusiva, fondamentalmente basato sui seguenti principi: tempestività dell’approccio chirurgico in caso di sanguinamento attivo …”. E proprio “nella prospettiva di una “medicina senza sangue” trovava qui precisa indicazione lo stretto monitoraggio post-operatorio delle pazienti al fine di cogliere con la massima tempestività eventuali manifestazioni cliniche indicative di un decorso non ordinario” (p. 30) (11). I convenuti hanno inteso assolvere all’onere di provare di  aver prestato adeguata assistenza attraverso le deposizioni dei medici in servizio di guardia nei giorni degli interventi. Il dr. ***** era legato da contratto di collaborazione con *****, dove prestava servizio di guardia (12); egli conserva “solo un generico ricordo del fatto che le pazienti ***** e ***** venivano seguite assiduamente dai medici che le avevano operate e anche da me come medico di guardia, pur non essendo mie pazienti”; non ricorda invece quando sia stato contattato il dr. ***** e quando sia arrivato in clinica. Il dr. ***** – anch’egli legato da contratto di collaborazione con la stessa clinica – ha dichiarato che le pazienti vennero “strettamente monitorate” il giorno dell’intervento e quelli successivi, peraltro riportandosi sul punto alle risultanze della cartella clinica (13). Egli poi riferisce circostanze che si riferiscono alla mattina di sabato 15, a partire dalle 11,30 circa (14), senza nulla dire di quanto avvenuto nel pomeriggio e nella notte immediatamente successivi all’intervento. La dr.ssa ***** era invece di guardia nel pomeriggio di sabato 15, quando le complicanze si erano già ampiamente manifestate; dalle sue dichiarazioni si comprende che il suo coinvolgimento precede di poche ore il re- intervento sulla sig.ra ***** (15). Nessuna di queste testimonianze elide il decisivo dato documentale costituito dalle cartelle cliniche, da cui emerge la totale mancanza di annotazioni fra il rientro in reparto al termine dell’intervento, nel pomeriggio del 14 gennaio, e i rilievi clinici della mattinata del 15 gennaio. Da segnalare questi rilievi dei CTU: “mentre per la signora ***** risulta una registrazione della pressione arteriosa (80/50) durante la notte, ad orario imprecisato, nel caso della signora ***** il primo riscontro di stato ipotensivo è collocabile nelle prime ore della mattina del 15.01; per entrambe le pazienti furono poi richiesti esami ematochimici che furono espletati alle ore 9:35 circa. Questi ultimi documentarono il drastico decremento, specie per la signora ***** dei valori dell’ematocrito” … “Per quanto concerne la signora ***** la disponibilità della cartella infermieristica, che di contro non è allegata alla cartella clinica della signora ***** consente inoltre di rilevare che, evidentemente allertati dai parametri registrati intorno alle 9:35, il personale sanitario si attivò ripetutamente per richiedere l’intervento dei medici al letto della paziente che giunsero alle ore 11:30 circa, il dott. ***** ed alle ore 13:45, il dott. *****” (16). Alla luce di questi dati deve escludersi che l’assistenza e il monitoraggio post-operatori siano stati improntati a quella sollecitudine ed attenzione che il caso specifico e i limiti alle trasfusioni espressamente posti dalle pazienti richiedevano.

3.7 Il carente monitoraggio è stato dunque causa di un ritardo nella diagnosi di emorragia. Ma ulteriore profilo di negligenza si ravvisa nella scelta dei sanitari di ritardare l’esecuzione degli interventi di revisione. Si riportano sul punto i rilievi del CTU – non contraddetti da alcun elemento e non sottoposti a specifica critica dai convenuti – che questo giudice condivide pienamente: “già nella prima parte della mattinata del 15.01 sussistevano validi elementi per ipotizzare la ricorrenza di un sanguinamento post-chirurgico, la cui ricorrenza fu poi effettivamente indagata, ancorché non con l’urgenza dovuta, mediante la prescrizione di un approfondimento ecografico. L’indagine, eseguita in tarda mattinata, documentò la presenza in sede endoaddominale di una massa ematica, in parte coagulata che, a quel momento, aveva raggiunto in entrambe le pazienti un volume decisamente considerevole (circa cm 9, 6×9, 9×6, 9, per la ***** e di circa cm 10x7x4, per la *****). A questo punto ogni dubbio circa i motivi di decadimento dei valori dell’ematocrito poteva dirsi fugato, venendo così a concretizzarsi una condizione meritevole di approccio chirurgico per le seguenti motivazioni:

  • visto l’andamento dell’anemizzazione e l’entità della perdita ematica era ben poco probabile che il sanguinamento potesse arrestarsi spontaneamente;
  • considerato il volume del coagulo intra-addominale era prospettabile che le pazienti incorressero nel rischio di una Coagulazione Intravasale Disseminata (DIC) per “sequestro ” di fattori della coagulazione, con ulteriore aggravamento prognostico;
  • in presenza di un sanguinamento attivo ogni forma di supporto alternativo all’emotrasfusione (es. eritropoietina, ferro ecc.) possedeva una efficacia del tutto limitata e certamente non tale da permettere la stabilizzazione clinica delle pazienti in assenza di intervento chirurgico e di reintegro della quota ematica perduta”.

In altri termini: i medici convenuti – che erano colpevolmente giunti in ritardo a diagnosticare l’emorragia interna – nella tarda mattinata del 15 gennaio avevano a disposizione una serie di elementi che li avrebbero dovuti indurre a re-intervenire immediatamente; tanto più in considerazione del rischio crescente che correvano le pazienti a fronte di una scelta attendista; e del fatto che non esistevano elementi che potessero far sperare in una risoluzione spontanea dell’emorragia. Va anche sottolineato che questa scelta attendista ha avuto – con forte grado di probabilità efficienza causale nel verificarsi dell’evento dannoso, almeno per quanto riguarda la sig.ra *****. Questa infatti nella tarda mattinata di sabato 15 aveva valori di emoglobina ancora “discreti”, tali da rendere non inevitabile l’esigenza di trasfusioni in caso di reintervento (17).

*

Le considerazioni che precedono consentono di individuare molteplici profili di negligenza, imprudenza, imperizia nell’operato dei sanitari ch’ebbero in cura le signore ***** *****; i quali debbono considerarsi inadempienti sia rispetto agli obblighi informativi (punto 3.2), sia rispetto all’obbligazione assunta (di eseguire gli interventi di isterectomia evitando, per quanto possibile, il ricorso a trasfusioni di sangue). Tutti gli inadempimenti sopra trattati sono causalmente legati al verificarsi delle complicanze emorragiche (in particolare quelli di cui a punti 3.3 e 3.4), ovvero alla necessità di intervenire con trasfusioni ematiche pe salvare la vita delle pazienti (in particolare quelle di cui ai punti 3.6 e 3.7).

  1. Le trasfusioni e la validità del dissenso manifestato dalle attrici.

4.1 Gli inadempimenti sopra individuati consentono di affermare la responsabilità del medico e dell’ospedale convenuti anche a prescindere dalla questione della legittimità o meno delle trasfusioni subite dalle attrici. D’altra parte tale ultima questione non può essere correttamente affrontata se non alla luce di tutte le considerazioni svolte sopra. In una prospettiva contrattuale le trasfusioni sono state illegittime, perché frutto dell’inadempimento dei convenuti all’obbligazione di intervenire evitando (nei limiti del possibile) quel tipo di trattamento. In una prospettiva extracontrattuale – che ha senso affrontare solo se si ritenga che le trasfusioni si collochino al di fuori della prestazione concordata, come scelta “estrema” dei medici, diretta a evitare la morte delle pazienti, e quindi non suscettibile di valutazione in termini di adempimento/inadempimento – due sono i profili che vanno approfonditi: il primo relativo all’esistenza e ai limiti di un diritto a rifiutare le cure; il secondo relativo ai limiti di operatività dell’art. 2045 c.c. (invocato dai convenuti) sullo stato di necessità.

4.2 L’astratta esistenza di un diritto a rifiutare le cure e del tutto pacifica, trattandosi di diritto costituzionalmente riconosciuto (art. 32 2° comma Cost.). Il problema è piuttosto quello della reale efficacia del “non consenso” manifestato dal paziente, efficacia che deve essere indagata caso, per caso sia sul piano cronologico che su quello contenutistico-formale. Ritiene questo giudice che, nel caso di specie, non possano sussistere seri dubbi sul fatto che, al momento in cui vennero trasfuse, le sig.re ***** ***** non intendevano sottoporsi a un simile trattamento. Valgano le seguenti considerazioni:

a) la chiara e univoca manifestazione di volontà manifestata al dr. ***** al momento della visita pre-operatoria del 7 gennaio (di cui si è detto sopra), e ulteriormente espressa attraverso le dichiarazioni firmate consegnate all’atto del ricovero (doc. 8, 9 attrici) sono un primo – da solo insufficiente, ma significativo – indice per indagare la volontà delle attrici: attraverso queste dichiarazioni non si esprimeva una volontà estemporanea, ma una volontà frutto di una scelta di vita pluriennale; tanto che questa scelta – come riferiscono i testi ***** – venne ribadita al personale della casa di cura in ogni occasione possibile (18).

b) Il rifiuto è stato ribadito dalle pazienti nel tardo pomeriggio di sabato 15, quando le loro condizioni erano gravemente compromesse (si è detto sopra che avrebbero già dovuto essere sottoposte da parecchie ore a intervento di revisione) ed erano in reale pericolo di vita. Questo dato emerge documentalmente dalle annotazioni in cartella clinica (19), ed è stato puntualmente confermato dai testi dr. *****(20) (le dichiarazioni si riportano in nota, con sottolineatura dei passaggi da cui emerge la attualità del pericolo di vita al momento in cui le pazienti ribadirono il dissenso alle trasfusioni).

c) Le trasfusioni sono avvenute a distanza di poco tempo da queste manifestazioni di volontà: la sig.ra ***** (che aveva sottoscritto il dissenso alle ore 18) viene operata e quindi trasfusa, in stato di incoscienza, fra le 20 e le 22,30; la sig.ra ***** che aveva sottoscritto il dissenso alle ore 17), viene trasfusa a partire dalle ore 21. Non risulta che in questo lasso di tempo le condizioni delle pazienti si siano significativamente modificate rispetto a quelle (già molto gravi e con concreto pericolo di vita) in cui si trovavano poche ore prima.

d) Del tutto non condivisibile è l’affermazione della difesa delle assicurazioni ***** e *****, secondo cui la sig.ra ***** essendo cosciente al momento in cui venne trasfusa, avrebbe manifestato un implicito consenso alla terapia, poiché non avrebbe fatto opposizione ne’ avrebbe reagito. Risulta in cartella clinica che al momento in cui venne trasfusa la sig.ra ***** (di 53 anni all’epoca dei fatti) era “tachicardica, anemica, dispnoica”: non si comprende che tipo di reazione pretenda la difesa delle terze chiamate da parte di una paziente stremata e con difficoltà sin anche a respirare; né si comprende in cosa consista “l’inequivoco consenso agli atti trasfusionali” da parte di chi, fino a poco tempo prima e con coerente lucidità, aveva dichiarato e sottoscritto un motivato diniego.

Deve concludersi che le sig.re ***** vennero sottoposte a trasfusioni nonostante il loro espresso e pienamente valido dissenso a questo trattamento.

4.3 Sostengono da ultimo i convenuti di aver agito in stato di necessità, per salvare le pazienti dal pericolo attuale di morte. Tuttavia l’art. 2045 c.c. non può essere invocato nel caso di specie, per diversi ordini di ragioni: in primo luogo perché questa norma non si applica qualora l’esimente sia invocata da colui che, col proprio comportamento volontario abbia causato il pericolo. Nel caso di specie, per le considerazioni svolte al punto 3, il pericolo di vita per le attrici è stato causato da un complesso di condotte del tutto volontarie, che integrano colposo inadempimento agli obblighi assunti. In secondo luogo, e comunque, l’esimente in parola non vale a consentire trattamenti sanitari che vengano consapevolmente rifiutati dal paziente; in caso contrario infatti una norma di legge ordinaria finirebbe per prevalere sul diritto costituzionalmente garantito a rifiutare le cure. Sui limiti applicativi dell’art. 2045 c.c. (0 dell’art. 54 c.p.) si è più volte chiaramente espressa la Suprema Corte, evidenziando come lo stato di necessità operi soltanto quando il paziente non sia in grado di prestare una valida manifestazione di volontà: “Dall’autolegittimazione dell’attività medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5 c.c., non può trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico possa, di norma ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni di cui all’art. 54 c.p. ), intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso – immune da vizi e, ove comporti atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine pubblico ed al buon costume – si evince, in generale, dall ’art. 13 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale – nel cui ambito deve ritenersi compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica – escludendone ogni restrizione, se non per atto motivato dell‘autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Per l’art. 32 c. 2 della Costituzione, soprattutto, nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge “, la quale “non può, in ogni caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (in attuazione di tali principi la l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, ha stabilito che “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari”, salvi i casi espressamente previsti; l’art. 33 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale, ha quindi ribadito, più in generale, che “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono, di norma, volontari “)” (Cass. 15.1.97 n. 364). Anche sotto questo profilo mancavano quindi i presupposti per invocare lo stato di necessità, giacché – come si è chiarito sopra – la manifestazione di dissenso al trattamento sanitario era stata espressa da pazienti lucide, informate e consapevoli della situazione e dei rischi che correvano al momento in cui la terapia venne loro proposta.

4.4 Così inquadrato il problema, è agevole comprendere che la “autorizzazione” del Pubblico Ministero a cui i convenuti si appellano non può valere a escluderne la responsabilità. In primo luogo perché – com’è evidente – non si tratta affatto di una “autorizzazione alle trasfusioni”, che il Pubblico Ministero non potrebbe mai dare (24); si è trattato invece di un parere che il sostituto procuratore di turno ha fornito ai medici, sulla base dei dati di fatto da essi riferitigli. Tale parere peraltro ha riguardato esclusivamente l’aspetto “penalistico” della vicenda, e non si è esteso a valutare eventuali profili di responsabilità civile: il magistrato ha correttamente informato i medici che, di fronte a una situazione di pericolo di vita, se non avessero proceduto a trasfusioni rischiavano una imputazione per il reato di omicidio colposo e che, per converso, in quella medesima situazione potevano “procedere a trasfusioni senza rischiare incriminazioni”. Va detto poi che – stando a quanto riferito dal magistrato – non risulta ch’egli sia stato compiutamente informato sulla situazione e, in particolare, sul fatto che le pazienti, quando già erano in pericolo di vita, avevano nuovamente rifiutato di sottoporsi a trasfusioni (25). Il parere del sostituto procuratore è stato quindi fornito sull’errato presupposto della mancanza di un cosciente e attuale dissenso delle pazienti. In ogni caso, il parere del magistrato – che non è istituzionalmente coinvolto nella vicenda – non si può sostituire alla valutazione dei sanitari, che sono i soli soggetti in possesso di tutti gli elementi e le informazioni per ricostruire la reale volontà del paziente”. E comunque, con riferimento al caso specifico, ai sanitari non è tanto imputabile il fatto di aver ricostruito in termini errati questa volontà (ipotetica) del paziente, quanto il fatto di aver operato nonostante una espressa e contraria volontà dello stesso.

  1. Responsabilità del dr. ***** e di *****.

Sulla base delle considerazioni che precedono deve essere affermata la responsabilità sia del dr. ***** che della casa di cura ***** per l’evento dannoso subito dalle attrici; evento che – come già chiarito – si sostanzi nelle non volute trasfusioni di sangue. A fronte delle difese del dr. ***** – che cerca di “chiamarsi fuori” dalla responsabilità affermando di non essere stato lui a ordinare le trasfusioni – non può che richiamarsi la complessiva ricostruzione della vicenda, per sottolineare che la responsabilità del medico convenuto dipende da una serie di condotte (in parte commissive e in parte omissive) inadempienti al contratto di prestazione d’opera professionale intercorso con le attrici, condotte che sono state il necessario e immediato antecedente delle trasfusioni. Con riferimento invece alla posizione della casa di cura, si richiamano interamente le considerazioni svolte al paragrafo 2.2 per ribadire che di tali fatti è responsabile, a titolo contrattuale, anche *****. Tale società chiede l’accertamento delle “rispettive porzioni di responsabilità delle parti convenute, limitando l’eventuale condanna alle accertate responsabilità, con esclusione, quindi, di qualsivoglia vincolo di solidarietà”. Si ritiene che il dr. ***** e la casa di cura siano responsabili in uguale misura del danno occorso alle attrici. E’ ben vero che gli inadempimenti accertati personalmente a carico del medico sono più gravi (attenendo al difetto di informazione, alla preparazione ed esecuzione degli interventi e al ritardo nell’intervento di revisione); tuttavia di questi inadempimenti deve rispondere personalmente anche la clinica (per le ragioni chiarite sopra); e, per altro verso, a carico della stessa sussistono inadempimenti di non secondario rilievo (attinenti alla assistenza e monitoraggio post operatori, al ritardo nel re-intervento, all’esecuzione di trasfusioni in difetto di consenso). Si ritiene quindi chele quote di responsabilità dei convenuti siano uguali. E’ appena il caso di dire che la pretesa della clinica di escludere il vincolo della solidarietà con il medico corresponsabile è infondata, stante il disposto dell’art. 2055 1° comma c.c. ***** propone inoltre domanda di manleva nei confronti (fra l’altro) del dr. ***** “quale esclusivo responsabile degli interventi di isterectomia delle cure prestate alle pazienti durante il post-intervento, degli interventi chirurgici di revisione e della decisione di effettuare le trasfusioni” (comparsa di risposta p. 19). A prescindere dalla infondatezza in fatto di queste affermazioni (poiché il dr. ***** non può dirsi l’unico soggetto responsabile dell’assistenza post-operatoria, né delle trasfusioni), la domanda di manleva è comunque infondata. E’ bene puntualizzare che detta domanda non è una domanda di regresso ex art. 2055 2° comma c.c., fondata cioè sull’avvenuto pagamento dell’intero da parte di uno dei debitori solidali e sulla (peraltro solo eventuale) affermazione di una maggior gravità della colpa dell’altro condebitore. Si tratta, invece, di una domanda di garanzia (propria, giacché unico è il fatto generatore di responsabilità della domanda principale e di quella di garanzia) con cui uno dei convenuti (la casa di cura) tenta di riversare sull’altro (il dr.*****) le conseguenze dell’inadempimento. La domanda non merita tuttavia accoglimento. Si è infatti chiarito che la re3ponsabilità della casa di cura trova giustificazione e fondamento nella prestazione da essa assunta nei confronti del paziente; la “prestazione dovuta” con il c.d. contratto di spedalità comprende (o, quantomeno, è inscindibilmente legata ad) una prestazione sanitaria in senso stretto, del cui adempimento la casa di cura è tenuta a rispondere; né si tratta di una responsabilità per fatto altrui, poiché essa trova fondamento non soltanto nella colpa professionale dell’operatore medico, ma anche nella assunzione da parte dell’ente ospedaliero di un preciso obbligo contrattuale che – proprio in virtù delle connotazioni Specifiche della prestazione c.d. alberghiera, del suo collegamento teleologico e funzionale con la prestazione sanitaria – rende l’ente ospedaliero responsabile anche dell’adempimento di quest’ultima prestazione. In definitiva, la responsabilità della casa di cura verso il paziente discende da una obbligazione contrattuale ch’essa ha volontariamente assunto nei suoi confronti, non, invece, dalla negligente esecuzione della prestazione medica. Non vi è quindi ragione per la quale uno dei debitori solidalmente obbligati debba garantire l’altro dalle conseguenze dell’inadempimento, e la domanda di cui trattasi deve essere respinta. Deve concludersi che entrambi i convenuti dr. ***** e *****, responsabilità nella stessa misura per i fatti oggetto di causa, sono solidalmente obbligati al risarcimento dei danni subiti dalle attrici.

  1. I danni subiti dalle attrici.

Le sig.re ***** sostengono di aver subito, a causa delle trasfusioni non volute, una serie danni non patrimoniali: in primo luogo consistenti in una invalidità temporanea causalmente legata all’inadempimento dei sanitari e alle esigenze di cura e terapia che ne sono conseguite; in secondo luogo legati alla compromissione della propria integrità psichica; in terzo luogo consistenti nelle ripercussioni sul piano del disagio esistenziale, sociale, religioso del trattamento cui sono state sottoposte.

6.1 Il danno da invalidità temporanea consiste nella protrazione del periodo di cure post-chirurgiche causato dagli inadempimenti di cui s’è detto sopra. Se le prestazioni sanitarie fossero state eseguite con diligenza e perizia, con elevato grado di probabilità non si sarebbero verificate le complicanze emorragiche e le loro sequele. Dunque le attrici avrebbero fruito di una “normale” riabilitazione post operatoria, secondo le caratteristiche proprie dell’intervento cui erano state sottoposte. Scrivono i CTU (e sul punto nessuna delle parti ha mosso obiezioni): “tenuto conto che la dimissione dopo un intervento laparotomico con decorso afebbrile, buone condizioni di sanguificazione e normale canalizzazione intestinale, avviene solitamente in I Vo Va giornata, quando è possibile rimuovere almeno parte dei punti di sutura. Specie nei casi di dimissione precoce è poi raccomandato riposo assoluto a letto o in poltrona per almeno altri 4 o 5 giorni, con graduale ripresa della normali occupazioni domestiche dopo 10/12 giorni. Normalmente la guarigione e la ripresa dell’attività normale, ancorché possa variare molto da soggetto a soggetto, può avvenire dopo 3-4 settimane dall’intervento”. Di conseguenza, perla sig.ra ***** è accreditabile:

– un periodo di inabilità temporanea assoluta dell’ordine di circa 10 giorni;

– un periodo di inabilità temporanea al 50 % dell’ordine di circa 15 giorni;

– un periodo di inabilità temporanea al 25 % dell’ordine di circa 15 giorni.

E per la sig.ra *****:

– un periodo di inabilità temporanea assoluta dell’ordine di circa 30 giorni;

– un periodo di inabilità temporanea al 50 % dell’ordine di circa 20 giorni;

– un periodo di inabilità temporanea al 25 % dell’ordine di circa 20 giorni

Questo danno può essere liquidato sulla base dei consolidati criteri equitativi di cui alle tabelle del Tribunale di Milano (adottate dall’Ufficio di Torino a far data dal giugno 2009), che prevedono il riconoscimento di € 88 per ciascun giorno di invalidità temporanea totale; e dunque:

sig.ra *****:

  • per 10 giorni di IT100% € 880
  • per 15 giorni di IT50% € 660
  • per 15 giorni di IT25% € 330

in totale € 1.870.

sig.ra ***** :

  • per 30 giorni di IT100% € 2.640
  • per 20 giorni di IT50% € 880
  • per 20 giorni di IT25% €440

in totale € 3.960.

6.2 L’esistenza di un danno biologico di tipo psichico non può ritenersi provata. I CTU ritengono “del tutto ragionevole ammettere che la trasfusione coatta possa aver rappresentato un evento in grado di provocare un significativo squilibrio nell’omeostasi psicologica delle Attrici”. Tuttavia altro è affermare la potenzialità lesiva di un certo evento, altro accertare – e il relativo onere è a carico della parte attrice – che tale evento abbia effettivamente prodotto un danno. A questo proposito non può che condividersi quanto osservano i CTU, secondo i quali (p. 39) “in una prospettiva medicolegale di attribuzione causale dell’allegata patologia psichiatrica non può non rilevarsi la mancanza di una storia clinica che le correli, sia cronologicamente che fisiopatologicamente, con i fatti per i quali è causa. Dal gennaio 2005 non risulta in effetti documentato in atti ne’ richiamato nelle relazioni tecniche di parte, alcun provvedimento diagnostico/terapeutico di carattere psichiatrico che in caso di una reale efficienza morbigena della vicenda qui discussa, non avrebbero potuto mancare”. Coerente e condivisibile è quindi la conclusione che “allo stato risulta difficilmente accreditabile la dipendenza causale di una condizione psichica della natura e dell’entità di quella attualmente riferita in assenza di qualsivoglia necessità terapeutica nel lungo volgere di 5 anni, intervallo intercorso fra la ricorrenza dei fatti di causa e la diagnosi psichiatrica”. Posto dunque che non sussistono postumi di tipo fisico che possano ricondursi alle emorragie post-operatorie e alle successive trasfusioni (il dato è pacifico), deve concludersi che non è stata provata l’esistenza di un pregiudizio biologico in nesso causale con la vicenda per cui è causa.

6.3 Deve invece riconoscersi il danno non patrimoniale consistente nelle ripercussioni che il non voluto trattamento sanitario ha prodotto nella sfera personale, nella vita sociale e familiare, nella coscienza religiosa delle attrici. E’ appena il caso di premettere che l’illecito di cui si discute ha inciso su diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti: il diritto di libertà personale, quello di identità religiosa, quello di rifiutare trattamenti sanitari non voluti. Ricorrono pertanto i presupposti per il riconoscimento del danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c. I parametri in base ai quali definire l’entità del pregiudizio concretamente sofferto si ritengono essere:

  • la sofferenza legata a un trattamento che ha contrastato le più radicali convinzioni religiose maturate e sedimentate nel corso di una esperienza di fede di molti anni (la sig.ra ***** è Testimone di Geova da 25 anni, la sig.ra ***** da 38); sul punto si richiamano le deposizioni rese da ***** (28);
  • la natura in certo modo “permanente” di questo danno, poiché la trasfusione ricevuta comporta la “convivenza”, vita natural durante, con il sangue del donatore;
  • la paura (più forte negli anni immediatamente successivi alle trasfusioni, e destinata ad affievolirsi nel tempo), legata alla possibilità che le trasfusioni siano state causa di contagio; anche questo è un dato emerso nel corso dell’istruttoria, su cui hanno riferito i testi ***** (29), e che si evince inoltre dal tenore delle dichiarazioni di volontà (doc. 8 e 9 attrici) consegnate all’atto del ricovero in ospedale;
  • il disagio in ambito familiare, legato per un verso ai rapporti con il coniuge correligionario e, per altro verso (soprattutto per la sig.ra *****) alle accuse rivolte dall’attrice al coniuge, per non averla saputa preservare dal trattamento sanitario non voluto (“Mi accusa anche di non averla saputa difendere …”)
  • il senso di “tradimento” verso i sanitari che avevano assicurato di rispettare la volontà espressa dalle attrici (30).

Per cogliere, da un punto di vista soggettivo, l’entità del pregiudizio “sentito” dalle attrici è importante ricordare che entrambe erano disposte a morire pur di non sottoporsi a trasfusioni di sangue. Si richiamano sul punto le circostanze già sopra esposte (paragrafo 4.2), da cui risulta che quando le attrici rifiutarono coscientemente, per l’ultima volta, il trattamento trasfusionale, erano certamente in pericolo di vita. Una volta individuati i parametri a cui commisurare il risarcimento, resta pur sempre “difficoltosa” l’operazione consistente nel tradurre in un valore monetario la perdita dei “valori” di cui s’è detto, trattandosi di operazione che, nella sua natura strettamente equitativa, contiene in sé necessariamente un quid di “arbitrario” e non giustificabile secondo elementi di stretto diritto. Per rendere la liquidazione meno arbitraria, sembra opportuno far riferimento – a mero titolo comparativo – ai consolidati criteri per la liquidazione di alcuni danni non patrimoniali contenuti nelle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano nell’anno 2009 e utilizzate nella maggior parte degli uffici giudiziari italiani (fra cui, come detto, anche il Tribunale di Torino). Queste tabelle prevedono per il danno da perdita di uno stretto congiunto (figlio o genitore) il riconoscimento di somma variabile da 150.000 a 300.000 euro. Per un danno biologico del 10% il riconoscimento di una somma (per la fascia di età delle attrici) dell’ordine di € 19.000; e per un danno biologico del 20% di una somma dell’ordine di € 60.000. Tenuto conto di tutti gli elementi sopra richiamati, si ritiene che il danno non patrimoniale subito dalle sig.re ***** e ***** possa essere equitativamente risarcito attraverso il riconoscimento, a ciascuna di esse, della somma di € 35.000, già liquidata secondo valori attuali.

Il complessivo danno subito dalle attrici si liquida pertanto in:

  • € 36.870 per la sig.ra *****
  • € 38.960 per la sig.ra *****
  1. La domanda di garanzia del dr. ***** verso *****

La domanda di garanzia svolta dal dr. ***** si fonda sulla polizza n. *****, stipulata il 13.4.04 e pacificamente operante al momento del sinistro (doc. 33 *****). Le eccezioni della compagnia convenuta si fondano su:

  1. a) inoperatività della garanzia, poiché i danni che l’assicurato è tenuto a risarcire non consisterebbero in morte, lesioni personali o danneggiamenti a cose;
  2. b) operatività della garanzia solo “a secondo rischio” e in eccedenza ai massimali prestati dalle altre assicurazioni.

7.1 La prima eccezione è destituita di fondamento, perché i danni subiti dalle attrici consistono effettivamente in “lesioni personali”, laddove per tali devono intendersi – in difetto di clausole limitative di responsabilità che nel caso di specie non esistono – tutte le lesioni alla sfera individuale della persona, tanto quelle fisiche o psichiche quanto quelle “morali” o “esistenziali”. Una indiretta conferma di ciò si trae dalla clausola di delimitazione di cui alla lettera e), secondo cui l’assicurazione non vale “per la responsabilità imputabile esclusivamente ad assenza del consenso informato”. Qualora infatti un intervento medico venga posto in essere in difetto di valido consenso del paziente, il medico risponde a prescindere da ogni colpa “operativa”; in questi casi peraltro il danno arrecato dal medico (che abbia ben operato, ma in difetto di consenso) può consistere anche solo nella lesione del diritto di auto-determinazione del paziente, il quale, operato in difetto di valido consenso, non abbia concretamente subito alcuna lesione. In un caso simile quindi le “lesioni personali” che la polizza dovrebbe coprire non riguarderebbero la sfera psico-fisica, ma unicamente quella “morale-esistenziale” (lesione del diritto di autodeterminazione). Il fatto che la polizza preveda una delimitazione di responsabilità proprio per questo caso, conferma a contrariis il fatto che le lesioni oggetto di copertura debbano essere intese nel significato ampio di cui s’è detto.

7.2 L’eccezione secondo cui la polizza opererebbe soltanto “in secondo rischio” presuppone che, ai sensi dell’art. 1910 c.c., per il medesimo rischio siano state contratte più assicurazioni presso diversi assicuratori. Secondo *****, l’esistenza di una polizza contratta dalla casa di cura ***** a garanzia della responsabilità civile non solo per fatto proprio, ma anche per fatto degli ausiliari, comporterebbe che la polizza stipulata dal dr. ***** opererebbe solo “in eccedenza”. L’eccezione è infondata perché il rischio assicurato dalla polizza ***** e da quella ***** è diverso. La prima polizza assicura infatti la responsabilità professionale del medico, la seconda, invece, la responsabilità della casa di cura. Come si è chiarito sopra quest’ultima responsabilità, anche se deriva da un fatto degli ausiliari (o dei medici che operano comunque al suo interno) è pur sempre una responsabilità per fatto proprio. Da qui la diversità del rischio assicurato dai due contratti e l’infondatezza dell’eccezione opposta da *****.

In accoglimento della domanda proposta dal dr. *****, ***** va condannata a manlevare il ***** di quanto è stato condannato a pagare alle attrici con la presente sentenza.

  1. La domanda di garanzia di ***** verso ***** e *****.

La domanda di garanzia proposta da ***** si fonda sulla polizza n. ***** emessa il 30.4.2002 (doc. 4 *****). Due le eccezioni sollevate dalle assicurazioni terze chiamate:

a) inoperatività della garanzia in relazione alla clausola (art. 1 ultimo comma c.g.a.) che richiede l’acquisizione di valido consenso informato del paziente;

b) inoperatività della garanzia in relazione alla clausola (art. 18 condizioni particolari) relativa ai danni causati da medici non dipendenti.

8.1 La prima eccezione si fonda sull’art. 1 u.c. delle c.g.a., secondo cui “La garanzia opera purché l’assicurato-contraente disponga delle autorizzazioni previste dall’ordinamento giuridico e dai regolamenti vigenti per l’esercizio dell’attività oggetto della presente assicurazione, sia in possesso dei requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte di strutture pubbliche e private previste dal D.P.R. del 14 gennaio 1997, ed è inoltre subordinata all’acquisizione di valido consenso informato secondo i protocolli previsti per le singole attività”. Questa previsione fa riferimento ai requisiti e alle condizioni per l’esercizio dell’attività sanitaria, e condiziona la garanzia alla loro sussistenza. Anche il riferimento al consenso informato è legato ai “protocolli previsti per le singole attività”, e ciò induce a ritenere che il vaglio su questo requisito debba fermarsi al dato formale, e non comporti l’esclusione della garanzia in ogni ipotesi in cui, all’esito di una controversia, risulti che il consenso non sia stato validamente prestato. L’attività a cui fare riferimento è dunque l’intervento chirurgico a cui le attrici dovevano essere sottoposte (isteroannessiectomia) e non la trasfusione ematica, che ha costituito invece (non il trattamento sanitario concordato, ma) l’evento dannoso conseguito all’inadempimento. Poiché dunque entrambe le pazienti hanno sottoscritto modulo di consenso informato relativo all’operazione programmata, si ritiene che la clausola di cui sopra non possa essere invocata.

8.2 Con la seconda eccezione le assicurazioni sostengono che la garanzia sarebbe limitata ai danni causati dai medici dipendenti dall’ospedale; mentre, peri danni provocati dal personale non dipendente la polizza opererebbe “in eccesso alle assicurazioni dei medici e degli altri operatori non direttamente dipendenti dal contraente/assicurato e comunque dopo la somma di Lit. 1.500.000.000 che restano a carico del personale qui indicato, a titolo di franchigia assoluta”. Anche questa eccezione deve essere disattesa. La casa di cura risponde infatti non soltanto per fatti direttamente ascrivibili al dr.***** ma anche per inadempimento proprio – segnatamente per inadeguata assistenza e monitoraggio post-operatori. Rispetto a questa responsabilità, solidale a quella del medico convenuto, non può essere invocata la limitazione di garanzia di cui sopra.

  1. Sintesi riepilogativa. Spese del giudizio.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il dr. ***** e la ***** vanno condannati, in solido, al risarcimento dei danni, come sopra quantificati, in favore di *****. La quota di responsabilità in capo a ciascuno dei convenuti deve ritenersi paritaria.

***** va condannata a tenere indenne il dr. ***** di quanto è tenuto a pagare alle attrici in forza della presente sentenza.

***** e ***** vanno condannate – ciascuna per la propria quota di coassicurazione (e cioè *****, quale conferita ria di ***** e *****, per la quota del 90%, e ***** per la quota del 10%) – a manlevare la casa di cura di quanto è tenuta a pagare alle attrici in forza della presente sentenza.

I convenuti ***** e ***** vanno condannati all’integrale rimborso delle spese di lite in favore delle attrici; liquidazione come da dispositivo.

Ciascuna delle compagnie terze chiamate va condannata all’integrale rimborso delle spese di lite in favore del proprio assicurato; liquidazioni come da dispositivo.

Le spese di CTU, già liquidate con provvedimento del 21.12.2010, vanno poste in via definitiva per metà a carico di ***** e per metà a carico di ***** e *****.

P.Q.M.

Il Tribunale di Torino, definitivamente pronunciando sulla domandapreposta da ***** nei confronti di ***** e*****, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, cosiprovvede:

dichiara tenuti e condanna ***** e *****, in solido fra loro, al pagamento di € 36.870 in favore di***** e di € 38.960 in favore di *****, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo;

dichiara tenuti e condanna ***** e *****, in solido fra loro, all’integrale rimborso delle spese del giudizio in favore delle attrici, liquidandole, in difetto di specifica distinta, in € 8.500, di cui € 500 per spese vive, € 3.000 per competenze e € 5.000 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;

dichiara tenuta e condanna ***** a manlevare ***** di quanto è stato condannato a pagare alle attrici;

dichiara tenute e condanna ***** e *****, ciascuna in proporzione alla propria quota di coassicurazione (e quindi ***** per il 90% e ***** per il 10%) a manlevare ***** di quanto è stata condannata a pagare alle attrici;

dichiara tenuta e condanna ***** all’integrale rimborso delle spese del giudizio in favore di ***** liquidandole (limitatamente al rapporto processuale fra ***** *****) in € 6.711, di cui 11 per spese vive, € 2.700 per competenze e € 4.000 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;

dichiara tenute e condanna ***** e ***** all’integrale rimborso delle spese del giudizio in favore di *****, liquidandole (limitatamente al rapporto processuale fra ***** e *****) in €. 4.436, di cui € 2.136 per competenze e € 2.300 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;

pone in via definitiva le spese di CTU, liquidate come da provvedimento del 21.12.2010, per metà a carico di ***** e per metà a carico di ***** e *****.

Così deciso in Torino, il giorno 11.4.2011

Note

(1) ***** ha dichiarato: “Nell’incontro del 7.1.05 mia moglie disse chiaramente al dr. ***** che, per motivi religiosi e anche sanitari (cioè di sicurezza delle trasfusioni), non avrebbe mai accettato di essere sottoposta a trasfusioni, neanche se si fosse trovata in pericolo di vita. Il dr. ***** le disse di stare tranquilla, perché non ci sarebbe stato bisogno di trasfusioni”.

***** ha dichiarato: “Nell’incontro del 7.1.05 mia moglie disse chiaramente al dr. ***** che, per motivi religiosi e anche sanitari (cioè di sicurezza delle trasfusioni), non avrebbe mai accettato di essere sottoposta a trasfusioni, neanche se si fosse trovata in pericolo di vita. Il dr. ***** le disse di stare tranquilla, perché non ci sarebbe stato bisogno di trasfusioni”.

(2) La giurisprudenza sul punto è da tempo pacifica, e si richiamano soltanto le più recenti Cass. 19.10.06 n. 22390; 24.5.06 n. 13362; 28.5.04 n. 10297.

(3) Si vedano le dichiarazioni testimoniali rese da tali medici.

(4) Del tutto pacifico sul punto l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, sia con riferimento alla ripartizione degli oneri probatori in tema di inadempimento di prestazioni contrattuali: “il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (Cass. S.U. 10.10.01 n. 13533); sia in tema di ripartizione degli oneri probatori nelle cause aventi ad oggetto la responsabilità del medico: “il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliere la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.” (Cass. 28.5.04 n. 10297).

(5) Il dato è stato confermato anche dai CTU (p. 21 ss.): “le Parti si sono tutte dichiarate concordi nel riconoscere la sussistenza di indicazione all’asportazione chirurgica dell’utero in entrambe le pazienti” … “nel corso delle operazioni di consulenza tecnica entrambe le pazienti hanno precisato che i diversi specialistici da loro consultati nel corso degli anni hanno costantemente escluso la possibilità di ricorrere efficacemente a trattamenti farmacologici, prospettando unicamente una soluzione di tipo chirurgico”; i quali hanno dato conto altresì della verosimile scarsa utilità di trattamenti conservativi farmacologici o chirurgici più limitati (ablazione del solo endometrio).

(6) Scrivono i CTU (p. 24): “l’isterectomia è pratica operativa non esente da rischi e, tra questi, quello emorragica. In effetti, per quanto una tale forma di rischio rappresenti una evenienza non particolarmente frequente dell’isterectomia, con una incidenza che mediamente varia fra il 3 ed il 6% dipendentemente dalle casistiche considerate, si tratta pur sempre di una eventualità che deve essere sempre tenuta in debito conto dall’operatore in ragione della particolare consistenza della perdita ematica che contraddistingue le complicanze emorragiche degli interventi ginecologici”.

(7) ***** ha dichiarato: “Ero andato insieme a mia moglie alla visita con il dr. *****, nel suo studio di Torino, il 7.1.05. In questa occasione il dr. ***** ci rassicurò sul fatto che l’intervento di cui mia moglie aveva bisogno non richiedeva assolutamente trasfusioni. In quell’occasione si è anche parlato delle possibili complicanze dell’operazione, ma anche sotto questo profilo il dr. ***** ci ha rassicurato sul fatto che non c’era il rischio che mia moglie dovesse essere trasfusa”.

****** ha dichiarato: “Ero andato insieme a mia moglie alla visita con il dr. *****, nel suo studio di Torino, il 7.01.05. In questa occasione il dr. ***** ci rassicurò sul fatto che l’intervento di cui mia moglie aveva bisogno non richiedeva assolutamente trasfusioni. In quell’occasione si è anche parlato delle possibili complicanze dell’operazione, ma anche sotto questo profilo il dr. ***** ci ha rassicurato sul fatto che non c’era il rischio che mia moglie dovesse essere trasfusa. Nell’incontro del 7.1.05 mia moglie disse chiaramente al dr. ***** che, per motivi religiosi e anche sanitari (cioè di sicurezza delle trasfusioni), non avrebbe mai accettato di essere sottoposta a trasfusioni, neanche se si fosse trovata in pericolo di vita. Il dr. ***** le disse di stare tranquilla, perché non ci sarebbe stato bisogno di trasfusioni”.

(8) Si richiamano le esaustive considerazioni dei CTU a p. 27 della relazione.

(9) Scrivono i CTU: “In effetti, se come precisato nel paragrafo precedente, le terapie farmacologiche non potevano dirsi idonee a risolvere le manifestazioni menorragiche, queste potevano però essere utilmente impiegate con finalità “preventive” in fase pre-operatoria. L’impiego del GnR-H, ad esempio, sarebbe valso ad contenere il rischio emorragico poiché, riducendo il volume dell’utero e dei fibromi non più stimolati dagli ormoni, si sarebbe ridotto l’afflusso vascolare all’utero”.

(10) Procedure che sono descritte in termini del tutto sommari nelle cartelle cliniche, ove si legge soltanto “controllo emostasi”.

(11) I CTU motivano queste affermazioni richiamando il Manuale di terapia trasfusionale (Secco), ove si legge ““…La trasfusione di sangue non dovrebbe essere la prima preoccupazione nel trattamenti di pazienti con emorragia acuta dato che la correzione dell’ipovolemia è più urgente della ricostituzione della massa eritrocitaria. Un’accurata diagnosi, un’adeguata ossigenazione, una correzione dell’ipovolemia con sostituti del plasma e un tempestivo trattamento chirurgico possono spesso evitare il ricorso alla trasfusione. Una perdita fino al 20% del volume circolante (circa 1 litro di sangue) in un adulto in buone condizioni generali non richiede generalmente trasfusioni. Una perdita compresa fra il 20 ed il 30% del volume circolante richiede un rimpiazzo del volume con sostituti del plasma. Una perdita > 30% del volume circolante richiede, oltre all’uso di sostituti del plasma, anche la trasfusione di sangue”.

(12) ***** ha dichiarato: “Preciso che nei giorni feriali il mio servizio iniziava alle 20 e terminava alle 8 mentre nei giorni festivi (sabato e domenica) iniziavo il servizio alle 8 del mattino e fino alle 8 del mattino successivo. Con riferimento alle pazienti *****, ricordo che ero di guardia quando sono state sottoposte al re intervento”. Sulla base di tali dichiarazioni è legittimo affermare che il dr. ***** avesse iniziato il servizio di guardia alle ore 20 di venerdì 14 gennaio e fosse ancora in servizio nella notte fra sabato 15 e domenica 16 quando le pazienti vennero operate per la seconda volta.

(13) ***** ha dichiarato: “Posso confermare che – come peraltro sempre avviene – le pazienti ***** e ***** vennero strettamente monitorate il giorno dell’intervento e nei due giorni successivi. Mi riporto sul punto alle annotazioni in cartella”.

(14) “La mattina del 15 gennaio, dopo aver verificato (verso le 11,30) che dagli esami della sig.ra ***** i valori dell’emoglobina erano in discesa, contattai il dr. ***** il quale si recò in clinica, dove (verso le ore 15) visitò a sua volta la paziente e fece sulla cartella l’annotazione che ivi risulta, facendo trasferire la paziente ***** in terapia subintensiva. Non ricordo se prima di quel momento avessi contattato il dr. ***** per riferirgli le condizioni della paziente ***** o della *****”.

(15) ***** ha dichiarato: “Quando si manifestarono i problemi alle pazienti io ero di guardia interdivisionale a *****, ricordo che avevo fatto la guardia nel pomeriggio del sabato, ma non so precisare l’ora. Venni chiamata dalle infermiere del reparto dove era ricoverata una di tali due pazienti (non ricordo quale delle due), che era stata sottoposta da alcuni minuti a terapia infusionale di ferro e lamentava malessere; le infermiere temevano che questo malessere potesse essere legato alla infusione. Io visitai la paziente, le praticai un esame estemporaneo di emocromo, che diede valori di emoglobina notevolmente sotto la norma; esclusi che il malessere della paziente fosse legato alla infusione di ferro e rilevai che aveva un addome poco trattabile. Ho chiamato allora il dr. ***** spiegandogli il mio sospetto clinico (un emorragia in sede di intervento) e dicendogli che era opportuno che vedesse la paziente. Il dr. ***** è arrivato in tempo breve e abbiamo vistato insieme la paziente, facendole una ecografia, all’esito della quale lui decise di riportare la paziente in sala operatoria”.

(16) Significative le annotazioni della cartella infermieristica della signora ***** “… 15.01.05 … ore 8:30 PA 80/50… Hb 5.1 … Ecoaddome … Avvisato dott. ***** e ***** ripetute volte e si è presentato ***** alle ore 11,30. Il dott. ***** ore 13:35 …” .

(17) “In vero che all’approccio chirurgico dovesse derivare la necessità di emotrasfusioni era evenienza pur sempre possibile, ma certamente con ancora discreti valori di emoglobina, specie come nel caso della signora *****, non si trattava di una evenienza inevitabile. Di contro, considerato l’andamento e la portata dell’emorragia, in mancanza di tamponamento chirurgico della stessa, entrambe le pazienti incorrevano in un maggior rischio trasfusivo da correlarsi sia al perdurare del sanguinamento che allo squilibrio emocoagulativo ad esso conseguente” (CTU p. 33)

(18) ***** ha dichiarato: “Anche al momento del ricovero mia moglie, in mia presenza, comunicò ai sanitari di *****, che non accettava trasfusioni di sangue. Voglio aggiungere che una simile comunicazione è stata data in occasione di ogni contatto che mia moglie ebbe con i sanitari. La stessa scelta dell’ospedale (che ha comportato per noi un trasferimento dalla Sicilia a Torino) era giustificata in considerazione del fatto che ***** è conosciuta come una struttura che tiene in particolare conto le esigenze dei testimoni di Geova”.

***** ha dichiarato: “Anche al momento del ricovero mia moglie, in mia presenza, comunicò ai sanitari di *****, che non accettava trasfusioni di sangue. Voglio aggiungere che una simile comunicazione è stata data in occasione di ogni contatto che mia moglie ebbe con i sanitari”.

(19) Alle ore 18 di sabato 15 si legge nella cartella *****: “La paziente informata di fronte a testimoni delle sue condizioni e sulla grave anemia in corso che pone indicazione a trasfusione ematica … (ill)… ribadisce il rifiuto a trasfusione di sangue per motivazioni religiose”.

Alle ore 17 di sabato 15 si legge nella cartella *****: “si informa la paziente ed il marito delle condizioni cliniche e del quadro di grave anemia in soggetto già operato di SVAo + bypass, sottoposta ad intervento di isterectomia in data 14.01.2005. I coniugi ribadiscono il dissenso alla trasfusione …”

(20) ***** ha dichiarato: “Dopo il primo intervento, quando si è constatato un importante calo dei livelli dell’emoglobina, ricordo che io o i miei colleghi abbiamo parlato con le pazienti e abbiamo fatto presente che, in caso si fosse deciso di procedere a intervento di revisione, sarebbe stato necessario procedere a emotrasfusioni. Ricordo che le pazienti manifestarono il loro dissenso rispetto a questa possibilità … Le pazienti si erano categoricamente rifiutate di ricevere le trasfusioni pur dopo che erano state informate dello stato di pericolo in cui versavano”.

(21) ***** ha dichiarato: “Nella sera di sabato 15 le condizioni di mia moglie peggiorarono. Allora vennero dei medici (io ero presente) a parlarle per informarla di questo peggioramento e per dirle che le sue condizioni erano tali da richiedere una trasfusione. Mia moglie rifiutò categoricamente una simile prospettiva; ricordo che dicemmo che eravamo venuti dalla Sicilia proprio perché ci era stata garantita la prospettiva di un intervento senza rischio di dover subire trasfusioni. Ci venne allora sottoposto un foglio, che firmammo, con una dichiarazione dove si diceva che mia moglie ed io, pur consapevoli del pericolo di vita che lei correva, rifiutavamo le trasfusioni. Prima di farci firmare ci venne anche detto che avrebbero chiesto l’autorizzazione al giudice per effettuare le trasfusioni”.

(22) ***** ha dichiarato: “La sera del sabato le condizioni di mia moglie peggiorarono. Ricordo che una dottoressa – credo fosse l’anestesista – vide mia moglie e disse che non le piaceva il suo aspetto. Da questo momento è come se fosse stato dato un allarme e ci si fosse resi conto della gravità delle condizioni. Poco dopo dei medici, di cui non ricordo il nome, vennero da noi; non ci diedero dettagliate spiegazioni sulle condizioni in cui versava mia moglie, la ci sottoposero un foglio dove ribadivamo la volontà di non accettare trasfusioni anche a rischio della vita. Anche se non ci sono state date spiegazioni mia moglie ha firmato il foglio pienamente cosciente e consapevole di essere a rischio della vita.

(23) ***** ha dichiarato: “Dopo l’esame che rivelava un livello di emoglobina molto basso, parlai con la paziente, le spiegai la situazione, le dissi che se fosse stata confermata l’ipotesi di un sanguinamento intraddominale e si fosse reso necessario un reintervento, lei correva un grave rischio per la propria vita se non si fosse sottoposta a trasfusioni. Ricordo che era presente in camera con lei anche suo marito. La paziente mi disse che le sue convinzioni religiose erano molto radicate e che non intendeva, nemmeno in quella situazione di pericolo, accettare le trasfusioni. Se mal non ricordo annotai in cartella clinica queste dichiarazioni della paziente e le feci sottoscrivere a lei e al marito”.

(24) Il dr. ***** sostituto procuratore che era stato interpellato dai medici della casa di cura, ha ben chiarito la valenza del suo “intervento” nella vicenda: “Premetto che l’ufficio del Pubblico Ministero non può dare autorizzazioni alla esecuzioni di trasfusioni”.

(25) Il dr. ***** ha infatti dichiarato: “E’ vero peraltro che l’ufficio cui appartengo venne contattato da un medico, di cui non ricordo il nome, di *****. Questo medico mi disse che c’erano due persone, testimoni di Geova, che erano in pericolo di vita e rischiavano di morire in difetto di trasfusione di sangue. Io, seguendo la consolidata prassi dell’ufficio, ho rassicurato il medico dicendogli – a titolo di parere – che poteva procedere alla trasfusione perché sussisteva lo stato di necessità. Mi pare di aver anche informato il medico del fatto che, non procedendo a trasfusione correva il rischio di una imputazione per reato di omicidio colposo (e quindi per lui era più rischioso far morire il paziente per rispettare il suo credo che intervenire). Ricordo di aver detto che, difronte a una situazione di pericolo di vita, il medico poteva procedere a trasfusione senza rischiare incriminazioni, ove sussistesse pericolo di vita … A quanto ricordo il medico con cui parlai mi disse che le pazienti erano sotto i ferri, e che avevano manifestato, al momento del ricovero, la propria contrarietà alle trasfusioni. Non sono certo che nel momento in cui ebbi questo colloquio l’operazione fosse in corso; né sono certo del fatto che le pazienti fossero, in quel momento, incoscienti. Probabilmente ho desunto questa circostanza dal tenore complessivo della telefonata”.

(26) Si richiama sul punto Cass. 15.9.2008 n. 23676.

(27) ***** marito della sig.ra *****, ha dichiarato: “Da dopo l’episodio di cui ho detto, mia moglie vive nel dolore e nel rimorso di quanto accaduto. I principi religiosi che seguiamo infatti impongono di astenersi dal sangue e mia moglie è convinta di avere commesso un gravissimo peccato … Mia moglie prova una grande vergogna anche di fronte ai nostri correligionari. Spesso è sconfortata ed ha crisi di pianto”.

(28) *****, marito di ***** ha dichiarato: “Dopo le trasfusioni che le sono state fatte mia moglie ha subito un vero e proprio trauma. Per un verso questo trauma è legato alle nostre convinzioni religiose: per lei è particolarmente grave avere dentro di sé il sangue di un’altra persona, è come se si fosse macchiata di un peccato gravissimo, al punto che per molto tempo (2-3 anni) non ha trovato la forza di parlare di quanto accaduto nemmeno con i nostri fratelli di fede”.

(29) *****: “C’è poi un altro aspetto, legato al timore che le trasfusioni possano essere stata fonte di malattie. Devo dire che mia moglie si sottopone con frequenza ad analisi del sangue in ragione della patologia da cui è affetta. In ognuna di queste occasioni il suo timore di aver contratto malattie si rinnova. Vive con la paura di essere stata infettato da gravi malattie”.

“Oltre a questo aspetto, c’è la paura di essere stata contagiata da qualche malattia. Noi infatti siamo informati approfonditamente delle malattie che si possono contrarre attraverso trasfusioni e mia moglie ha costante paura di essere stata infettato”.

(30) Il teste ***** ha riferito che la moglie “…si scaglia con violenza contro il medico che, fino a quando lei era cosciente, l’ha rassicurato di rispettare la sua volontà e poi ha proceduto con le trasfusioni”.

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