Sentenza del Tribunale di Roma, 14 Giugno 2001
L’epoca di acquisizione delle infezioni
La Corte d’appello nel confermare la decisione di primo grado ha precisato che nessuna responsabilità può attribuirsi al Ministero per le infezioni virali contratte prima che fossero acquisite “le conoscenze scientifiche sulla certezza diagnostica delle infezioni da HIV, HBV, HCV attraverso il controllo della sieropositività e la messa a punto dei meccanismi immunologici atti ad impedire il contagio tramite le emotrasfusioni e l’assunzione di emoderivati”; di conseguenza, la Corte ha individuato nel 1978 (in cui fu approntato il test diagnostico rivelatore del virus da epatite B), nel 1985 (in cui fu approntato il test c.d. Elisa rivelatore dell’HIV) e nel 1988 (in cui fu imposto il c.d. termotrattamento contro il rischio di trasmissione del virus da epatite C, sebbene il test sia stato messo a punto nel 1989) gli anni a partire dai quali sarebbe configurabile la responsabilità del Ministero per le infezioni, rispettivamente, da epatite B, HIV ed epatite C.
Questa impostazione presuppone che si sappia (o sia possibile sapere) quando il contagio è avvenuto, cioè quando il virus è entrato in contatto con l’organismo infettandolo: è solo in questo caso che sarebbe possibile giudicare dell’eventuale responsabilità della p.a. valutando se la stessa abbia posto in essere, anche mediante il controllo e la vigilanza sulle strutture sanitarie aventi compiti operativi, tutte le misure precauzionali che all’epoca erano consigliate dalla scienza al fine di evitare o ridurre i rischi connessi alla pratica trasfusionale.
Tuttavia, com’è noto, i test diagnostici di rilevazione dell’epatite B, C e dell’HIV non sono in grado di accertare l’epoca del contagio, sicché il riferimento ad essi non è utile a questo scopo, essendo essi idonei soltanto a rivelare la presenza del virus nell’organismo al tempo in cui l’esame è effettuato.
E’ evidente, inoltre, che se non si condivide lo sbarramento temporale posto dalla Corte ovvero se questo sbarramento viene collocato in epoca più risalente (e cioè, così anticipando le conclusioni finali, agli inizi degli anni ’70), viene meno parte dell’utilità di accertare l’epoca in cui l’infezione è avvenuta.
Tuttavia, è opportuno esaminare il problema, dovendosi ai fini della valutazione della colpa della p.a. fare necessario riferimento alle conoscenze scientifiche del tempo cui si riferisce la condotta omissiva contestatale (e cioè al periodo in cui si può presumere che sia avvenuto il contagio) e, per altro verso, dovendosi rispondere all’obiezione della difesa erariale (che sembrerebbe implicitamente accolta dalla Corte di appello) secondo cui il Ministero dovrebbe essere assolto in tutti i casi in cui l’esposizione a fattori di rischio di contagio (cioè a trasfusioni o somministrazione di emoderivati) sia (iniziata in epoca) precedente a quegli anni (1978, 1985 e 1988).
A questo riguardo, non si può fare a meno di considerare che si tratta di soggetti (come gli emofilici e coloro che siano affetti da altre emopatie croniche) costretti ad assumere emoderivati o a sottoporsi a trasfusioni di sangue intero o di suoi componenti periodicamente e per tutta la vita. Sicché, presumere che il contagio sia avvenuto il giorno (che a volte risale ad anni anche molto risalenti con punte sino agli anni ’50) di inizio del trattamento, il quale è poi proseguito per decenni, anche dopo gli anni di sbarramento sopra indicati e sino agli anni ’90 o prosegue tuttora, non può essere condiviso.
Se si condivide la premessa secondo cui occorre aver riguardo alla condotta del Ministero durante l’intero arco temporale del trattamento trasfusionale (in senso lato), la responsabilità dell’amministrazione non può essere negata laddove sia dimostrabile che il contagio sia avvenuto in epoca successiva agli anni indicati dalla Corte (1978, 1985 e 1988), essendo in questi casi ancor più grave la responsabilità per condotta omissiva della p.a., in quanto erano già conosciuti e diffusi i metodi di rilevazione diretta dei virus.
Ma analoga responsabilità riguarda le infezioni che dalla documentazione sanitaria (e dallo schema riassuntivo) in atti sembrerebbero contratte prima di quegli anni (come risulta dalle diagnosi verosimilmente effettuate, anche in data successiva, in base ai sintomi della malattia, attesa l’inesistenza in quei tempi di esami per la rilevazione sierologia dei virus in questione): ci si riferisce a xxx (HCV nel 1986), xxx (HIV nel 1983), xxx (HIV nel 1983, HCV nel 1987), xxx (HIV nel 1984), xxx (HIV nel 1983), xxx (HIV nel 1983), xxx (HCV nel 1977), xxx (HBV nel 1971, HIV nel 1983), xxx (HIV nel 1984), xxx (HIV nel 1984), xxx (HCV nel 1986), xxx (HBV nel 1976), xxx (HIV nel 1984), xxx (HCV nel 1981), xxx (HIV nel 1984), xxx (HIV nel 1984), xxx (HIV nel 1983), xxx (HIV e HCV nel 1984), xxx (HIV nel 1983), xxx (HIV nel 1983), xxx (HCV nel 1984), xxx (HCV nel 1986), con la precisazione che alcuni di essi sono risultati affetti anche da altri virus.
Infatti, nonostante (nei suddetti casi) la rilevazione della malattia sia avvenuta in date precedenti a quelle di sbarramento individuate dalla Corte, essendo il trattamento proseguito (nel senso che la somministrazione di emoderivati ovvero le trasfusioni sono avvenute) anche successivamente ai primi anni ’70 in cui, come si vedrà , è configurabile la responsabilità del Ministero, si deve ritenere che la condotta omissiva di quest’ultimo abbia contribuito alla diffusione delle infezioni.
La soluzione che vorrebbe addossare ai danneggiati l’onere di fornire l’ardua prova della data in cui il virus è entrato in contatto con l’organismo, non è condivisibile, specie nell’ambito di un giudizio, com’è questo, avente ad oggetto l’accertamento della generica potenzialità lesiva della condotta illecita sulla base di un apprezzamento di probabilità o verosimiglianza: al principio di prova offerto dai danneggiati circa l’esposizione ai rischi di infezioni post-trasfusionali in epoca successiva ai primi anni ’70 (e sino agli anni ’80-’90), il Ministero non ha contrapposto alcun elemento di prova contrario, non avendo nemmeno dedotto l’interruzione del trattamento trasfusionale prima di quegli anni ovvero allegato una causa diversa del contagio (è significativo, del resto, che agli anni ’70 si riferiscono le prime segnalazioni di epatite chiamata “non A non B” che, nell’80% circa dei casi, è causata dal virus dell’HCV e che solo nel 1981 furono segnalati i primi casi di Aids).
E’ giunto il momento di dimostrare che lo stato delle conoscenze progressivamente raggiunte dalla scienza sin dagli anni ’70 avrebbe dovuto indurre il Ministero della sanità ad esercitare attivamente il dovere di controllare e vigilare sulla sicurezza del sangue e dei suoi derivati distribuiti dal servizio sanitario nazionale.