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Cass. civ. Sez. Unite, 11-01-2008, n. 584

SENTENZE DELLA CASSAZIONE A SEZIONI UNITE DELL’11 GENNAIO 2008

 

Cass. civ. Sez. Unite, 11-01-2008, n. 584

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di Sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.F., GR.FR., G.E., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DONIZETTI 20, presso lo studio dell’avvocato SPAGNOLI PAOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato TRINCHI ALBERTO, giusta delega a margine del ricorso; – ricorrenti –

contro

ASSITALIA – LE ASSICURAZIONI D’ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso lo studio dell’avvocato VALENZA DINO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

  • controricorrente e contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI LA SAPIENZA DI ROMA, MINISTERO DELLA SALUTE;

  • intimati e sul 2^ ricorso n 24714/05 proposto da:

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore, UNIVERSITA’ DEGLI STUDI LA SAPIENZA DI ROMA, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

  • controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

G.F., GR.FR., G.E., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DONIZETTI 20, presso lo studio dell’avvocato SPAGNOLI PAOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato TRINCHI ALBERTO, giusta delega a margine del ricorso;

  • controricorrente al ricorso incidentale –

contro

ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA S.P.A.;

  • intimata –

avverso la sentenza n. 2127/05 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 16/05/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

uditi gli avvocati Alberto TRINCHI, Massimo SALVATORELLI e Gesualdo D’ELIA, dell’Avvocatura Generale dello Stato, Dino VALENZA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del primo, secondo, quarto e quinto motivo del ricorso prinicpale e, in parte, anche del terzo motivo, assorbito il sesto motivo, accoglimento del quinto motivo del ricorso incidentale, rigetto degli altri motivi.

Svolgimento del processo

G.F., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori E. e Fr., con atto notificato il 10.3.1997 conveniva in giudizio l’Università degli Studi La Sapienza dinanzi al tribunale di Roma, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni (da responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 e 2050 c.c., nonchè contrattuale) subiti:

  1. quali eredi, essendo il primo il marito della defunta B.L. e gli altri i figli della medesima, dellesomme dovute a quest’ultima a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali, biologici e morali, conseguenti alla patologia (AIDS), derivatale in seguito alla somministrazione di emoderivati ed emotrasfusioni, che ne aveva causato la morte;
  2. iure proprio al risarcimento dei danni patrimoniali, biologico e non patrimoniali, subiti a seguitodella morte della B., intervenuta nel 1996;
  3. il solo G.F. in proprio al risarcimento dei danni derivatigli dal contagio dell’Aids tramite i rapportisessuali con la defunta moglie.

Assumevano gli attori che la B., emofiliaca, si era sottoposta a somministrazione di emoderivati e plasma dal 1973 al 1992 presso la sezione del dipartimento di Biopatologia umana dell’Università convenuta, che, a causa di questi trattamenti, era risultata prima sieropositiva all’HIV e, quindi, tale infezione era degenerata nel 1994 in AIDS, portandola alla morte.

L’Università chiamava in garanzia il proprio assicuratore,la s.p.a. Assicurazioni d’Italia.

Veniva chiamato iussu iudicis anche il Ministero della Sanità, nei cui confronti gli attori estendevano le domande proposte a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 20902 del 2001, respingeva tutte le domande. In particolare rigettava le eccezioni di prescrizione, ma accoglieva quella sollevata dall’Università e relativa alla responsabilità extracontrattuale fatta valere iure hereditatis dagli attori, in quanto riteneva che l’accertamento del contagio risaliva al 1985. Riteneva che mancava la prova della colpevolezza, necessaria sia ai fini della responsabilità extracontrattuale del Ministero ex art. 2043 c.c., sia per la stessa responsabilità che per quella contrattuale dell’Università.

Successivamente al deposito della sentenza, la sieropositività del G. degenerava in AIDS. Gli attori proponevano appello.

La corte di appello di Roma, con sentenza n. 2127, depositata il 16.5.2005, accoglieva in parte l’appello, condannando in solido il Ministero (per responsabilità ex art. 2050 c.c.) e l’Università(per responsabilità ex artt. 2043 e 2050 c.c.) a pagare agli appellanti il solo danno morale per la morte della B., liquidato in Euro 50.000,00, oltre interessi dalla data della pubblicazione della sentenza. Condannava l’assicuratrice a manlevare l’Università di quanto avrebbe dovuto pagare.

In particolare il giudice di appello rigettava l’eccezione di prescrizione quinquennale avanzata dall’Università (in relazione al danno subito dalla B.), rilevando che la B. solo il 2.4.1992, a seguito di certificazione della sezione di ematologia, aveva avuto conoscenza della gravità della malattia e della sua eziologia. Riteneva sussistente la responsabilità di entrambi gli appellanti a norma dell’art. 2050 c.c., e della sola Università anche a norma dell’art. 2043 c.c.. La Corte territoriale non riteneva sufficientemente provato il nesso di causalità tra i danni dedotti dal G. alla sua persona ed i comportamenti omissivi delle amministrazioni convenute, in quanto il certificato emesso nel 1996 dalla divisione di ematologia dell’Università La Sapienza, attestava solo un giudizio di verisimiglianza della dipendenza del contagio dalla malattia della B..

Gli attori hanno proposto ricorso per cassazione articolato in 5 motivi ed hanno anche presentato memoria.

Resiste con controricorso l’Assitalia s.p.a..

Il Ministero della Salute e l’Università la Sapienza resistono con controricorso ed hanno proposto anche ricorso incidentale, articolato in 8 motivi, a cui resistono con controricorso i ricorrenti principali.

Motivi della decisione

  1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità della struttura sanitaria e del Ministero della Salute per danno da sangue infetto; al rapporto tra indennizzo ex L. n. 210 del 1992, e risarcimento del danno.

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.

Sempre preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di difetto di legittimazione passiva avanzate dai ricorrenti incidentali con i primi tre motivi del loro ricorso incidentale. Con il primo motivo l’Università La Sapienza lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi di cui al D.L. 1 ottobre 1999, n. 341, conv. in L. 3 dicembre 1999, n. 453, in punto di legittimazione passiva dell’Università per effetto dell’istituzione dell’Azienda Policlinico Umberto I, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè il difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. 2. Il motivo è infondato.

Il citato D.L. n. 341 del 1999, ha costituito l’Azienda Policlinico Umberto I quale ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, precisando che detto ente succede “all’omonima azienda universitaria nei rapporti in corso relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria con utenti, autorità competenti e altre amministrazioni, nei contratti in corso per la costruzione di strutture destinate ad attività assistenziali, nonchè nei contratti in corso per la fornitura di beni o servizi destinati all’assistenza sanitaria” (art. 1).

La successione in tali termini disposta non è stata, pertanto, a carattere universale e non ha quindi avuto alcuna incidenza sui processi pendenti che, conseguentemente, proseguono tra le parti originarie (art. 111 c.p.c., comma 1). Secondo quanto originariamente stabilito dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, i “policlinici universitari” costituivano aziende “dell’università” dotate “di autonomia organizzativa, gestionale e contabile”, ma prive di personalità giuridica (art. 4, comma 5), a meno che non fossero costituite in “azienda con personalità giuridica pubblica”, secondo quanto previsto dal comma 1 e dal comma 3, dello stesso articolo.

Tale duplicità di regime è stata mantenuta anche nel nuovo testo del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 4, introdotto dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 4.

La costituzione in ente avente personalità giuridica di diritto pubblico dell’azienda universitaria “Policlinico Umberto I” è stata effettuata, per la prima volta, con il citato D.L. n. 341 del 1999. E’ quindi evidente che, in precedenza, i rapporti derivanti dall’utilizzazione di tale struttura sanitaria potevano essere legittimamente riferiti all’Università “La Sapienza” di Roma della quale il Policlinico costituiva parte integrante, ancorchè dotata di “autonomia organizzativa, gestionale e contabile” (Cass. 26.3.2003, n. 4456).

Pertanto il presente giudizio, avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante sia da responsabilità contrattuale che extracontrattuale, essendo stato correttamente instaurato con citazione del 10.3.1997 nei confronti dell’Università La Sapienza, è correttamente continuato nei confronti di detta Università, anche a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 341 del 1999. 3. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente incidentale Ministero della Salute lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi di cui al D.Lgs. n. 112 del 1998, integrato dal D.P.C.M. 25 maggio 2000, e dell’accordo Governo – Regioni dell’8.8.2001, in tema di legittimazione passiva delle Regioni nel campo della salute umana, nonchè il difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assume il ricorrente Ministero che per effetto della suddetta normativa i compiti amministrativi in tema di salute umana sono stati trasferiti alle Regioni.

  1. Il motivo è infondato, in quanto, a parte altri profili, si fonda su un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni sulla base di legislazione degli anni 1998 e seguenti, mentre nella fattispecie i fatti attengono a date precedenti e la stessa citazione è del 10 marzo 1997. 5. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente Ministero lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R.
  2. 4 del 1972, del D.Lgs. n. 616 del 1977, e della L. n. 833 del 1978, con specifico riferimento alla competenza istituzionale del Ministero della Salute e conseguente difetto di legittimazione dello stesso, nonchè il difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. 6. Il motivo è infondato.

Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l’attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di emoderivati all’epoca dei fatti.

La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonchè (art. 21) il compito di autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.

Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2,3, 103, 112).

La L. n. 519 del 1973, attribuisce all’Istituto superiore di sanità  compiti attivi a tutela della salute pubblica.

La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6, lett. b, c), mentre l’art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.

Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. “farmacosorveglianza” da parte del Ministero della Sanità, che pu  stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.

Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità , anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.

  1. Completato l’esame delle questioni pregiudiziali sollevate nel ricorso incidentale, pu passarsi all’esame dei motivi del ricorso principale.

Con il primo motivo i ricorrenti principali lamentano la violazione degli artt. 99, 100, 112, 342 e 346 c.p.c., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assumono i ricorrenti che erratamente la sentenza impugnata ha considerato implicitamente abbandonata la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale dell’Università; che essi avevano agito in primo grado sia per responsabilità contrattuale che extracontrattuale dell’Università; che il primo Giudice aveva rigettato entrambe le domande per mancanza della colpa necessaria ad integrare entrambe tali ipotesi di responsabilità; che essi avevano proposto l’appello per vedersi accogliere la domanda così come proposta in primo grado, sviluppando nei motivi, segnatamente quello contraddistinto con la lettera D), le ragioni a sostegno dell’esistenza della colpa in relazione ad entrambi i tipi di responsabilità; che, così operando, la corte di appello aveva omesso di pronunziarsi sulla responsabilità contrattuale dell’Università. 8.1. Il motivo è fondato e va accolto.

Va, anzitutto, esaminato se nell’atto di appello era stata abbandonata la domanda di responsabilità contrattuale dell’Università e se era stato impugnato il rigetto dello stessa in primo grado con specifico motivo.

L’art. 346 c.p.c., così recita: “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.

In mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale la parte, che voglia evitare la presunzione di rinuncia di cui alla ricordata disposizione deve reiterare le domande e le eccezioni, in senso proprio, non accolte in primo grado è pacifico – presso una più che consolidata giurisprudenza di legittimità – che queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse. La proposizione, tuttavia, per se libera da forme, deve essere fatta in modo specifico, non essendo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte e alle conclusioni prese davanti al primo giudice (Cass. S.U. 23/12/2005, n. 28498; Cass. 11/05/2005, n. 9878; cfr., altresì, Cass. 20 febbraio 1998 n. 1798, nonchè Cass. 17 dicembre 1999 n. 14267).

I motivi di appello sono specifici, nel senso voluto dalla prima parte dell’art. 342 c.p.c., se si traducono nella prospettazione di argomentazioni, contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette ad incrinarne il fondamento logico – giuridico (Cass. S.U., 29/01/2000, n. 16).

8.2. Qui non si tratta di un problema di interpretazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello e quindi delle “domande” proposte al giudice dell’impugnazione, sulle quali, per quanto a seguito di errata interpretazione ed individuazione del richiesto, si sia poi il giudice stesso pronunziato. In questa ipotesi, essendovi in ogni caso stata una pronunzia del Giudice sulla domanda, la doglianza non pu  essere prospettata sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c., a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, mentre la parte che lamenti tale errata interpretazione del richiesto deve farla valere nei termini di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Allorchè, invece, come nella fattispecie, il Giudice ritenga che la domanda non gli sia stata proprio proposta (a cui è da assimilare negli effetti l’ipotesi in cui ritenga che la domanda, per quanto proposta, non sia ammissibile) e quindi, sia pure per tale ragione, non si pronunzi, la mancanza di decisione sulla domanda concretizza il vizio di cui all’art. 112 c.p.c.. In altri termini l’error in procedendo pu  sussistere non solo nell’ipotesi in cui il giudice nulla dica in merito ad una domanda, ma anche allorchè egli espressamente la escluda nell’an, mentre nell’ipotesi in cui la questione attiene al “qualis” della domanda, la decisione è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo motivazionale.

8.3. Nella fattispecie dall’esame dell’atto di appello emerge con chiarezza che gli appellanti richiedevano la condanna dell’Università al risarcimento del danno sia per responsabilità contrattuale che extracontrattuale. Poichè il rigetto di tale domanda sotto entrambi i profili era avvenuto da parte del tribunale per la ritenuta mancanza di colpa, con il motivo D) dell’atto di appello gli appellanti specificamente si dolevano, con argomentazione che si contrapponeva a quella effettuata dal primo Giudice, che tale colpa esisteva con riferimento ad entrambe le ipotesi di responsabilità, assumendo che, per quanto riguardava la responsabilità contrattuale, competeva alla debitrice Università fornire la prova liberatoria della non imputabilità dell’inadempimento.

Ne consegue che la corte di appello, la quale erratamente ha ritenuto che la domanda di responsabilità contrattuale dell’Università fosse stata abbandonata implicitamente con l’atto di appello (id est: non fosse stata riproposta al giudice di appello), è incorsa in un’omessa pronunzia sul motivo di censura avverso la statuizione del primo giudice che aveva rigettato tale domanda.

  1. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione del disposto dell’art. 112

c.p.c., per omessa pronunzia sulla responsabilità del Ministero a norma dell’art. 2043 c.c..

Assumono i ricorrenti che, pur avendo essi proposto la domanda al giudice di primo grado per risarcimento dei danni a carico del Ministero sia ai sensi dell’art. 2043 c.c., che dell’art. 2050 c.c., e pur avendo ribadito tale richiesta con l’atto di appello, la corte di merito aveva ritenuto la responsabilità dell’Università per entrambi i titoli, mentre, per quanto riguardava il Ministero essa si era limitata a pronunziarsi solo sulla responsabilità ex art. 2050 c.c., (riconoscendola), omettendo ogni pronunzia rispetto all’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c..

  1. Il motivo è fondato.

Va, anzitutto, osservato che permane l’interesse processuale dei ricorrenti a coltivare tale motivo di impugnazione della sentenza di appello, pur in presenza di una statuizione di responsabilità extracontrattuale (quindi della stessa natura) sia pure solo ex art. 2050 c.c., in quanto, non essendo la decisione sul punto passata in giudicato, la fruttuosa impugnazione della stessa da parte del Ministero (come in effetti avviene infra in accoglimento del motivo quinto del ricorso incidentale) precluderebbe il riesame della questione della responsabilità extracontrattuale del Ministero ex art. 2043 c.c., in assenza di impugnazione.

Con l’atto di appello i ricorrenti hanno richiesto la riforma della sentenza del tribunale anche sul punto del rigetto della domanda di responsabilità del Ministero ex art. 2043 c.c., per mancata prova della colpa.

Ed in effetti il giudice di appello (pag. 10) individua il “thema decidendum”, a lui sottoposto, nell’esistenza o meno della colpevolezza del comportamento tanto dell’Università quanto del Ministero ai fini della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., Sennonchè nello sviluppo dell’argomentazione il Giudice di appello, che pur ritiene sussistente tale colpevolezza per l’Università, adottando argomentazioni riferite a volte anche al Ministero, dimentica di pronunziarsi sul medesimo punto,quanto alla posizione del Ministero, omettendo in merito ogni decisione (anche se il Ministero nel ricorso incidentale – motivo n. 4 – pare ritenere che ci sia stata un’affermazione della sua responsabilità anche ex art. 2043 c.c.).

Ne consegue che sul punto la sentenza impugnata ha violato l’art. 112 c.p.c., per omessa corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato.

  1. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione del disposto dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, per nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia, per violazione ed errata applicazione degli artt. 1223, 1226, 1241, 2043 e 2059 c.c., dell’art. 185 c.p., e degli artt. 2, 29, 30 e 32 Cost., nonchè per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Assumono i ricorrenti che essi, sia con la citazione in primo grado, sia con l’atto di appello avevano richiesto il risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale, subiti dalla B.L. e loro spettante iure hereditatis, nonchè del danno patrimoniale e non patrimoniale da loro subito per la morte della rispettiva madre e coniuge, loro spettante iure proprio; che la corte di appello aveva liquidato esclusivamente Euro 50.000,00 a titolo di danno morale (senza specificare se trattavasi di quello iure proprio o iure hereditatis) da dividersi secondo le quote ereditarie, danno liquidato equitativamente e tenuto conto che vi era stato un indennizzo già  di L. 150.000.000 da parte dello Stato; che era stata omessa ogni decisione in merito alle altre voci di danno; che tale non poteva considerarsi l’espressione “in difetto di prova di ulteriori pregiudizi”; che in ogni caso tale motivazione era insufficiente, avendo essi attori provato, ai fini del danno biologico la lunga degenza della congiunta fino alla morte; che essa era casalinga; che essi attori era conviventi con la rispettiva madre e moglie; che in ogni caso era errata la compensatio lucri cum damno effettuata; che la liquidazione del danno morale della B. era insufficiente.

12.1. Il motivo è parzialmente fondato.

A tal fine va osservato che il risarcimento del danno morale, del danno biologico e di quello patrimoniale compete “iure successionis” ai prossimi congiunti della persona deceduta, che abbiano agito in qualità di eredi e nei limiti della relativa quota, onde ottenere la riparazione dei danni sofferti in vita dal defunto e così da far valere il diritto al risarcimento già  entrato a far parte del patrimonio del defunto.

Ci  presuppone che sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse ed il danno (sia biologico che morale) va liquidato in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica del soggetto leso per il periodo di tempo indicato e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis” (Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131; Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131; Cass. 26 settembre 1997, n. 9470). La proposizione di domanda risarcitoria al suindicato titolo non è peraltro preclusa dalla presentazione di altra domanda volta a conseguire, nella qualità di prossimi congiunti del defunto, il risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali, a ciascuno di essi spettante “iure proprio” a causa della morte del congiunto (cfr. Cass. 09/03/2004, n. 4754; Cass. 07/03/2003, n. 3414).

12.2. Nella fattispecie gli attori, attuali appellanti, avevano richiesto iure hereditatis il risarcimento sia dei danni subiti dalla B. dalla data dell’insorgenza dell’infezione (anni 1983/1985) al momento del decesso ((OMISSIS)), sia i danni subiti iure proprio per la morte della rispettiva madre e moglie.

La corte di merito si è limitata a liquidare la somma di Euro 50.000,00 agli appellanti, quali eredi della de cuius (pag. 16, 1^ rigo). Quindi ha liquidato il solo danno morale iure hereditatis.

Tale liquidazione è stata effettuata, tenendo conto che il Ministero aveva già  corrisposto la somma di L. 150.000.000 a titolo di indennizzo.

12.3. Questo specifico punto è impugnato dai ricorrenti sia perchè ritengono esigua la somma sia perchè assumono che tale compensano non potesse effettuarsi.

Questa censura, relativa al danno morale iure hereditatis, va rigettata.

Quanto allo scomputo operato dal giudice di appello va osservato che la diversa natura giuridica dell’attribuzione indennitaria ex L. n. 210 del 1992, e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv ed Hcv a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei confronti del Ministero della sanità , per aver omesso di adottare adeguate misure di emovigilanza, non osta a che l’indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento.

Avendo quindi la sentenza impugnata correttamente ritenuto che nella fattispecie vada effettuato lo scomputo, esso opera anche nei confronti dell’Università, poichè, a parte altri possibili rilievi, nella fattispecie trattasi di obbligazione solidale e quindi avente ad oggetto la medesima prestazione.

12.4. Quanto alla censura di insufficienza della somma liquidata a tale titolo di danno morale subito dalla de cuius, che dopo 12 anni di malattia lasciava 2 figli minori ed un coniuge da lei infettato, va osservato che in tema di determinazione del danno morale, è censurabile in sede di legittimità l’esercizio del potere equitativo del Giudice di merito solo quando la liquidazione del danno stesso appaia manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura ed all’entità del danno dal medesimo Giudice accertate (Cass. 02/03/2004, n. 4186; Cass. 08/03/2006, n. 4980; Cass. 12/05/2006, n. 11039;). Nella fattispecie non pu ritenersi “simbolica” la soma liquidate a tale titolo, considerato che è stata liquidata la somma di Euro 50.000,00 proprio perchè è stata già  scomputata la somma di cui all’indennizzo.

12.5. Egualmente infondato è il ricorso sotto il profilo dell’omessa pronunzia, e quindi di violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il giudice rigettato la domanda di risarcimento in merito alle altre voci di danno, sia pure con la formula “in difetto di prova di ulteriori pregiudizi”. Infatti, a parte l’aspetto motivazionale, una pronunzia vi è stata.

12.6. Fondato è invece il ricorso nella parte in cui censura l’impugnata sentenza per vizio motivazionale, quanto al rigetto delle ulteriori domande risarcitorie con la suddetta motivazione.

Trattasi di motivazione assolutamente apparente ed in parte anche contraddittoria.

Infatti, quanto al danno biologico subito dalla B., avendo la corte di merito ritenuto che la stessa era stata infettata dal virus dell’HIV per effetto di assunzione di emoderivati e di plasma con sangue infetto tra il 1983 ed il 1985, poi degenerato in AIDS conclamato, che la portava a morte il (OMISSIS), è contraddittorio ritenere che non sussistesse un danno biologico durante tale periodo, peraltro in assenza di consulenza medico-legale, pur richiesta.

12.7. Quanto al danno patrimoniale subito dalla B., la sentenza omette di valutare le prove sull’attività di casalinga della de cuius, prodotte dagli attori, e le conseguenze della patologia su tale attività.

Chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente esercitata dalla “casalinga”), benchè non percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica; sicchè quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente rispetto al danno biologico, nelle componenti del danno emergente ed, eventualmente, anche del lucro cessante). Il fondamento di tale diritto – che compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di un nucleo familiare (legittimo o basato su una stabile convivenza), sia soltanto in favore di se stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, ma, a differenza del danno biologico, che si fonda sul principio della tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.), riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Cost., (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice) (Cass. 20/10/2005, n. 20324; Cass. 09/02/2005, n. 2639).

12.8. Quanto al danno patrimoniale subito iure proprio dagli attori, la corte di merito, per poter affermare il difetto di prova di ulteriori pregiudizi, avrebbe dovuto adeguatamente argomentare che la scomparsa della madre e moglie, casalinga nella fattispecie, non aveva prodotto alcun danno patrimoniale agli attori, che invece avevano offerto documentazione su tale attività familiare della de cuius.

La giurisprudenza di questa Corte è, invece, correttamente orientata nel ritenere che in caso di morte della casalinga, i congiunti conviventi hanno diritto al risarcimento del danno subito per la perdita delle prestazioni attinenti alla cura e assistenza da essa fornite. Tali prestazioni, benchè non produttive di reddito, sono valutabili economicamente, facendo riferimento al criterio del triplo della pensione sociale o sulla base del reddito di una collaboratrice familiare con gli opportuni adattamenti per la maggiore ampiezza di compiti della casalinga (Cass. 12/09/2005, n. 18092; Cass. 10/09/1998, n. 8970).

12.9. Quanto al danno non patrimoniale subito dai congiunti ture proprio per la perdita della rispettiva madre e moglie, è meramente apparente la motivazione di rigetto della domanda del risarcimento sotto il solo rilievo del “difetto di prova di ulteriori pregiudizi”.

E’ vero che la mera titolarità di un rapporto familiare non pu  essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, in termini di automatismo o anche solo di notorio, occorrendo di volta in volta verificare l’intensità oltre all’attualità del legame affettivo e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione con il congiunto, fino a comprometterne lo svolgimento, secondo un accertamento rimesso ai poteri esclusivi del Giudice del merito (e ci  sia sotto il profilo del c.d. danno morale soggettivo che del danno da perdita del rapporto parentale) (Cass. 04/11/2003, n. 16525). Esso, quale tipico danno conseguenza, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, potendosi tuttavia ricorrere a valutazioni prognostiche e presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi fomiti dal danneggiato, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti, la compromissione delle esigenze di questi ultimi (Cass. 15/07/2005, n. 15022).

Nella fattispecie pur avendo gli attori fornito la prova del rapporto di parentela in linea retta e di coniugio, dell’età di tutte le parti e del rapporto di convivenza, la corte di appello non ha preso in considerazione tali elementi.

Pertanto, in relazione a queste censure di vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, nella parte in cui ha rigettato l’appello in merito al danno patrimoniale e biologico richiesto iure hereditatis ed al danno patrimoniale e non patrimoniale richiesto iure proprio per il decesso della B., il motivo di ricorso va accolto.

  1. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2056 e 1223 c.c., nonchè il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza per aver la corte territoriale riconosciuto la decorrenza degli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza e non da quella del fatto illecito. 14.1. Il motivo è fondato.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (ex multis: Cass. 3/08/2005, n. 16237; Cass. 10/03/2006, n. 5234), che fa capo alla decisione delle S.U. 17 febbraio 1995, n. 1712, gli interessi c.d. compensativi sui debiti di valore devono essere computati o con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente (per effetto dei prescelti indici di rivalutazione), ovvero in base ad un indice medio, egualmente applicabile dal giudice, tenuto conto che detta liquidazione del danno da ritardo, per quanto effettuata secondo la tecnica degli interessi, rientra pur sempre nello schema liquidatorio del danno di cui all’art. 2056 c.c., (tra cui il potere equitativo ex art. 1226 c.c.).

Ritenuto che gli interessi in questione adempiono solo alla funzione di tecnica liquidatoria del danno da ritardo, detto danno in luogo degli interessi legali pu  essere liquidato anche equitativamente dal Giudice, o, come si suoi dire, con la liquidazione equitativa di detti interessi, ed anche il giudice pu  effettuare una liquidazione equitativa globale, in un’unica somma, comprendente sia la prestazione ed. principale, che la rivalutazione monetaria e gli interessi, ove anche per tali voci ricorrano le condizioni di cui all’art. 1226 c.c., (richiamato dall’art. 2056 c.c.), proprio per la natura unitaria dell’obbligazione di valore, senza necessità di specificare i singoli elementi della liquidazione (Cass. 24.3.2003, n. 4242; Cass. 13 marzo 1995, n. 2910).

E’ tuttavia necessario che il giudici specifichi se tale liquidazione investa solo la somma capitale, ovvero essa e la rivalutazione (generalmente tradotta nella locuzione che la liquidazione è effettuata “all’attualità” o “in moneta attuale”) ovvero che comprenda anche il danno da ritardo (funzione altrimenti assolta dagli interessi c.d. compensativi).

14.2. Nella fattispecie, la corte di merito si è limitata a dire che il danno era liquidato all’attualità, ma non anche che nella somma liquidata era compreso il danno da ritardo. Ci  comporta che erratamente essa ha liquidato tale danno, con la tecnica degli interessi, solo a decorrere dalla data della pubblicazione della sentenza e non dalla data del fatto dannoso.

  1. Con il quinto motivo di ricorso il solo ricorrente G.F. lamenta la violazione dell’art. 342 c.p.c., artt. 2043, 2056, 1223 c.c., artt. 40 e 41 c.p., art. 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c., nonchè il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza per aver rigettato la domanda di risarcimento del danno da lui proposta, danno subito a seguito del contagio da AIDS dovuto ai rapporti sessuali con la moglie, in periodo precedente all’avvenuta consapevolezza della patologia contratta da questa.

Assume il ricorrente che l’appello presentava una specifica doglianza in merito al rigetto di tale domanda; che sussisteva il nesso causale tra il comportamento omissivo dei convenuti, il contagio della moglie ed il contagio suo a seguito dei rapporti sessuali (tra l’altro la moglie aveva procreato due figli ed avuto due aborti); che il rapporto sessuale era un veicolo di trasmissione dell’infezione; che non era stata dedotta dai convenuti l’esistenza di fatti o elementi probatori di segno contrario; che il certificato della sezione di ematologia dell’Università di Roma del (OMISSIS) dichiarava verisimile che la causa del contagio era costituita dai rapporti sessuali con la moglie, portatrice dell’infezione; che il contagio era stato accertato nel 1993, mentre la moglie aveva riportato l’Hiv per assunzioni di emederivati e plasma, avvenute tra il 1983 ed il 1985; che quindi sussisteva il nesso causale posto in dubbio dalla corte di merito.

16.1. Il motivo è fondato.

Va, anzitutto, escluso, come sostenuto dalla corte di merito che il motivo di appello del G. fosse sul punto generico.

La sentenza del tribunale aveva, infatti, rigettato tutte le domande sotto il profilo della mancanza di colpevolezza dei convenuti e non sotto il profilo della mancanza di nesso causale.

Con l’appello il G. ha impugnato anzitutto la motivazione fondante il rigetto della domanda (e cioè l’assenza di colpevolezza) e nel motivo lett. G) dell’appello ha censurato specificamente la sentenza di primo grado in merito al mancato accoglimento della sua domanda di risarcimento del danno per infezione da HIV. 16.2. Fondata è anche la censura in merito alla violazione dei principi che regolano i criteri di accertamento del nesso, una volta ritenuto che il comportamento omissivo dei convenuti era causa del contagio da HIV, subito dalla moglie del G..

La corte di merito ritiene provato il nesso causale tra il comportamento omissivo dei convenuti ed il contagio della B., ma ritiene che non sia ulteriormente provato il segmento causale che va dal contagio di quest’ultima al contagio del coniuge G..

Riservandosi di tornare più dettagliatamente sui principi che regolano il nesso di causalità tra evento e comportamento omissivo, allorchè si esaminerà il 4^ motivo del ricorso dei ricorrenti incidentali, va qui solo rilevato che il problema che si pone non è se il comportamento dei convenuti abbia dato causa al contagio della B., che per la corte è un dato positivamente accertato, ma se quest’ultimo a sua volta sia eziologicamente collegato al contagio del coniuge.

In altri termini qui non è in rilievo il nesso causale tra un comportamento omissivo dei convenuti ed un primo evento (subito dalla B.), ma il problema è l’assunta mancanza di prove sul nesso causale tra quest’ultimo e l’evento dannoso subito dal G., il quale attraverso tale collegamento causale, finirebbe per essere imputabile ai convenuti.

Pertanto, essendo certo che il G. è affetto da AIDS, la questione è se tale malattia l’abbia conseguita da rapporto sessuale con la moglie, nel qual caso sarebbe accertata la responsabilità dei convenuti, ovvero da causa rimasta ignota.

16.3. Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona va tenuta distinta la c.d. causalità generale dalla ed. causalità individuale o del singolo caso.

La causalità generale è un’espressione che ha fatto ingresso nel mondo giuridico sotto l’impulso di moderne scienze, come l’epidemiologia o la biologia animale: essa sta ad indicare l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe su popolazioni indagate (cioè su gruppi e non su singoli individui). Essa si fonda su un giudizio di probabilità scientifica e si contrappone alla causalità individuale, cioè al nesso di condizionamento tra esposizione a rischio e singolo evento lesivo. Anche questa non sempre pu  essere sostenuta da un giudizio di certezza assoluta, ma di probabilità scientifica, ma trattasi in questo caso di probabilità relativa alla concretizzazione nel singolo caso della legge causale generale.

Questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, pu  essere fondata anche sulla base della prova presuntiva, che presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Infatti la prova presuntiva è mezzo non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice pu  far ricorso anche in via esclusiva per la formazione del suo convincimento, secondo le regole di cui all’art. 2727 c.c., (Cass. S.U. 24/03/2006, n. 6572).

Il principio in tutti questi casi continua ad essere quello per cui l’attore è tenuto a provare il nesso di causa, ma si tratta di una prova che pu  essere caratterizzata da meccanismi di tipo presuntivo.

16.4. Quanto alla censura di violazione degli artt. 2727, 2729 c.c., e di vizio motivazionale, osserva questa Corte che secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, nella ricerca e nella valutazione degli elementi presuntivi del proprio convincimento, il giudice del merito è investito del più ampio potere discrezionale, nel senso che è libero di scegliere gli elementi che ritiene maggiormente attendibili e meglio rispondenti all’accertamento del fatto ignoto ed a valutarne la gravità e la concludenza. Il giudice deve comunque procedere ad un esame organico e complessivo (globale) degli elementi di fatto presi in considerazione, cioè esprimere un ragionamento non viziato da illogicità o da errori giuridici, quale l’esame isolato dei singoli elementi presuntivi, al fine di ritenerne la irrilevanza caso per caso (Cass. 13/10/2005, Cass. 10.6.1995, n. 6556). E’ ovvio poi che, se in tema di prove per presunzione, il controllo della Corte di Cassazione non pu  riguardare il convincimento del giudice del merito sulla rilevanza probatoria degli elementi indiziari o presuntivi, convincimento che costituisce indubbiamente un giudizio di fatto, pu  tuttavia incidere sulla congruità e logicità della motivazione posta a base del cennato convincimento. La sentenza potrà, se del caso, essere censurata sotto il solo profilo della insufficiente motivazione, consistente nella mancata rilevazione, da parte del giudicante, del fatto che gli elementi noti e non considerati deponevano, con il dovuto grado di probabilità, nel senso della ricorrenza del fatto ignoto (Cass. 04/03/1998, n. 2393).

16.5. Nella fattispecie il giudice di appello ha apoditticamente affermato che l’unico elemento di prova sul nesso causale era rappresentato dal certificato della sezione ematologia dell’Università di Roma del (OMISSIS) e che, contenendo esso solo un giudizio di verosimiglianza sul contagio del G. per i rapporti sessuali con la moglie ammalata, non consentiva di raggiungere certezza probatoria necessaria per il nesso di causalità, senza neppure ammettere la consulenza tecnica richiesta dall’attore.

Come correttamente rilevato dal ricorrente, non ha valutato la corte d’appello che la B. era contagiata dal (OMISSIS); che il contagio del G. fu accertato nel (OMISSIS); che i coniugi avevano avuto due figli e due aborti; che era notorio che i rapporti sessuali sono uno dei veicoli principali di diffusione dell’HIV; che, soprattutto, non erano stati individuati e neppure dedotti dai convenuti altri ipotetici fattori alternativi di infezione.

Così operando il Giudice di merito da una parte non ha valutato complessivamente i vari elementi di fatto, in violazione dell’art. 2729 c.c., e dall’altra ha dato una motivazione insufficiente.

16.6. Va quindi accolto il motivo di ricorso e vanno affermati i seguenti principi di diritto:

  1. A) “Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona pur dovendosi distinguere la c.d. causalità generale (l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe su popolazioni indagate, cioè su gruppi e non su singoli individui) dalla c.d. causalità individuale o del singolo caso (relativa alla probabilità ragionevole della concretizzazione nel singolo caso della legge causale generale) va rilevato che questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, pu essere fondata anche sulla base della prova presuntiva, che presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza”. B)” Ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità civile, diversamente da quella penale dove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti”. C) “Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti valutativi; in primo luogo, occorre che il Giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi. E’ pertanto viziata da errore di diritto e censurabile in sede di legittimità – a tale sindacato sottraendosi l’apprezzamento circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte di presunzione e la loro concreta rispondenza ai requisiti di legge soltanto se il relativo giudizio non risulti viziato da illogicità o da erronei criteri giuridici – la decisione in cui il Giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento”. 17. L’accoglimento dei predetti motivi di ricorso comporta l’assorbimento del sesto motivo, relativo alla statuizione sulle spese processuali.
  2. Con il quarto motivo del ricorso incidentale i ricorrenti Università e Ministero della Salute lamentano la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di responsabilità extracontrattuale, difetto di prova del nesso di causalità, violazione dell’art. 2043 c.c., e della responsabilità aquiliana da comportamento omissivo, difetto dell’elemento colposo, difetto di motivazione a norma dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assumono i ricorrenti incidentali che non sussiste alcun nesso di causalità tra il loro ritenuto comportamento omissivo e l’infezione della B., in quanto essendo la stessa avvenuta nei primi anni (OMISSIS), allorchè era ancora sconosciuto il virus dell’HIV, la mancata conoscenza di questo virus e di strumenti idonei ad individuarlo rileva sia sotto il profilo dell’inesistenza del nesso causale che della colpevolezza.

19.1. Il motivo è infondato.

Va esaminata la questione del nesso causale in ipotesi di responsabilità aquiliana.

Osserva preliminarmente questa Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anzichè al “fatto illecito”, divenuto “fatto dannoso”.

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ci  che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un “fatto” è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.

Il “danno” rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.

Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria.

19.2. Proprio in conseguenza di ci  si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbigazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c.,(richiamato dall’art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità “strutturale” (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già  accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell’art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il comma 2 attiene al rapporto evento – danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.

Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” è addebitata a chi “cagiona ad altri un danno ingiusto”, o, come afferma l’art. 1382 Code Napoleon “qui cause au autrui un dommage”.

Un’analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità c.d. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno”, cui è dedicato l’art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell’art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.

19.3. Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (ed. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già  in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

19.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poichè non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ci  che rileva è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento.

Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ci  che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito.

Inoltre se l’accertamento della prevedibilità dell’evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).

19.5. Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’art. 40 c.p., comma 2.

Poichè l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non pu  limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.

La causalità nell’omissione non pu  essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit.

Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell’omissione e non la causalità normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art. 40 c.p.) fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perchè l’evento potesse realizzarsi.

La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non pu  riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico), ma perchè quell’omissione non è causa del danno lamentato.

Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.

L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

19.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla “regolarità causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.

Tanto vale certamente allorchè all’inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’art. 2043 c.c..

Nè pu  costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicità dell’illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non pu  definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito.

Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e danno è tutto normativo.

19.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla ” regolarità causale”, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.

Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che pu  anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.

E’ vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.

L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.

E’ vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ci  comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico – logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e pu  anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l’ingiustizia del danno.

19.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non pu  essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare responsabile”. Ci  perchè nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.

19.9. Sennonchè detto ci , ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all’inizio della serie causale.

Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso.

In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante pu  essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile.

19.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ci  che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”).

Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non pu  essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

  1. La corte di appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.

A parte il rilievo che l’evento dannoso è costituito nella fattispecie dalla lesione all’integrità fisica per effetto della trasfusione di sangue infetto, per cui la prevedibilità di tale lesione andrebbe retrodatata al momento in cui era stata individuata tale possibile veicolazione di virus, indipendentemente dal punto se trattavasi di virus dell’epatite B o C o dell’HIV, tuttavia, per rimanere nell’impostazione argomentativi – fattuale in cui si è sviluppato il giudizio tra le parti, va osservato che, con accertamento di merito rientrante nella sua esclusiva competenza, il giudice di appello ha rilevato che, come emergeva dalla circolare n. 64 del 1983 del Ministero della Sanità, questi, sia pure in ritardo rispetto ad Autorità sanitarie straniere, già  in quell’anno segnalava il rischio Aids per coloro che erano esposti a frequenti trasfusioni e somministrazioni di emoderivati.

Ne consegue che, poichè quanto meno da quell’anno anche il virus dell’HIV era noto, non pu  poi sostenersi una mancanza di nesso causale (secondo il principio della c.d. “regolarità causale”) sotto il profilo che l’evento infettivo (Aids) era del tutto inverisimile. La corte di merito con congruo accertamento ha stabilito che nel giugno del 1983 la B. non era contagiata, come risultava dal “check up” effettuato in quella data, e che quindi, tenuto conto di questo dato, del fatto che l’accertamento della sieropositività avvenne nel (OMISSIS) nonchè della attestazione rilasciata dalla sezione ematologia dell’Università di Roma del 2.4.1992, il contagio da emotrasfusione avvenne tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), biennio nel quale, conoscendosi l’esistenza e la pericolosità delle trasfusioni ai fini del contagio da virus HIV, ormai noto, l’evento dannoso non era per la scienza (e per la regola statistica) imprevedibile e, quindi, improbabile.

Ne consegue che correttamente è stato affermato il nesso di causalità tra i comportamenti (dovuti ma omessi) del Ministero e dell’Università e l’evento dannoso subito dalla B.. Poichè l’elemento materiale nella fattispecie è unico, sia nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2043 c.c., che in quello ex art. 2050 c.c., l’accertamento in questione dell’elemento materiale (nelle sue tre componenti di comportamento omissivo, nesso causale ed evento dannoso-contagio) produce i suoi effetti ai fini ricostruttivi di entrambe le ipotesi di responsabilità. 21.1. La Corte d’appello ha altresì rilevato che sussiste la colpevolezza dell’Università, esclusa dal primo giudice, per cui ne ha affermato la responsabilità sia a norma dell’art. 2043 c.c., che a norma dell’art. 2050 c.c..

Quanto al Ministero, pur dando atto dell’esistenza del motivo di appello relativo alla ritenuta non colpevolezza e pur sviluppando un’argomentazione sulla presenza in concreto (e non presunta) di tale colpevolezza con riferimento anche all’attività del Ministero, tuttavia la sentenza impugnata conclude poi sulla responsabilità ex art. 2043 c.c., della sola Università, senza alcuna pronunzia sul punto per il Ministero (donde la ritenuta presenza della violazione dell’art. 112 c.p.c., fatta valere dai ricorrenti principali con il motivo n. 2).

Il Ministero ha interpretato, contrariamente ai ricorrenti, la sentenza come se essa contenesse anche un’affermazione della sua responsabilità ex art. 2043 c.c.. Poichè tanto non è, proprio perchè, fermo l’accertamento positivo dell’elemento materiale, la corte di appello non si è pronunziata sull’elemento della colpevolezza in concreto del Ministero, escluso dal Tribunale, tale censura relativa all’elemento della colpevolezza in concreto del Ministero è inammissibile, non essendovi stata sul punto soccombenza.

21.2. La censura va, invece, esaminata solo in relazione alla posizione dell’Università. Aderendosi ad una concezione oggettiva (o sociale) della colpa, e quindi ad un apprezzamento in abstracto della diligenza ordinaria, il modello di comportamento richiesto non pu  non definirsi che con riferimento alle condizioni concrete nelle quali la condotta dannosa è tenuta, ci  segnatamente allorchè il danno sia stato causato da un comportamento omissivo di un obbligo comportamentale.

In questo caso, la responsabilità da omissione sorge, secondo l’ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere previsto ed evitato adottando l’ordinaria diligenza.

La corte di merito ha ritenuto, con motivazione esente da vizi, (pag. 10 e segg.) che “elementari ragioni di prudenza avrebbero dovuto indurre l’Università……. ad esercitare i poteri di vigilanza e controllo di loro competenza nelle emotrasfusioni”. 22. Con il quinto motivo del ricorso incidentale il solo ricorrente Ministero della Salute lamenta la violazione dell’art. 2050 c.c., per aver la sentenza impugnata ritenuto che costituisse esercizio di attività pericolosa quella di emovigilanza da lui esercitata.

  1. Il motivo è fondato.

Sull’esistenza di obblighi normativi a carico del Ministero della Salute per la vigilanza e controllo nell’ambito dell’uso terapeutico di sangue umano, si è già  detto sopra.

Tuttavia la pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati (riconosciuta nel D.M. Sanità 15 gennaio 1991, art. 19, come non esente da rischi e già  nota nella remota sentenza delle S.U. 19.6.1936, in giur. it. 1936, 866) non rende ovviamente pericolosa l’attività ministeriale, la cui funzione apicale, è solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma di un’attività in senso lato imprenditoriale (ritenuto da parte della dottrina, elemento necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c.), in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per la collettività.

La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati negli interventi trasfusionali appare inquadrarle nella violazione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c..

  1. Con il sesto motivo di ricorso i ricorrenti incidentali lamentano la violazione e falsaapplicazione dei principi in materia di prescrizione ex art. 2947 c.c. e segg., ed il difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. 25. Con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dei principi di cui all’art. 2947 c.c., e di decorrenza della prescrizione, in collegamento con l’art. 2697 c.c., e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Con i predetti due motivi i ricorrenti lamentano la violazione dei principi in materia di prescrizione ed in particolare la mancata applicazione dell’art. 2947 c.c., secondo il quale la semplice e soggettiva ignoranza del danneggiato sull’esistenza del danno da lui subito non è idonea a produrre il decorso della prescrizione. Negano inoltre che si possa applicare il più lungo termine di prescrizione previsto per eventuale illecito penale di epidemia colposa o lesioni colpose, che in ogni caso non sussisteva alcun reato per mancanza dell’elemento soggettivo e per la presenza di cause di giustificazioni, e che, in ogni caso la prescrizione non poteva decorrere dalla data del verbale redatto dalla Commissione medica ex lege.

  • I due suddetti motivi, stante la connessione, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte infondati ed in parte inammissibili.

Essi sono inammissibili quanto alla posizione del Ministero.

Infatti il Tribunale dichiar  che l’eccezione del Ministero di prescrizione era stata tardivamente proposta. L’eccezione non fu riproposta in appello ex art. 346 c.p.c., per cui correttamente la corte di merito si è limitata a decidere esclusivamente sull’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università, accolta dal tribunale ed impugnata dagli attori appellanti.

Ne consegue che i due suddetti motivi di ricorso, attinenti alla prescrizione, sono inammissibili quanto alla posizione del Ministero.

  • Va, poi, osservato che la ritenuta insussistenza della prescrizione da parte del Giudice diappello è stata affermata sulla base del normale termine di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, e non di quello più lungo, equiparato alla prescrizione penale, di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, con la conseguenza che le censure fondate su tale ultima norma (ipotesi di reato) sono inammissibili perchè non conferenti. Infatti le censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (ex multis, Cass. 07/11/2005, n. 21490 ;Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n. 7046).
  • Quanto al termine di prescrizione ordinaria quinquennale, tenuto conto che la citazione èstata notificata il 10.3.1997 correttamente la corte di merito ha distinto i danni richiesti dagli attori ture proprio per il decesso della congiunta (avvenuto nel (OMISSIS) e per i quali quindi non vi è spazio per una problematica di prescrizione) e quelli richiesti iure hereditatis a seguito di tale decesso ovvero quelli richiesti dal G.F. per il proprio contagio.
  • Il punto di maggior rilievo è l’individuazione del dies a quo per la decorrenza dellaprescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.

Come è noto, in base all’art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto pu  essere fatto valere. L’art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si è verificato”.

Nell’evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il significato da attribuirsi all’espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno si manifesta all’esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica.

La Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell’art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o pu  essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non pu  iniziare a decorrere, poichè la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sè a concretizzare il “fatto” che l’art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n. 2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “rapportabilità causale”. 26.5. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” pu , come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti.

E’ quindi del tutto evidente come l’approccio all’individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell’inadempimento – e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili – ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ci  tenuto ( ci è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medicai malpractice).

26.6. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal giudice senza scivolare verso un’indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.

26.7. Nella fattispecie la sentenza impugnata, con accertamento fattuale esente da censure in questa sede di sindacato di legittimità, ha accertato che la B. solo con la certificazione rilasciatale dalla sezione ematologia dell’Università di Roma il 2.4.1992 ebbe cognizione che la sua sieropositività fosse riconducibile alle emotrasfusioni effettuate, mentre la citazione davanti al tribunale è stata notificata il 10.3.1997.

Peraltro la ricorrente Università non assume di aver prodotto (o che in ogni caso esistevano agli atti) altre prove, non valutate dal giudice di appello, da cui risultava una diversa data della conoscenza da parte della B. della sua malattia e della probabile causa della stessa da individuarsi in un comportamento colposo di un terzo.

Va a tal fine rilevato che il debitore, che eccepisce la prescrizione, ha l’onere di provare la stessa (quale fatto estintivo del diritto azionato) e quindi anche la data di decorrenza (Cass. 13/12/2002,

  1. 17832; Cass. 05/02/2000, n. 1300).
  2. Con l’ottavo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., nonchè il difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assumono i ricorrenti che erratamente è stato riconosciuto il risarcimento del danno morale, pure in presenza di una presunzione di responsabilità oggettiva (quale sarebbe quella di cui all’art.

2050 c.c.) e non una presunzione di colpa a carico dei ricorrenti.

  1. Il motivo è infondato.

Infatti, a parte il rilievo che la responsabilità dell’Università è stata affermata anche a norma dell’art. 2043 c.c., va osservato che l’infondatezza del motivo discende dal nuovo orientamento interpretativo dell’art. 2059 c.c., adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben pu  essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.

Nella fattispecie si verte appunto in tema di lesione di valori costituzionalmente garantiti attinenti alla persona umana, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale, a prescindere dalla limitazione posta dall’art. 185 c.p..

  1. Pertanto vanno accolti il primo, il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale e,parzialmente, anche il terzo, assorbito il sesto.

Quanto al ricorso incidentale va accolto il quinto motivo e vanno rigettati i restanti. Va cassata, in relazione ai motivi accolti, l’impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà ai principi esposti ai punti: 14.1. e 16.6..

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie il primo, il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale e, nei termini di cui in motivazione, anche il terzo; dichiara assorbito il sesto. Accoglie il quinto motivo del ricorso incidentale e rigetta i restanti. Cassa, in relazione ai motivi accolti, l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008

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